L'Italia dei notabili - 1861-1900
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L'Italia dei notabili - 1861-1900

La storia d'Italia #9

  1. 432 pagine
  2. Italian
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L'Italia dei notabili - 1861-1900

La storia d'Italia #9

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Dopo il tumultuoso periodo del Risorgimento e dell'unificazione si aprono anni fondamentali per la costruzione dello Stato e gravidi di conseguenze sul suo sviluppo. I moderati hanno fatto l'Italia e l'hanno guidata nei suoi primi passi, avviando però una gestione da cui le grandi masse sono escluse; un "feudo di classe", per usare le parole dell'autore. Nelle prime elezioni nazionali - svolte nel gennaio 1861, mentre ancora al Sud resistono piazzeforti borboniche - il partito moderato trionfa, ma a dargli il successo è una minoranza della popolazione; il diritto di voto riguarda soltanto il due per cento dei cittadini, e in molti seguono l'invito all'astensione predicato dai parroci. Su questa base ristretta, prima la Destra e poi la Sinistra storiche, tentano di affrontare le grandi questioni che gravano sul Paese: l'assetto amministrativo, l'istruzione, il rapporto con la Chiesa, il brigantaggio, la crisi agricola, i primi grandi appalti e i lavori pubblici, lo scandalo della Banca Romana, la guerra d'Africa e le sconfitte di Dogali e Adua… Anni difficili, in cui già si avvertono le avvisaglie di una crisi violenta. Un quadro sociale, politico ed economico nel quale spiccano, come sempre, le grandi personalità che hanno fatto la storia: Di Rudinì, Depretis, Ricasoli, Giolitti e, troneggiante su tutti, l'imponente figura del conte di Cavour. Montanelli, con competenza e maestria, ci regala l'affresco di un periodo che preannuncia molti aspetti dell'Italia contemporanea.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642979
Argomento
Storia
L'ITALIA DEI NOTABILI
AVVERTENZA
In questo volume ho cercato di riassumere gli avvenimenti del quarantennio compreso fra la proclamazione dell’Unità nel 1861 e l’uccisione di re Umberto nel 1900. L’ho chiamato L’Italia dei notabili perché mi sembra che siano stati costoro a dare il carattere più saliente alla vita italiana di questo periodo.
Molte cose vi mancano. Vi manca per esempio un panorama culturale. Me l’ero proposto. Gli avevo anche dedicato alcuni capitoli. Ma poi vi ho rinunciato, sopraffatto – lo confesso – dalla complessità del compito, e ho preferito attenermi a un quadro strettamente politico, sociale ed economico. Se sono riuscito a renderlo, sia pure con una certa sommarietà, credo di potermene contentare.
Un caloroso ringraziamento lo debbo alla signora Maria Stella Signorini Sernas per la valida collaborazione che mi ha dato nella ricerca e nella cernita delle fonti.
I.M.
Ottobre 1973

PARTE PRIMA

GLI ANNI DELLA DESTRA

CAPITOLO PRIMO

«SIC TRANSIT...»

Come abbiamo detto a chiusura del precedente volume, nel gennaio del ’61, quando ancora nel Sud resistevano le tre cittadelle borboniche di Gaeta, Civitella del Tronto e Messina, si svolsero le elezioni, le prime a carattere nazionale. Per il partito moderato di Cavour fu un trionfo. Ma non va dimenticato che su oltre venti milioni di abitanti, il diritto di voto era riconosciuto solo a quattrocentomila, che rappresentavano il due per cento della popolazione, e che a esercitarlo furono poco più della metà perché i parroci avevano predicato l’astensionismo. Fu questa Camera rappresentativa di una ristretta minoranza, che nel marzo proclamò l’Unità e riconobbe il titolo di Re a Vittorio Emanuele II e ai suoi legittimi successori. Dopodiché, come la prassi richiede a ogni rinnovo di legislatura, il governo presentò le dimissioni.
L’incarico di formarne uno nuovo fu affidato naturalmente a Cavour, che badò soprattutto a dargli un carattere meno piemontese e più italiano con un abile dosaggio di esponenti di tutte le regioni. Per la Toscana c’era Peruzzi, Fanti e Minghetti per l’Emilia, De Sanctis e Niutta per Napoli, Natoli per la Sicilia eccetera. Esso si presentò alla Camera in aprile e, nonostante le forze di cui disponeva, fu subito investito dalla tempesta. A provocarla fu Garibaldi.
Dopo la partenza da Napoli, il Generale si era ritirato a Caprera dicendo a tutti, forse anche a se stesso, che di politica non voleva più saperne. Perciò, quando i Napoletani gli offrirono la candidatura a deputato, rispose: «Il mio posto non è sugli scranni del parlamento». Ma dopo che, malgrado il rifiuto, lo ebbero eletto, finì per accettare il mandato.
A provocare quel ripensamento, era stata l’onda di ritorno della Gloria. La pubblica opinione che, nel momento in cui egli assumeva atteggiamenti di ribelle, gli si era rivoltata contro, ora lo considerava una vittima per gli sgarbi che aveva subìto a Napoli e gli attribuiva un’aureola di Cincinnato. Ogni venerdì, sul piccolo molo di Caprera, il «postale» rovesciava torme di visitatori. Arrivavano vecchi amici, commilitoni, cacciatori di autografi, socialiste russe, filantropesse inglesi, emancipatrici americane, deputazioni patriottiche, irredentisti veneti, trentini, istriani, proscritti ungheresi, polacchi, greci, romeni. Lady Shaftesbury gli chiese una ciocca di capelli. Il Duca di Sutherland gli sottoponeva piani di rivoluzione contro l’Impero asburgico e quello turco. Un diplomatico americano riferiva a Washington che Garibaldi era «una delle Grandi Potenze d’Europa».
A tante sollecitazioni, si aggiunse un pretesto provocatorio: la Camera doveva decidere il trattamento da fare ai volontari garibaldini che avevano conquistato le Due Sicilie: il loro capo non poteva declinarne il patronato. Garibaldi aprì le ostilità dichiarando a una rappresentanza di operai venuti a omaggiarlo nell’isola: «Vittorio è circondato da gente senza cuore, senza patriottismo, da uomini che hanno creato un dualismo fra l’esercito regolare e i volontari. Quegl’indegni hanno seminato discordie e odio».
L’eco di quelle parole, giungendo a Torino quasi contemporaneamente al Generale, suscitò indignazione fra i moderati e panico fra i democratici, che in Garibaldi avevano gran fiducia sul campo di battaglia, ma sui banchi parlamentari preferivano non averlo tra i piedi. E i fatti confermarono la loro apprensione.
Garibaldi non entrò, irruppe addirittura nell’aula con camicia rossa e poncho grigio sulle spalle, affiancato da due fedelissimi. Uno scroscio d’applausi lo salutò da sinistra, un mormorio di disapprovazione e di sarcasmo da destra. Dopo ch’ebbero parlato Ricasoli e Fanti, chiese la parola. «Dovendo parlare dell’armata meridionale,» disse «dovrei narrare dei fatti ben gloriosi: i prodigi da essa operati furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo ministero [rumori] faceva sentire i suoi effetti malefici [urla]. Quando, per l’amore della concordia, l’orrore di una guerra fratricida provocata da questo stesso ministero...» A questo punto la sua voce si perse nel pandemonio. Cavour gridava: «Non è permesso d’insultarci!». Gridava Garibaldi: «Sì, una guerra fratricida!». Bisognò sospendere per un quarto d’ora la seduta, che fu ripresa con un discorso di Bixio in cui si manifestava il disagio degli stessi garibaldini di più stretta osservanza. Garibaldi vuotò il sacco. «Quando arrivai a Torino» disse parlando della campagna del ’59 «accorrevano i volontari, ma a me non si davano che i gobbi e gli storpi...»: una frase che deve aver riempito d’orgoglio i poveri reduci. Cavour tagliò corto: «C’è, tra il Generale e me, un fatto che ci separa: io ho creduto di adempiere il mio dovere consigliando al Re la cessione di Nizza». C’era anche quello, infatti, ma non soltanto quello. L’Italia moderata e quella rivoluzionaria potevano finalmente sfidarsi in un libero parlamento, e ognuna di esse rivendicava il merito di aver fatto l’unità nazionale e il diritto di darle il suo volto.
L’indomani Cialdini scrisse a Garibaldi una lettera che poi fu pubblicata da «La Perseveranza»: «Dacché vi conobbi, fui vostro amico, e lo fui quando l’esserlo e il dirlo era biasimato da molti. Ora le vostre parole nella Camera mi portarono un disinganno penosissimo, ma completo. Voi non siete l’uomo che io credeva, voi non siete il Garibaldi che amai. Voi osate mettervi al livello del Re parlandone con l’affettata familiarità d’un camerata; al di sopra del governo, dicendone traditori i Ministri; al di sopra del parlamento, vituperandone i rappresentanti; al di sopra degli usi parlamentari, presentandovi alla Camera in costume strano e teatrale; al di sopra infine di tutto il Paese che vorreste sospingere dove e meglio vi aggrada...». Per evitare un duello dovette interporsi da paciere il Re. Garibaldi finì per abbracciare Cialdini e per riconciliarsi anche con Cavour cui tuttavia, da quanto disse a Guerzoni, si rifiutò di stringere la mano. Ma poi da Caprera gli scrisse una lettera cortese che terminava con queste parole: «Fidente nelle di lei capacità superiori e ferma volontà di fare il bene della patria, io aspetterò la fausta voce che mi chiami una volta ancora sui campi di battaglia».
Chiuso l’incidente, Cavour si preparava ad affrontare gl’immensi problemi dell’unificazione, quando fu colto a tradimento dal male. Di che natura fosse, i medici di allora non si resero conto. Ma quelli di oggi, dalla descrizione dei sintomi lasciatane da alcuni testimoni, propendono per un attacco di malaria degenerata in perniciosa per errore di cure. Fu alla fine di maggio che, rientrando una sera dalla consueta visita alla sua amica Ronzani, avvertì i brividi della febbre, ma non vi diede peso perché negli ultimi tempi gli era già capitato altre volte. Chiese un salasso per timore di un attacco apoplettico. E due giorni dopo, sfebbrato, convocò al suo letto i Ministri per tenere consiglio con loro. Ma alla sera il termometro salì a quaranta, e sopraggiunse un’emorragia. Nel delirio parlava di progetti, di riforme, di leggi, di strade da costruire, e insisteva che la notizia della sua malattia non fosse divulgata per non intralciare un’operazione di prestito che lo Stato aveva appena lanciato. Invece già tutti sapevano che le sue condizioni erano gravi e facevano ressa davanti al portale e nell’androne. Il 4 la nipote, figlia di suo fratello, ch’era la persona a lui più cara, gli chiese se voleva vedere il confessore che attendeva in anticamera. Cavour comprese e annuì. «Voglio che si sappia:» disse poco dopo a Farini «voglio che il buon popolo di Torino sappia ch’io muoio da buon cristiano.» L’indomani venne il Re. Cavour lo riconobbe e prendendogli la mano farfugliò: «Ho molte cose da comunicare a Vostra Maestà, molte carte da mostrarle, ma sono troppo ammalato, le manderò Farini che le parlerà di tutto in particolare... Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son buoni a governare con lo stato d’assedio... Garibaldi è un galantuomo, io non gli voglio alcun male. Egli vuole andare a Roma e a Venezia, e anch’io: nessuno ne ha più fretta di noi. Quanto all’Istria e al Tirolo, è un’altra cosa. Sarà il lavoro di un’altra generazione. Noi abbiam fatto abbastanza, noialtri: abbiam fatto l’Italia, sì, l’Italia, e la cosa va...» Pur nel delirio, il suo pensiero restava fisso lì, sull’Italia. Quando entrò il confessore con l’olio santo, gli disse: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», e furono le sue ultime parole. Aveva cinquantun anni.
Il 6 giugno, quando si sparse la notizia della sua morte, Torino prese il lutto. I negozianti abbassarono le saracinesche, i teatri chiusero gli sportelli, le strade si vuotarono. Il cordoglio era generale e sincero. Il Primo Ministro inglese, Peel, dichiarò l’indomani in parlamento che quella di Cavour era «senza dubbio la scomparsa dell’uomo di Stato più illustre tra quelli che abbiano diretto i destini di una Nazione europea nella via della libertà costituzionale», e il capo dell’opposizione Palmerston: «La storia cui resterà legata la sua memoria è delle più straordinarie, anzi dirò la più romantica che ricordino gli annali del mondo». Ma forse l’omaggio più cavalleresco e convincente glielo rese, una ventina di giorni dopo, alla Camera dei Deputati, il suo arcinemico Ferrari, autorevole esponente dell’opposizione democratica: «No, voi non sentirete da me in questo recinto una parola contraria al conte di Cavour, che ha compiuto l’opera sua, che ci ha vinti, e la cui morte nella vittoria può essere augurata al migliore dei nostri amici. La terra potrebbe girare mille volte intorno al sole, il conte di Cavour ci avrebbe vinti. Io considero come un onore della mia vita di essermi misurato con lui nello scontro di poche parole, indelebili nella mia memoria. Qualunque cosa che voi ora facciate, andate a Roma, penetrate a Venezia, sarà il conte di Cavour che vi avrà condotti, preceduti, consigliati, menati...».
La sola eccezione al coro la fece la stampa clericale, la quale scrisse che Cavour aveva mandato a chiamare il confessore per fare atto di ritrattazione della sua politica e chiederne perdono. Ma lo stesso fratello Gustavo, nonostante la sua bigotteria, smentì sdegnosamente questa versione. In verità, che cosa avvenne fra il prete e il moribondo non lo sa nessuno perché il prete, padre Giacomo da Poirino, si rifiutò di dirlo anche al Papa, quando fu convocato davanti a lui, trincerandosi dietro il segreto sacramentale. Secondo la versione più accreditata, Cavour si era in precedenza accordato con lui, impegnandolo a non fargli sul letto di morte il ricatto di cui era stato vittima il ministro Santarosa dopo le leggi Siccardi, e il confessore tenne parola impartendogli i sacramenti senza esigere nessuna ritrattazione. Il che, dicono i laici, troverebbe conferma nel duro castigo che a padre Giacomo fu inflitto. Ma i clericali negano anche questo castigo, e nessuno saprà mai chi abbia ragione.
Ora veniamo all’eredità che il grande scomparso lasciava. Come vastità e complessità di problemi, era un patrimonio imponente.

CAPITOLO SECONDO

ITALIA, ANNO ZERO

Assumendo il titolo di Re d’Italia come Vittorio Emanuele secondo, cioè col suo vecchio numerale di Re di Sardegna, questi aveva fatto una scelta della cui importanza forse non si rendeva esatto conto, ma che ne pregiudicava un’altra di carattere sostanziale. Certamente quello ch’era stato proclamato nel marzo del ’61 era uno Stato nuovo, consacrato dai plebisciti. Ma questi plebisciti avevano semplicemente sanzionato l’annessione al Piemonte, di cui accettavano la dinastia e le leggi fondamentali, e di cui così il nuovo Stato nazionale diventava un semplice ingrandimento. Esso nasceva non da un patto fra Sovrano e Popolo, basato su reciproci impegni, ma da un atto deditizio, che automaticamente implicava la rinunzia a una Costituente.
Ora, il vecchio Stato piemontese si era formato sul modello di quello francese, rigidamente accentrato. Cavour aveva cercato di allentarne il monolitismo. Ma, scoraggiato dalle resistenze che incontrava, aveva preferito desistere, lasciando le cose come stavano. E le cose stavano in modo che nella provincia il prefetto era praticamente onnipotente, e nel comune il sindaco era di nomina regia, cioè un funzionario di Stato più che un delegato del popolo. Dopo l’annessione della Lombardia, che aveva una certa tradizione di autonomie amministrative locali, si erano apportati dei ritocchi. Ma il sistema restava tipicamente centralistico. E a ribadire questo carattere, ora che si trattava di estenderlo a tutta la Nazione, contribuirono vari fattori.
Primo, la mancanza di una spinta rivoluzionaria dal basso: la sola che avrebbe potuto imporsi al potere centrale e limitarne l’invadenza. Secondo: il fatto che lo stesso Partito d’Azione, interprete delle scarse forze popolari che avevano recato qualche contributo al Risorgimento, era rimasto d’ispirazione mazziniana anche quando a Mazzini si ribellava, e quindi era anch’esso rigidamente unitario. Terzo: la necessità di mascherare in qualche modo, agli occhi del mondo e degli stessi Italiani, l’intrinseca debolezza di una Nazione diventata tale senza volerlo e quindi bisognosa di una «ingessatura» che ne tenesse saldate le membra e desse almeno l’illusione di una volontà unitaria che in realtà nel popolo mancava. Quarto, e forse più decisivo di tutti: l’interesse della classe dirigente di costituire il potere in modo da poterlo tenere saldamente in mano. Gli uomini che la componevano, quasi tutti di estrazione moderata, avevano fondati motivi di ritenere che l’Italia da loro fatta, senza di loro si sarebbe disfatta. E da questo si sentivano moralmente autorizzati a garantirsene il monopolio. Una struttura centralizzata, basata su prefetti investiti di poteri proconsolari, era il mezzo più sicuro per conservarlo.
Eppure, sia detto a suo onore, questa classe politica non procedette a occhi chiusi, lasciandosi guidare soltanto dai propri interessi corporativi. Anche se per le ragioni che abbiamo detto aveva abbracciato il principio unitario, essa si era formata all’insegna di un liberalismo che esaltava le autonomie locali, e il problema di rafforzarle o di darvi avvìo se lo pose. Anzi, a lanciarlo fu proprio un nobile piemontese, Ponza di San Martino, che fin dal ’53 aveva elaborato un piano di decentramento amministrativo, che suscitò l’entusiasmo di altri due influentissimi moderati, Minghetti e Farini. Forse per prevenire sospetti e diffidenze, esso non parlava di «regioni». Ma prevedeva l’istituzione di «grandi province», che territorialmente corrispondevano pressappoco alle regioni, dotate di poteri abbastanza ampi.
Quando nel ’60 diventò Ministro degl’Interni, Farini istituì per lo studio di questa fondamentale riforma una Commissione di cui Minghetti fu l’anima, e ne tracciò il programma in una Nota in cui si ritrovano tutti i pro e i contro della polemica regionalistica attuale. In Italia, diceva Farini riferendosi a un’Italia che ancora non comprendeva il Mezzogiorno, ci sono sei regioni, di cui almeno quattro (Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana) hanno una tradizione di Stato e quindi una certa esperienza amministrativa. Lo Stato può quindi delegar loro dei poteri.
Ma dopo questo promettente esordio, la Nota faceva macchina indietro dicendo che questi poteri dovevano però essere esercitati da funzionari di Stato, cioè da qualche specie di superprefetto, e non da organi elettivi perché questi si sarebbero messi in concorrenza col parlamento nazionale e avrebbero semplicemente moltiplicato per sei i difetti del centralismo piemontese. Sono gli argomenti che anche noi abbiamo sentito dibattere in questo dopoguerra e che probabilmente continueranno ad affliggerci anche ora che l’ordinamento regionale ha preso il suo rugginoso avvìo.
Poi successe quel che successe. Garibaldi partì per Marsala, giunse da trionfatore a Napoli, Vittorio Emanuele fu proclamato Re d’Italia, di un’Italia alla cui completezza non mancavano più che Roma e le Venezie, e il problema della sua struttura si presentò con maggiore urgenza, ma sotto una luce del tutto nuova.
Minghetti non aveva perso il suo tempo. Alla vigilia della consacrazione dell’Unità, la sua Commissione aveva già approntato quattro disegni di legge, che anche lui corredò di una Nota in cui si ritrovano le stesse speranze, ma anche le stesse paure, di Farini. Nemmeno lui parlava di regioni. Le chiamava «consorzi di province», le voleva rette da un governatore di nomina regia e si affrettava a dire ch’esse dovevano collaborare al rafforzamento, non all’allentamento del vincolo unitario.
Ma pur con tutte queste precauzioni e riserve, i poteri concessi ai Consorzi erano sostanziali, e facevano di quella di Minghetti la proposta più audace. Così audace che i più se ne spaventarono. La Farina mobilitò contro di essa la sua Società Nazionale, e Nigra da Parigi scrisse a Cavour: «Per carità, combatta il sistema regionale, se no siam perduti».
Cavour non condivideva questi timori, ma era troppo animale politico per impegnarsi in una battaglia che offriva ben poche speranze di vittoria. Specialmente i notabili del Sud, ch’erano la forza del suo partito, invocavano lo Stato forte e autoritario che imbrigliasse i movimenti eversivi e sanfedisti da cui si sentivano minacciati. Eppoi doveva fare i conti con la vecchia burocrazia piemontese, abituata al comando accentrato e fermamente decisa a esercitarlo su tutta la Nazione per non perderne il controllo. Pur incoraggiando Minghetti a difendere in parlamento la sua riforma e sostenendola di persona, Cavour si rifiutò di farla sua impegnandovi la sorte del governo, e quindi non pose la «questione di fiducia». Cioè disse a Minghetti: «Combatti la tua battaglia. Se vinci, noi faremo nostra la tua vittoria realizzando la riforma. Se perdi, la sconfitta è soltanto tua».
Naturalmente questo indebolì la posizione di Minghetti, ma non fu la causa determinante del suo insuccesso. Agli avversari non mancarono gli argomenti per dimostrare la pericolosità di un progetto che, anche se lasciava un margine irrisorio alle autonomie locali, creava tuttavia qualche imbarazzo al potere centrale nel momento in cui questo doveva risolvere problemi urgentissimi come quelli di Roma e di Venezia, l’unificazione di ben sette diversi sistemi legislativi, doganali, monetari, scolastici, eccetera, tutte operazioni che esigevano il comando accentrato e vi conducevano. Ma a rendere inevitabile la bocciatura furono altri due motivi, molto più profondi.
Il primo – su cui non s’insisterà mai abbastanza – era la particolare natura del processo unitario. Il Risorgimento era stato, come oggi si direbbe, una «operazione di vertice», che seguitava a interessare soltanto il vertice, cioè l’esigua minoranza che lo aveva fatto. È vero ch’essa mostrava una spiccata allergia a qualsiasi delega di potere. Ma è altrettanto vero che, anche se avesse voluto farne, avrebbe incontrato grosse difficoltà per mancanza di personale. La tradizione e l’abitudine del «pubblico servizio» mancava totalmente. Il «servitore dello Stato» era esistito solo a Torino e un po’ a Napoli. Tutte le altre piccole capitali italane non avevano conosciuto che il cortigiano, cioè il servitore del padrone, e in queste condizioni la creazione di centri di potere locali era impossibile, o quanto meno molto difficile, perché non si sarebbe saputo a chi affidarli.
Il secondo motivo era che la riforma si basava su un equivoco. Sebbene i suoi paladini dicessero che non intendevano rianimare l’antico spirito autonomistico, essi speravano di trovarvi un sostegno. Ma questo spirito non c’era perché i vecchi Stati non erano che delle satrapie – anche se benevole, come in Toscana – che, impedendo al suddito di amministrarsi da sé, avevano soffocato in lui ogni slancio di partecipazione. Gl’Italiani restavano assenti dalla vita nazionale non perché fossero attaccati a quella regionale o municipale, ma perché erano totalmente diseducati a qualsiasi forma di autodecisione. Solo i Lombardi avevano una certa tradizione amministrativa, perché sia gli Spagnoli che gli Austriaci gli avevano consentito, in questo campo, un certo margine di autogoverno. Tutti gli altri consideravano la cosiddetta «cosa pubblica» come cosa del padrone, cui addossavano tutte le responsabilità nella stessa misura in cui gli riconoscevano tutti i poteri, e contro il quale si riservavano solo un diritto di protesta a voce più o meno alta a seconda della sua tolleranza: un atteggiamento che neanche dopo cent’anni ha subìto sostanziali mutamenti. E questo fece sì che al progetto Minghetti mancasse anche l’appoggio della pubblica opinione.
Con gran meraviglia di tutti, esso trovò un difensore in Mazzini. Ignoriamo che cosa lo spingesse a ritrattare in quell’occasione il suo risoluto e tenace centralismo unitario. Ma il suo esempio non fece scuola neanche fra coloro che a lui s’ispiravano. Il progetto Minghetti fu forse l’unico su cui non si vide una contrapposizione di schieramenti. Uomini di Destra si trovarono alleati di uomini di Sinistra sia nella critica che nell’...

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  1. L'Italia dei notabili
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L'Italia dei notabili
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole