L'Italia del Settecento - 1700-1789
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L'Italia del Settecento - 1700-1789

La storia d'Italia #6

  1. 624 pagine
  2. Italian
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L'Italia del Settecento - 1700-1789

La storia d'Italia #6

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Il Settecento, nella lucida ricostruzione di Montanelli e Gervaso, è un altro "secolo breve". Aperto dalla morte di Carlo II e dal fallimento del suo ambizioso progetto d'unità europea, si conclude ottantanove anni dopo quando, guidati da Danton, i rivoluzionari giustiziano i sovrani di Francia. In questo arco di tempo si scontrano spinte contraddittorie: le istanze riformatrici convivono con antichi privilegi, all'affermarsi degli Stati nazionali si affiancano sanguinose guerre dinastiche, le conquiste illuministiche non evitano orrori insensati. In questo fermento si prepara il destino dell'Italia, ancora assopita nel ruolo di terreno di conquista: i trattati di Utrecht e Rastadt, che segnano la fine della lotta per il trono di Spagna, ne sanciscono il passaggio all'Austria in una decadenza che sembra non accennare a fermarsi. Eppure è proprio qui che si pongono le basi per il successivo risveglio. Un secolo popolato da personaggi grandiosi - Voltaire e Rousseau, Federico di Prussia e Maria Teresa d'Austria, Parini e Alfieri, Goldoni e Casanova - e percorso dagli avvenimenti epocali che sconvolgono l'ancien régime, che rivive grazie a una ricostruzione appassionata e appassionante. Guidati dalla lucidità di analisi degli autori ripercorriamo anni difficili, che preparano una nuova epoca: "forse il solo a capire fu Goethe, quando disse che quella non era la fine del mondo, come tutti pensavano, ma soltanto la fine di un mondo".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642917
Argomento
Storia

L’ITALIA DEL SETTECENTO

AVVERTENZA

Eccoci alla sesta tappa di questa ricostruzione della storia d’Italia. Gli scopi ch’essa si propone li abbiamo già spiegati troppe volte per doverli enunciare. Possiamo soltanto aggiungere che, malgrado l’ostilità di cui siamo stati fatti segno da parte della storiografia accademica, la schiera dei nostri lettori non solo non si è assottigliata, ma si è di volume in volume irrobustita. Del resto, anche le critiche hanno mutato tono e registro. Ed è naturale. Un successo momentaneo lo si può interpretare come un abbaglio del pubblico. Ma quando esso dura da venti anni sempre in crescendo, bisogna pur riconoscergli qualche motivo un po’ più valido.
Lasciamo tuttavia questa polemica che, a dire il vero, non ci ha mai scalfito, convinti com’eravamo che sarebbero stati il tempo e i risultati a farne giustizia. E veniamo al Settecento: questo secolo contraddittorio in cui si consuma il processo di decadenza iniziato con la Riforma e il predominio spagnolo, ma nello stesso tempo si pongono le premesse del successivo risveglio. Noi abbiamo cercato di far risaltare questo contrappunto, che ci ha obbligato a dettagliare più di quanto fin qui avessimo usato.
Il lettore vedrà che abbiamo amputato il secolo, facendolo finire all’89. Ma non c’è bisogno di chiarirne i motivi. Che la Rivoluzione francese abbia posto fine all’ancien régime, al vecchio regime, e iniziato una nuova èra, non soltanto in Francia, ma in tutta Europa, e quindi anche in Italia, è cosa ormai riconosciuta da tutti. Quindi non abbiamo fatto che attenerci al tradizionale criterio.
Un’ultima cosa. Probabilmente l’anno venturo non potremo essere puntuali alla solita scadenza. Per quanto già da un pezzo ne abbiamo avviato il lavoro preparatorio, quello del Risorgimento è un periodo che c’impone almeno un altro paio d’anni di ricerche, e che forse dovremo dividere in due puntate, e anche di più.
Arrivederci quindi, caro lettore, non al ’71, ma al ’72, nella speranza che questa pausa non basti a cancellarci dalla tua memoria.
I.M.
Ottobre 1970
R.G.

PARTE PRIMA

L’ITALIA IN EUROPA

CAPITOLO PRIMO

LA GUERRA DI SUCCESSIONE

Con L’Italia del Seicento, abbiamo lasciato l’Europa in una situazione – come oggi si dice – di suspense, china sul capezzale di un moribondo, in attesa di conoscere il suo testamento. Questo moribondo era Carlo II, ultimo Asburgo del ramo spagnolo. Vediamo di riassumere, per comodo del lettore, il perché di tanta trepidazione.
Gli Asburgo erano stati, per quasi due secoli, l’incubo dell’Europa. Piccoli feudatari dell’Alsazia, poi diventati Duchi d’Austria, avevano moltiplicato, a furia di spada e di matrimoni, possedimenti e titoli. Il colmo lo aveva toccato ai primi del Cinquecento l’imperatore Carlo V, nelle cui mani si era trovata concentrata una favolosa eredità. Da parte di padre gli toccarono i Ducati d’Austria, il Tirolo, la Borgogna e le Fiandre.
Da parte di madre – Giovanna la Pazza, unica figlia di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia – gli toccarono la Spagna e tutto il nuovo mondo latino-americano, dal Messico alla Patagonia. A tutto questo, egli poté aggiungere il titolo di Sacro Romano Imperatore, già detenuto da suo nonno Massimiliano; un titolo che, per quanto svuotato di effettivo contenuto, gli conferiva una teorica sovranità su quella galassia di Principati divisi e discordi ch’era allora la Germania. Sicché si può dire che solo la Francia e l’Inghilterra si sottraevano al suo dominio.
Carlo aveva sognato di ricostituire sotto il suo scettro l’unità europea di Carlomagno. Pare che carezzasse l’idea di diventarne anche la guida spirituale assumendo la tiara di Papa. Ma dovette rendersi conto a proprie spese che questi programmi ecumenici – cioè di unione universale – erano ormai fuori tempo. Egli trovò sulla sua strada due implacabili nemici: i Re di Francia, e Lutero. I primi si sentivano materialmente soffocati dai domini Asburgo che premevano su quelli loro sia dalla parte della Germania che da quella della Spagna. Il secondo, rompendo l’unità religiosa, distruggeva il presupposto di quella politica. L’Europa non tendeva all’unità. Tendeva alla formazione di Stati nazionali, ognuno con la propria Chiesa indipendente da quella di Roma. E gli Stati nazionali naturalmente si ribellavano al potere soprannazionale che Carlo voleva imporgli.
Al crepuscolo della sua vita di continue lotte e d’inutili vittorie, Carlo ebbe il buon senso di arrendersi a questa realtà. E comprendendo che nessuno, dopo di lui, sarebbe stato in grado di tenere in pugno un Impero così vasto, ma anche così diviso e sparpagliato, lo ripartì. I domini ereditari di Casa d’Asburgo (Austria, Moravia, Boemia) li lasciò al fratello Ferdinando che assunse anche il titolo imperiale. La Spagna con tutto il suo Impero americano, le Fiandre e i possedimenti italiani (che inglobavano mezza Penisola e tenevano l’altra mezza alla loro mercé) andarono al figlio Filippo II. Così la dinastia Asburgo si era scomposta in due rami: quello spagnolo, e quello austriaco.
Cattolico zelante, e perfino bigotto, Filippo volle ritentare l’avventura del padre. Se egli intendesse approfittare della Controriforma, che chiamava i cattolici alla riscossa, per imporre il proprio potere all’Europa, o se approfittasse del proprio potere per restituire alla Chiesa il suo esclusivo primato, nessuno lo sa, e forse non lo sapeva nemmeno lui. Comunque, i due interessi coincidevano, ed egli ne fu il campione. Ma ora, oltre che coi Francesi, doveva vedersela con gli Olandesi in rivolta contro il giogo spagnolo, e con la flotta inglese, smaniosa del dominio sui mari.
Filippo non venne mai a capo di questa coalizione. I suoi successori, Filippo III e Filippo IV, non riuscirono a risolvere le due grandi crisi – quella demografica e quella economica – che travagliavano il Paese. Sicché quando sul trono di Madrid salì l’ultimo rampollo della dinastia, Carlo II, quell’immenso Impero, nonostante le sue dimensioni, aveva già da un pezzo cessato di rappresentare un pericolo per gli Stati europei e la loro indipendenza.
Ma ce n’era un altro, che aveva preso il suo posto: la Francia. Essa era stata preda di convulsioni religiose che avevano messo a repentaglio la sua unità. C’era stata anche, in seguito all’estinzione della dinastia Valois, una lotta per la successione al trono risoltasi infine con la vittoria del ramo collaterale dei Borbone. Ma in mezzo a tanti triboli, la Francia aveva avuto la ventura di trovare dei grandi Ministri – Sully, Richelieu, Mazarino, Colbert – che ne avevano fatto la più forte potenza europea. Così forte che, quando sul trono salì un sovrano ambizioso, insolente e innamorato della gloria militare come Luigi XIV, il Re Sole, credette di poter ripetere con successo il tentativo di Carlo e di Filippo. Negli ultimi decenni del Seicento, l’Europa fu messa a soqquadro dagli eserciti di questo monarca, che trovava pretesti di guerra in tutto.
Ma anche lui aveva dovuto fare i conti con la nuova Europa degli Stati nazionali. Inghilterra e Olanda avevano capeggiato la resistenza, che alla fine aveva prevalso. Con la pace di Ryswick del 1697, la Francia aveva dovuto rinunziare alla sua pretesa di farla da padrona. Essa restava uno dei più importanti fattori della politica europea, ma non era più in condizione di dettarla. Si era insomma stabilita una balance of powers, un equilibrio di poteri, in cui quello francese aveva il suo considerevole peso, ma anche i suoi contrappesi, ch’erano soprattutto tre: l’Olanda, piccola terra, ma già grande potenza marittima e coloniale; l’Impero asburgico d’Austria coi suoi eccellenti eserciti; e l’Inghilterra, che già fin d’allora vedeva in queste situazioni di equilibrio l’unica garanzia della propria incolumità e la condizione del proprio sviluppo: finché gli europei si neutralizzavano a vicenda, essa poteva tranquillamente costruire il suo impero transoceanico.
Malgrado la vastità dei suoi domini, la Spagna era scomparsa dall’elenco delle grandi potenze. Madrid non era più un «centro direzionale» della politica europea. Eppure, ecco che proprio allo scadere del secolo, tutti gli sguardi tornavano a convergervi. L’Europa pendeva dalla bocca di un Re che da vivo non aveva contato nulla, ma da morto poteva metterla di nuovo a soqquadro. A chi avrebbe lasciato la sua corona?
Carlo II l’aveva portata di malavoglia, oppresso dal suo peso. Nelle sue ascendenze c’erano probabilmente troppi matrimoni fra consanguinei. Era nato male, e reggeva l’anima coi denti. Fino a dieci anni avevano dovuto tenerlo in collo perché le gambe non lo sostenevano. Una malformazione del palato gl’impediva di articolar bene le parole. I suoi sudditi lo chiamavano el Hechizado, lo stregato, perché i preti attribuivano al diavolo i suoi malanni. Ne aveva una collezione, che avevano trasformato la Corte in una clinica. Nessuno credeva che sarebbe sopravvissuto a suo padre, e per questo lo avevano sposato prestissimo, nella speranza che lasciasse almeno un erede. Ma Carlo non era riuscito nemmeno a questo, e sua moglie, una Principessa austriaca, era afflitta da troppi scrupoli religiosi per rimediare con un cortigiano o con uno stalliere, come talvolta le Regine fanno in questi casi (e non soltanto in questi casi). Ora si apriva una crisi dinastica, che metteva in subbuglio tutta l’Europa.
L’eredità infatti era grossa. Oltre la Spagna, erano in giuoco le Fiandre, cioè il Belgio con la sua potenza industriale, i possedimenti italiani che consentivano un assoluto dominio su tutta la Penisola, e l’immenso Impero sud-americano. In mano a uno Stato in crisi, com’era quello spagnolo, questo patrimonio non esercitava gran peso sulla bilancia mondiale. Ma se fosse toccato a uno Stato già di suo efficiente, l’equilibrio europeo ne sarebbe stato sconvolto. I concorrenti in lizza erano due: gli Asburgo d’Austria, che avanzavano un diritto dinastico e di sangue, visto che Carlo era Asburgo anche lui; e Luigi XIV. Il Re Sole aveva sposato la sorella di Carlo, Maria Teresa. È vero che nel contratto di matrimonio rinunziava a ogni pretesa al trono spagnolo anche a nome dei discendenti suoi e di sua moglie. Ma in quello stesso contratto si garantiva a Maria Teresa una ricca dote che invece non era stata mai pagata. E Luigi sosteneva che i due impegni si condizionavano a vicenda: evaso l’uno, cadeva anche l’altro.
O per meglio dire lo aveva sostenuto finché i suoi eserciti gliene avevano dato la forza. Dopo la pace di Ryswick, aveva rinfoderato queste ambizioni. E anzi si era accordato con Inghilterra e Olanda per cercare una soluzione di compromesso, al di fuori della volontà di Carlo. Così le tre potenze si spartirono – sulla carta – la pelle dell’orso. Napoli e Sicilia sarebbero toccate alla Francia per ripagarla della sua rinunzia, la Lombardia all’Austria per tacitarla, mentre sul trono di Madrid sarebbe salito un personaggio neutro e di poco conto, che fornisse garanzia di non diventare un pericolo pubblico. Si avanzarono le candidature di Pietro II di Braganza e di Vittorio Amedeo II di Savoia. Ma poi furono scartate, e il prescelto fu un piccolo Principe Wittelsbach di Baviera.
Purtroppo, costui morì subito dopo, e bisognò ricominciare daccapo. Il secondo accordo prevedeva l’assegnazione della corona, con la Spagna, il Belgio e l’Impero latino-americano a Carlo d’Asburgo, secondogenito dell’imperatore Leopoldo, mentre alla Francia sarebbero andate Napoli, la Sicilia e Milano: il che l’avrebbe resa arbitra dell’Italia.
Pare impossibile, ma a rifiutare questa soluzione fu proprio la parte che più ne profittava: l’Austria. Sicuro che il Re spagnolo avrebbe testato in favore di suo figlio, Leopoldo rispose che costui non poteva accettare una successione così saccheggiata, e si disse pronto a difenderne l’integrità con la spada.
Era in questo tramestìo di proposte, controproposte, lusinghe e minacce, che Carlo si disponeva a passare a miglior vita, e non si tratta di figura retorica perché mai agonia fu più tribolata della sua. Nessuno gli dava requie. Ai salassi e ai clisteri dei medici s’intramezzavano gli esorcismi dei preti, incaponiti a liberarlo dalla malìa. La moglie austriaca lo teneva sotto il ricatto sentimentale della fedeltà dinastica. I dignitari di Corte erano divisi, ma tutti intrigavano prospettando catastrofi.
Il disgraziato consultò i teologi, ma trovò divisi anche quelli, e si appellò al Papa, il quale naturalmente fece i conti in base al proprio interesse. La presenza in Italia di un Principe imperiale in grado di esercitarvi una forte autorità costituiva, per gli Stati della Chiesa, un pericolo. Perciò il responso di Roma fu favorevole alla Francia. Carlo, forse più per stanchezza che per convinzione, vi si attenne, e all’insaputa della moglie lo tradusse in testamento. Il trono era assegnato a Filippo d’Angiò, nipote di Luigi e di Maria Teresa.
A Parigi la notizia fu accolta più con orgasmo che con gioia. Accettare quel lascito significava provocare l’Europa a una nuova guerra. Rifiutarlo, oltre che la rinuncia a un immenso impero, era una confessione di paura e una perdita di faccia. Il Re Sole esitò. Ma alla fine l’orgoglio e la passione dei gesti teatrali ebbero la meglio. Nel ricevere gli ambasciatori spagnoli che venivano a comunicargli ufficialmente il testamento del morto, Luigi spalancò una porta e, additando il nipote Filippo che dietro di essa aspettava, esclamò: «Signori, ecco il Re di Spagna!». La risposta ormai era agli eserciti.
Non seguiremo le sorti di questo conflitto, che durò un’altra diecina d’anni. Basterà un rapido riassunto. La fortuna dapprincipio aiutò la Francia. Una caduta da cavallo la liberò dal suo più irriducibile nemico, il re Guglielmo III d’Inghilterra; e l’Olanda, attaccata di sorpresa, piegò la testa. Rimaneva l’Austria, ma era lontana e per di più presa tra due fronti: quello balcanico eternamente minacciato dai Turchi, e quello settentrionale su cui tornava a profilarsi il pericolo della Svezia, com’era accaduto nella Guerra dei Trent’anni.
Questo consentì a Luigi di riportare alcuni facili successi, che ridiedero ossigeno alle sue ambizioni egemoniche. Non si contentò d’istallare Filippo sul trono di Madrid. Contrariamente agl’impegni che aveva preso, lo dichiarò qualificato a succedergli anche su quello di Parigi: il che avrebbe fatto della Spagna e del suo Impero un’appendice della Francia, e di questa una potenza irresistibile.
A questo punto la coalizione avversaria passò risolutamente alla controffensiva. E a guidarla furono due condottieri di altissimo rango: John Churchill, ed Eugenio di Savoia. Churchill, antenato di Winston, era una geniale canaglia, che doveva la sua carriera soprattutto alla bellissima moglie, Sara. Non l’aveva sposata per freddo calcolo. L’amava appassionatamente, seguitò ad amarla per tutta la vita, le fu sempre fedele, ma seppe anche servirsene sfruttando al meglio la sua amicizia con la regina Anna, la cognata di Guglielmo, cui era succeduta sul trono. Fu così, «per raccomandazione», che si guadagnò il titolo di Duca di Marlborough e i galloni di Generalissimo. Ma se ne mostrò più che degno infliggendo ai Francesi due memorabili batoste, a Blenheim e a Ramillies. Può indurre a qualche amara riflessione il fatto che quest’uomo giunto ai più alti fastigi per intrigo, per intrigo cadde dopo aver dimostrato che se li meritava. Lo premiarono delle sue vittorie mettendolo sotto inchiesta per malversazione e obbligandolo all’esilio per evitare la galera. Solo più tardi fu riabilitato e poté rimpatriare.
L’altro grande condottiero fu Eugenio di Savoia, italiano d’origine, ma apolide di vocazione. Era infatti figlio di un Savoia di ramo cadetto e di Olimpia Mancini, nipote del Mazarino. Aveva offerto i suoi servigi di soldato al Re Sole che li aveva sprezzantemente rifiutati. E allora si era arruolato negli eserciti di Leopoldo d’Asburgo. Non sapendo più egli stesso come considerarsi, si firmava, con un miscuglio d’italiano, tedesco, francese, Eugenio von Savoy. In realtà la sua patria era la caserma, e la servì mirabilmente. A ventiquattr’anni era già Maresciallo dell’Impero. E nel 1697, aveva inflitto ai Turchi una tale disfatta che, con la pace di Carlowitz, l’Austria fu liberata per sempre dalla loro minaccia.
Questi due uomini, oltretutto legati da profonda amicizia, rovesciarono le sorti della guerra. I loro eserciti irrompevano in Madrid, cacciandone Filippo e istallandovi Carlo d’Asburgo. Ridotto allo stremo, il tracotante Re Sole si disponeva alla resa, quando il vento della fortuna nuovamente cambiò. In Inghilterra un governo conservatore e pacifista prese il posto di quello liberale e guerrafondaio provocando, come abbiamo detto, la disgrazia di Lady Churchill e di suo marito. Gli Ungheresi, liberati dalla minaccia turca, insorsero contro l’Austria costringendo il grande Eugenio ad accorrervi. E infine gli Spagnoli sorsero in armi. Essi avevano accolto Filippo senza entusiasmo. Ma vedendolo cacciato da un esercito straniero, il loro orgoglio reagì e li spinse alla rivolta. Nel 1710, ben guidati da un Generale francese, il Vendôme, scacciarono a loro volta l’usurpatore Carlo.
Il Re Sole, reso ragionevole dalla vecchiaia e dagli acciacchi, capì tuttavia che non era il caso di spingere troppo oltre le cose: la Francia era spossata e in preda a una grave crisi economica. Doveva contentarsi di una pace a buone condizioni. E questa pace fu saldata coi trattati di Utrecht del 1713 e di Rastadt del 1714.
Fra le tante che si possono anche dimenticare, questa è una data da ricordare, specie per noi Italiani. Per un secolo e mezzo l’atto costitutivo del nostro Paese era rimasto quello stabilito dal trattato di Cateau-Cambrésis del 1559, che praticamente aveva fatto dell’Italia una colonia spagnola. Ora sopravveniva quello di Utrecht che per un secolo e mezzo avrebbe fatto dell’Italia una colonia austriaca. Il destino della Penisola cambiava cavallo. L’unica cosa che non cambiava era la sua qualifica di colonia.
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CAPITOLO SECONDO

UTRECHT

Utrecht 1713 e Rastadt 1714: due date, dicevamo, importanti. I relativi trattati rappresentano infatti l’atto costitutivo della nuova Italia nel quadro della nuova Europa. Vediamo dunque di ricapitolarne un po’ più chiaramente i risultati.
Primo fatto di fondamentale importanza, che tocca direttamente il nostro Paese: il cambio della guardia, sul trono di Madrid, fra Asburgo e Borbone. Non dimentichiamoci che l’Europa del Settecento è ancora un’Europa prevalentemente «dinastica», cioè un’Europa in cui l’interesse delle dinastie regnanti prevale su quelli nazionali. Non è più così in Olanda, dove in seguito alla rivoluzione democratica del calvinismo il potere è scivolato nelle mani del Parlamento, cioè dei rappresentanti del popolo. Non è più completamente così in Inghilterra, dove la combattiva minoranza puritana, anche se non è riuscita a istaurare permanentemente la repubblica, limita il potere della monarchia e la sta avviando verso una forma «costituzionale» che al Parlamento la subordina. Ma è così nei tre grandi Paesi cattolici – Austria, Francia, Spagna – di cui l’Italia non è che una dipendenza. Re non «per volontà della nazione», ma «per grazia di Dio», Asburgo e Borbone si ritengono i legittimi e assoluti proprietari dei loro Reami. Li considerano un bene di famiglia, di una famiglia il cui bene è molto più importante di quello ...

Indice dei contenuti

  1. L’italia del Settecento
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L’italia Del Settecento
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole