L'Italia della disfatta - 10 giugno 1940 - 8 settembre 1943
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L'Italia della disfatta - 10 giugno 1940 - 8 settembre 1943

La storia d'Italia #14

  1. 416 pagine
  2. Italian
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L'Italia della disfatta - 10 giugno 1940 - 8 settembre 1943

La storia d'Italia #14

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"L'Italia che il 10 giugno del '40 scese in campo, convinta di restarci solo poche settimane, era un'Italia stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei Tedeschi, più pericolosa di una sconfitta." Con la dichiarazione ufficiale del 10 giugno 1940 e poi la firma del Patto Tripartito, l'Italia prende ufficialmente parte alla Seconda guerra mondiale. A guidarla c'è l'infondata speranza di Mussolini in una soluzione rapida e favorevole; ma il Paese è impreparato, demotivato e percorso da un malcontento sempre più evidente, specie nel morale delle truppe. Male equipaggiati, guidati da comandanti più burocrati che strateghi, malvisti dagli stessi alleati, i soldati italiani conoscono poche vittorie e troppe brucianti sconfitte. Intanto lo scontro cresce: la firma del Patto Atlantico tra Stati Uniti e Inghilterra, l'attacco a Pearl Harbor, la disastrosa campagna italo-tedesca in Unione Sovietica, l'inizio del lunghissimo assedio di Leningrado, le battaglie di El-Alamein, la disfatta sul fronte africano, lo sbarco alleato in Sicilia. Di fronte allo sfacelo militare e alle tensioni interne, Vittorio Emanuele e alcuni politici tentano di fare marcia indietro: il 25 luglio 1943 il Duce viene sfiduciato e arrestato. A sostituirlo è chiamato Badoglio, che incomincia subito i trattati per quell'armistizio definito da Montanelli uno "spettacolo miserando". Gli autori ci presentano in questo volume la ricostruzione di anni difficili e densi, animati da figure imponenti quali Hitler, Churchill, Roosevelt, Eisenhower, Rommel, Montgomery. Un resoconto puntuale, cui la precisa posizione di Montanelli dona carattere e forza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858643006
Argomento
Storia
L’ITALIA DELLA DISFATTA
SAPORE DI FIELE
Di tutta la storia d’Italia che ho cercato di ricostruire nei precedenti volumi, questo che mi accingo a scrivere insieme a Cervi è di gran lunga il più amaro. Non per la disfatta. Ma per il modo in cui vi si giunse e per quello che produsse nella coscienza – o nell’incoscienza – degl’Italiani. Vorremmo raccontarlo senza pagar pedaggio a nessuna retorica.
Non c’e dubbio che la guerra portò a galla ed esaltò non le qualità, ma i difetti della nostra gente, primo fra tutti la totale mancanza di virtù militari. Non è questa la sede per ricercarne, nella storia, le cause. Dovremmo risalire all’editto di Caracalla che esentava gl’Italiani dalle armi affidandone la difesa ai «barbari», eppoi alla vittoria del Comune sul Castello e del Papato sull’Impero, che procurò l’aborto del feudalesimo, e con esso quello di una civiltà cavalleresca e militare. Avevano ragione Machiavelli e Foscolo quando chiamavano gl’Italiani alle armi dicendo che senza virtù militari non esistono nemmeno virtù civili. Ma il loro grido giungeva troppo tardi. Naturalmente anche fra gl’Italiani ci sono ottimi soldati. Ma la massa è imbelle. E non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di un’etica che gli faccia da supporto. Ho conosciuto dei disertori che, arruolatisi nella malavita, vi hanno fatto splendide carriere con la loro audacia e risolutezza.
Sarà sempre un mistero se Mussolini ne fosse conscio. Forse sì. Forse l’insistenza con cui esaltava «le virtù guerriere della stirpe» gli era suggerita dalla speranza che l’esaltazione bastasse a crearle. Qualcuno dice che l’impresa di Etiopia lo illuse di esserci riuscito. Ma è un fatto che in guerra si decise ad entrare solo quando credette che fosse già vinta. Anche se circondato da cortigiani, non poteva ignorare le pessime condizioni in cui versavano, come mezzi, le nostre Forze Armate, eccettuata la Marina, le cui lacune, peraltro gravi, erano le portaerei e il radar. Ma il nostro punto debole non era l’armamento, che i Tedeschi potevano fornirci e in parte infatti ci fornirono. Il punto debole era la svogliatezza di un materiale umano che solo nell’entusiasmo – quando c’è e finché dura – trova un compenso alle proprie deficienze militari.
Ci furono, come al solito, bellissimi episodi isolati. Prima in Albania, poi in Russia, gli alpini della Julia diedero prova di resistenza fisica, abnegazione, stoicismo. Ci furono anche episodi romantici come la carica della cavalleria di Bettoni a Isbušenskij, e quella dei dubat di Guillet a Cheren. Ci furono episodi veramente eroici come quello di de La Penne ad Alessandria. Ma la condotta di guerra fu nel suo insieme deplorevole: un cumulo di errori dovuti a inefficienza, faciloneria, meschinità e codardia.
È giusto attribuirne la colpa agli Alti comandi. Ma è comodo attribuirla soltanto a loro. Gli Alti comandi della seconda guerra mondiale furono senza dubbio peggiori di quelli della prima, che già erano stati meno che mediocri. La «carriera» non ha mai selezionato capacità. Si fondava caso mai sui «meriti», documentati in decorazioni, e soprattutto sull’anzianità. Lo «spirito d’iniziativa» – cioè la prontezza dei riflessi, l’inventiva, la fantasia – veniva esaltato solo nel «Regolamento» e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall’uniforme, per la quale lo spirito d’iniziativa era sinonimo d’insubordinazione. Ho conosciuto dei Generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli Austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.
Tuttavia i Generali italiani della prima guerra mondiale, anche se poveri di strategia, di mente ottusa e d’idee antiquate, erano stati almeno selezionati in base al carattere. Cadorna non era di certo un fulmine di guerra; ma un uomo serio, duro e votato al «servizio» con zelo sacerdotale, sì. E altri come lui, nell’esercito del Piave e di Vittorio Veneto, ce ne furono. Nei loro successori del ventennio fascista anche le doti morali scaddero, il carrierismo non ebbe più freno e si giovò anche del clientelismo politico. Sia in Libia che in Albania e in Russia vidi Generali impegnati più a difendere il «posto» che le posizioni. Qualcuno di essi seppe anche morir bene. Ma nell’insieme la dirigenza militare fu tale che non fu possibile trovare un sostituto del vecchio Badoglio che, come funzionario di caserma e artigiano di battaglie all’antica, era almeno il più serio ed esperto.
Sarebbe però ingeneroso e deviante far ricadere tutta la responsabilità della disfatta sugli Alti comandi. Essi non furono di certo all’altezza della situazione, ma furono a misura di una truppa, di una cittadinanza, insomma di un Paese che non offriva, né poteva fornire, niente di meglio. La tesi di certi storici di parte secondo i quali l’Italia perse la guerra per il tradimento dei suoi capi militari, o almeno di alcuni di essi, non è degna nemmeno di essere confutata. Quelli che furono citati come casi di sabotaggio e boicottaggio erano in realtà casi di inefficienza, incompetenza e confusione, come l’invio in Albania di una grossa partita di scarpe tutte per il piede sinistro. La verità è che lo slancio patriottico che nella prima guerra mondiale aveva surrogato le deficienti qualità militari del soldato italiano, nella seconda non ci fu. Questo capitale morale Mussolini se lo era mangiato nella campagna di Abissinia, dove esso aveva toccato la sua acme contagiando tutto il Paese. Poi l’inflazione ch’egli aveva fatto dei valori e degl’ideali a cui s’ispirava se li era mangiati e corrosi. L’Italia che il 10 giugno del ’40 scese in campo, convinta di restarci solo pochi giorni o poche settimane, era un’Italia non solo materialmente impreparata, ma anche psicologicamente «scaricata», stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei Tedeschi, più pericolosa di una sconfitta.
Fu in questo stato d’animo che le reclute partirono per il fronte, sorrette solo dalla speranza – che dapprincipio era quasi certezza – di starci poco. L’amara constatazione che il conflitto si allungava nel tempo e nello spazio abbatté completamente il loro già vacillante morale. Nelle varie zone di operazione in cui mi trovai a lavorare vidi arrivare soldati che, prima di schierarsi nei loro reparti, avevano già l’aria di prigionieri. Li vidi battersi, alcuni anche bene, ma solo per istinto di conservazione. Più spesso però li vidi sbandare e arrendersi e fuggire. Quasi mai mi capitò di vedere reparti bene impiegati, operanti disciplinatamente secondo piani ragionevoli. Quasi sempre tutto era affidato all’improvvisazione – nella quale ciascuno per conto suo si mostrava come al solito maestro –, al caso, a San Gennaro, allo stellone. La cosa più grave era che nessuno sembrava sentirsi coinvolto nell’umiliazione delle disfatte che subivamo, anzi tutti o quasi tutti avevano l’aria di compiacersene, come contagiati da un’epidemia di masochismo, da cui nemmeno chi scrive rimase immune.
Ma il peggio del peggio venne al momento della capitolazione, festosamente accolta come una liberazione. Anzi, questa parola liberazione venne assunta come alibi della resa. Gli Anglo-americani che nel luglio del ’43 sbarcarono in Sicilia non vi trovarono nessuno a difendere quello che il Duce si ostinava a chiamare «il sacro suolo della Patria» perché non erano già più il nemico, ma i liberatori. A Pantelleria l’unico morto italiano fu un soldato che si prese un calcio da un mulo. Non era nemmeno uno sbandamento. Fu uno sciopero militare. E da quel momento uno strano delirio di autolesionismo sembrò impossessarsi di tutti, a cominciare dalla monarchia.
Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell’emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo- francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e di rivincita. Alla guerra del fascismo, ch’egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d’incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell’Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l’alleato. Ma l’unica iniziatva che prese facendo arrestare il Duce all’uscita dell’ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia di un pastore montenegrino, si dimostrò più Regina di lui.
Fu l’inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al principe Umberto. Se il Re, proclamato l’armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai Tedeschi come capro espiatorio del «tradimento», quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la monarchia e in un certo senso l’immagine dell’Italia.
Ma questa immagine contribuimmo tutti ad offuscarla. Se l’esempio del «Si salvi chi può» venne dall’alto, bisogna dire che tutto il Paese dimostrò la più favorevole disposizione a seguirlo. La segreta speranza di tutti gl’Italiani, civili e militari, era di cavarsi fuori da quella tragedia senza pagare dazio né ai Tedeschi né agli alleati. Il 25 luglio un fascista, uno solo ci fu, che scelse, suicidandosi, di morire col Regime: Manlio Morgagni, presidente dell’agenzia di stampa «Stefani»: una carica che, dopo la Liberazione, non gli sarebbe forse costata nemmeno un mese di carcere. L’8 settembre non ci fu un solo colonnello che, per non consegnare la caserma ai Tedeschi, si sparasse un colpo di rivoltella. Lo sfacelo fu totale. Altrettanto la mancanza, in noi Italiani, di ogni senso di tragedia per questo sfacelo.
L’Italia non aveva mai dato di sé uno spettacolo tanto miserando. Nessun capitolo della sua storia è più umiliante, vergognoso e, specie per chi ne fu partecipe, più doloroso da rievocare.
I.M.
CAPITOLO PRIMO
IL COLPO DI PUGNALE
La sera del 10 giugno 1940 Vittorio Emanuele III partì da Roma per raggiungere la zona di operazioni. Dove potessero svolgersi queste operazioni non era ben chiaro, dal momento che l’Italia era entrata in guerra con l’intenzione di non farla, almeno contro la Francia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Badoglio, aveva già dato, cinque giorni prima, istruzioni precise: «Il Duce ha detto che è sua intenzione, con la dichiarazione di guerra, di cambiare lo stato di fatto in stato di diritto, ma che intende riservare le Forze Armate, e specialmente l’Esercito e l’Aeronautica, per avvenimenti futuri». In ossequio a questi concetti le unità schierate sulle Alpi occidentali seppero che «non dovrà essere intrapresa alcuna azione oltre frontiera» e che «truppe e artiglieria non dovranno aprire il fuoco su truppe e posizioni francesi».
Tuttavia, per un impeto nostalgico, il Re volle essere vicino al fronte, nell’illusione di ritrovare l’atmosfera degli anni, ormai lontani, della prima guerra mondiale. Si trasferì dunque nel castello di Ternavasso, proprietà dei Thaon di Revel, tra Poirino e Carmagnola. Uno stuolo di ufficiali lo seguì, e lo stesso duca Acquarone, ministro della Real Casa, smise i suoi severi abiti civili per indossare l’uniforme di colonnello di cavalleria.
Dal castello Vittorio Emanuele partiva ogni mattina, in gambali e, quando l’aria di montagna diventava pungente, in cappottone, per visitare reparti dove, secondo un’annotazione del suo aiutante di campo generale Puntoni, il morale dei soldati era «ottimo», i visi «allegri», ma «lasciava a desiderare la disciplina formale» ed «era carente l’azione degli ufficiali inferiori». A Pocapaglia si era insediato il quartier generale di Umberto di Savoia, comandante del gruppo armate Ovest. Il trasferimento del Re, e la sua istintiva preferenza per un fronte e un tipo di guerra che avessero analogie con il ’15-’18 furono patetici e rivelatori. Mentre le colonne corazzate tedesche calavano verso Parigi, il Comando italiano pensava, tutt’al più, a battaglie di posizione: anzi, per quanto riguardava il fronte occidentale, aveva rinunciato anche a quelle, dopo la decisione di Mussolini che si era tradotta in una sorta di accordo sottobanco tra Badoglio e l’addetto militare francese a Roma Parisot, suo vecchio amico fin dai tempi di Vittorio Veneto. I Francesi avevano promesso di non muoversi, a loro volta, se non si fossero mossi gli Italiani.
Il gruppo armate Ovest era il più forte, tra quelli di cui si componeva l’esercito. Diviso in due armate (la 4a di Guzzoni dal San Bernardo al monte Granero e la 1a di Pintor dal monte Granero al mare) poteva contare su 22 divisioni, oltre a vari raggruppamenti speciali. In totale 12.500 ufficiali e 300.000 uomini di truppa. Al confronto il gruppo armate Est del generale Grossi, con la 2a armata di Ambrosio da Tarvisio a Fiume, la 6a armata di Vercellino nella pianura padana, e l’8a armata del Duca di Bergamo in Veneto e in Romagna, era debole e incompleto: 8500 ufficiali e 195.000 uomini, con 20 divisioni a organici ridotti. Il maresciallo De Bono comandava il gruppo armate Sud, che nonostante il nome pomposo aveva solo 3000 ufficiali e 65.000 uomini di truppa. La riserva, nel territorio nazionale, era costituita dalla 7a armata dislocata in Piemonte e affidata al Duca di Pistoia (ma gli incarichi ai Principi del sangue erano il più delle volte simbolici) e disponeva di 42.000 uomini in tutto.
Oltremare erano le truppe d’Albania (cinque divisioni e circa 70.000 uomini, compresi gli Albanesi) al comando del generale Visconti Prasca, le due armate libiche (quattordici divisioni con circa 200.000 uomini al comando del maresciallo Italo Balbo), le forze dell’Egeo (una divisione numericamente robusta con i suoi 25.000 uomini al comando del governatore quadrumviro De Vecchi), infine i 70.000 «nazionali» e i 182.000 coloniali delle forze dislocate in Africa Orientale, agli ordini del viceré Amedeo d’Aosta. In totale l’esercito mobilitato aveva in organico quasi 50.000 ufficiali e 1.150.000 uomini di truppa, che diventavano un milione e mezzo quando fosse incluso nel conto il personale dei servizi territoriali e quello pronto per il completamento delle grandi unità. Una massa, sulla carta, imponente, che rimase con l’arma al piede.
Ci rimase, in realtà, pochissimi giorni anche sul fronte occidentale. Prima a rompere la tacita tregua fu l’Aviazione, che il 12 e il 13 giugno bombardò Biserta, Tolone e altre località della Francia continentale, nonché Bastia e Calvi in Corsica. Le incursioni erano state provocate da bombardamenti su Torino e Genova – e già s’era visto quanto la contraerea italiana fosse inconsistente – compiuti non dai Francesi, ma dagli Inglesi: i Francesi avevano anzi frapposto ogni sorta di ostacoli. Mussolini indirizzò tuttavia la ritorsione sulla Francia agonizzante, con il risultato che l’ammiraglio Darlan ordinò l’esecuzione di un bombardamento navale della costa ligure, il cui piano era già nei suoi cassetti. All’alba del 14 giugno – Parigi cadde quel giorno – quattro incrociatori e undici cacciatorpediniere lasciarono la base di Tolone e fecero rotta verso il litorale italiano: due incrociatori – il Foch e l’Algérie – puntarono su Vado, gli altri due – il Dupleix e il Colbert – su Genova. A contrastarli trovarono soltanto una vecchia torpediniera, la Calatafimi, che posava mine al largo di capo Arenzano, e alcuni mas. Il comandante della Calatafimi, tenente di vascello Giuseppe Brignole, si avventò intrepidamente contro la flotta nemica, la attaccò con i siluri – poi uno dei tubi di lancio si inceppò e un siluro restò «metà fuori e metà dentro» – ebbe anche l’impressione di avere colpito un caccia francese, che invece era stato raggiunto dai colpi di una batteria costiera. La squadra francese poté rientrare a Tolone senza intoppi. Non era stata, la sua, una azione importante. Le cannonate avevano fatto nove morti in una fabbrica di Vado, e danni quasi insignificanti a Genova.
Restava il fatto che soltanto una piccola unità navale aveva eroicamente affrontato l’avversario, benché la Marina disponesse di due corazzate, sette incrociatori pesanti, dodici incrociatori leggeri, novantaquattro tra cacciatorpediniere e torpediniere, centoquindici sommergibili (nel settembre sarebbero entrate in servizio le nuovissime corazzate Littorio e Vittorio Veneto). La quinta flotta militare del mondo. È vero che il grosso della squadra da battaglia si trovava a Taranto. Ma questa non era una valida ragione per lasciare sguarnito un settore vitale: l’errore la diceva lunga sulla miopia dei comandi.
Non meno rivelatore fu il ritardo – tre ore – con cui l’Aviazione si pose all’inseguimento della squadra francese. Di 783 bombardieri d’alta quota, 594 caccia e assaltatori, e 419 ricognitori, non se ne trovò un numero sufficiente per segnalare l’approssimarsi della flotta francese, impedirle di giungere indisturbata fino agli obiettivi, e tartassarla sulla rotta del ritorno. Nell’inseguimento della flotta francese si era impegnato anche Galeazzo Ciano, un po’ Ministro degli Esteri e un po’ aviatore, che annotava: «Volo sino a Nizza per cercare le navi francesi che hanno bombardato Genova. Tempo pessimo, navigazione pericolosa. Rientro dopo due ore senza avere avvistato il nemico».
Per Mussolini la sortita francese fu una frustata, cui volle rispondere subito. Dispose «piccole operazioni offensive» sulle Alpi che facilitassero «i nostri futuri sbocchi offensivi in più grande stile». Vennero perciò predisposte delle puntate nell’aspra striscia di terreno montano che correva tra la posizione italiana di partenza e la cosiddetta «Maginot alpina», una serie di forti i cui presìdi, proprio per l’isolamento in cui vivevano, non erano stati ancora contagiati dal collasso delle unità travolte dai Tedeschi. Il sottofondo maramaldesco della dichiarazione di guerra italiana rafforzava la volontà di resistenza nella armata francese delle Alpi, ridotta ormai a 185.000 uomini – di cui solo 85.000 nelle posizioni avanzate di resistenza – dal mezzo milione che erano prima che se ne distogliessero parecchie divisioni, mandate a incenerirsi nella fornace del Nord, contro i Tedeschi. Pur così anemizzate, le forze francesi erano appoggiate a una linea estremamente solida. Ma gli assaggi di piccoli reparti – e sulle Alpi infuriava, fuori stagione, il maltempo – non bastavano più a Mussolini, che...

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