L'Italia dei due Giovanni - 1955-1965
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L'Italia dei due Giovanni - 1955-1965

La storia d'Italia #18

  1. 304 pagine
  2. Italian
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L'Italia dei due Giovanni - 1955-1965

La storia d'Italia #18

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La morte di De Gasperi - di poco successiva alla sua sconfitta politica nella Dc - segna la fine di un ciclo. Chi sta alla guida del Paese tenta un cambio di marcia: è il momento di scelte coraggiose che garantiscano agli italiani benessere e tranquillità. Nel 1955 Giovanni Gronchi succede a Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica; tre anni più tardi Giovanni XXIII sale al soglio pontificio. Due figure inattese, ma capaci di lasciare un'impronta profonda: il presidente comincia il lungo lavoro che porterà alla nascita del centrosinistra; il pontefice rinnova radicalmente la Chiesa, indicendo il Concilio Vaticano II e formulando la questione comunista in un'ottica rivoluzionaria. Sono gli anni entusiasmanti dell'Italia all'Onu, della Cee, dell'Enel, del "memoriale di Yalta" di Togliatti e della "strategia dell'attenzione" di Moro. Eppure, tanto sul fronte interno quanto a livello internazionale, si avvertono i segni di una tensione preoccupante: le lotte intestine delle correnti partitiche, disastri economici come la disinvolta gestione Mattei dell'Eni, i disordini a Genova, Reggio Emilia e in altre città, le rivolte in Polonia e Ungheria, l'installazione di basi missilistiche Nato in Europa, l'omicidio di Kennedy, le prime fasi della guerra del Vietnam. Un decennio dalla doppia identità - a cavallo tra miracolo economico e terrorismo - nell'impareggiabile racconto di due maestri come Montanelli e Cervi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642962
Argomento
Storia
L'ITALIA DEI DUE GIOVANNI
AVVERTENZA
Io e Cervi avevamo pensato di fermarci, in questa lunga cavalcata della Storia d’Italia, alla morte di De Gasperi, cioè all’agosto del ’54. Poi abbiamo riflettuto che questo evento, per quanto importante, non segna la fine di un’epoca, anzi non segna la fine di niente. Così, in due anni di fatica equamente ripartita, vi abbiamo aggiunto questo volume che arriva al ’65. E ora che stiamo per licenziarlo alle stampe, non prendiamo impegno che sia l’ultimo della serie.
L’idea di fare un po’ di chiaro nelle vicende del ’68 col loro lugubre strascico di esplosioni terroristiche, e nelle responsabilità che vi ebbero soprattutto gl’intellettuali, ci stimola a continuare. È vero che sono avvenimenti di ieri, che tutti hanno vissuto. Ma in questi tempi di «accelerazione della storia», come diceva Halévy, lo ieri fa presto a diventare l’altro ieri, per i giovani di vent’anni esso rappresenta già il West (con tante scuse al medesimo), ma soprattutto non è stato ancora enucleato dalle polemiche e dalle dietrologie di cui seguita ad essere oggetto. Noi non pretendiamo di possedere la pietra di paragone che lo restituisca alla sua verità assoluta (che poi non esiste). Ma crediamo, per il modo in cui abbiamo attraversato quel periodo senza lasciarci piegare dalle ventate di demagogia e di conformismo salottier-barricadiero che lo solcarono, di poter portare un valido contributo al suo chiarimento. Comunque, abbiamo l’intenzione di provarci.
Un’ultima cosa – poiché le prefazioni si leggono solo quando sono brevi, anzi fulminee – circa il titolo di questo libro: L’Italia dei due Giovanni. Si tratta, come già avrete capito, di Giovanni XXIII e di Giovanni Gronchi, che furono i due protagonisti di spicco di quel decennio. A qualcuno potrà sembrare disdicevole, se non addirittura empio, il fatto di aver abbinato nel protagonismo un grande – anche se discusso – Papa come Roncalli e un piccolo Presidente della Repubblica come quel ganimede di provincia, velleitario e di mano lesta. Ma l’editore ha voluto così perché, ha detto, è un titolo «che si vende bene». E noi ci siamo arresi, lo confessiamo, a questa esigenza di bottega. Una bottega che di solito fa valere, senza procurare rimorsi a nessuno, delle esigenze ben altrimenti oltraggiose al comune senso della misura.
I.M.

CAPITOLO PRIMO

GRONCHI

Nell’aprile 1955, con l’elezione di Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica, l’Italia voltò pagina.
Non è che, entrato il nuovo inquilino al Quirinale, cambiassero le strutture politiche del Paese. La Democrazia cristiana ne restava la trave portante, i governi continuavano ad essere formati suppergiù con le stesse formule e tra le stesse faide per l’assegnazione delle poltrone ministeriali; l’apertura ai socialisti rimaneva una prospettiva a lunga scadenza e di ardua realizzazione; il PCI era più che mai vincolato alla fedeltà verso la chiesa madre di Mosca. Lo scenario della rappresentazione era insomma pressoché lo stesso: ma con altri protagonisti, con altro stile.
Nell’Italia della ricostruzione – che era stata impetuosa – e dell’espiazione – che con il Trattato di pace era stata severa – i protagonisti si chiamavano Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi: fatti per capirsi, per stimarsi, per integrarsi, ciascuno di loro apportando al tandem le sue qualità. De Gasperi, «il trentino prestato all’Italia», aveva garantito otto anni di gestione politica intelligente, prudente, dignitosa. Einaudi, economista prima che politico, non aveva mai fatto mancare al Presidente del Consiglio il suo appoggio e i suoi suggerimenti: l’uno e gli altri preziosi, perché De Gasperi capiva poco o niente d’economia. Ma sapeva di non sapere, e s’affidava agli esperti.
Tra questi ultimi Einaudi aveva una posizione particolare: non solo perché era il Capo dello Stato, non solo perché la sua dottrina in materia era profonda, ma soprattutto perché era disinteressato. Non poteva covare maggiori ambizioni politiche, non soffriva di nepotismi, dava valore al denaro ma non ne era avido e tantomeno era corrotto. Le prediche che dal suo scrittoio rivolgeva, di tanto in tanto, al governo, potevano riuscire inutili, perché le clientele e i voti contano più d’ogni ragionamento; ma non erano mai gratuite e superflue. Così il liberalcattolico De Gasperi, e il liberale e cattolico Einaudi, lavorarono insieme e lavorarono bene, fino alla fatale sconfitta elettorale della DC e del suo leader nelle elezioni parlamentari del 7 giugno 1953.
Poco più di un anno dopo De Gasperi, già giubilato alla Presidenza della Democrazia cristiana, morì nella sua casa di Sella di Valsugana. A sua volta Einaudi fu messo in pensione, per scadenza del mandato presidenziale, nella primavera del 1955. Nessuno poteva muovergli appunti per ciò che aveva detto o fatto durante i sette anni trascorsi al Quirinale. Le poche e rispettose critiche erano di carattere politico, perciò opinabili. Riguardavano in particolare la designazione a sorpresa di Pella come successore di De Gasperi: secondo Domenico Bartoli «l’unico errore, forse, e certamente il più serio che il Presidente commettesse». Ma motivato – sempre nella diagnosi di Bartoli – da «motivi precisi», non «dal capriccio del momento» perché Pella era ritenuto da Einaudi un eccellente economista, e inoltre s’imponeva l’opportunità «di designare qualcuno che avesse fama di persona onesta e non fosse troppo compromesso con la formulazione della legge elettorale» (quella che fu bollata come «legge-truffa»).
Comunque quest’episodio, da alcuni ritenuto negativo ma da altri elogiato, non aveva appannato il prestigio di cui Einaudi godeva. Poteva quindi sembrare sensato, dopo la scomparsa di De Gasperi, che si volesse affermare la continuità delle istituzioni rieleggendo Einaudi alla Presidenza. La conferma aveva però una controindicazione scritta nell’anagrafe, e degli oppositori che dell’anagrafe si facevano forti per i loro disegni politici. Eletto a settantaquattro anni, Einaudi ne contava ottantuno dopo il primo settennato, ne avrebbe avuto ottantotto alla fine del secondo. È vero che la carica di Capo dello Stato equivale in Italia – unica eccezione finora Antonio Segni – a un elisir di lunga vita. Ma il rischio non tanto della fine del Presidente, tanto d’un obnubilamento che sarebbe stato difficile denunciare e imbarazzante da superare con i meccanismi costituzionali, era senza dubbio grave. Il nome di Einaudi ottenne sempre un rilevante numero di voti dalle Camere riunite, ma servì più per attestare delle dissidenze che per lanciare una seria ricandidatura.
Non lo voleva Amintore Fanfani, che reggeva, con la sua corrente di Iniziativa democratica, la segreteria del Partito, e s’illudeva a torto di reggere anche il Partito; non lo voleva Pietro Nenni; non lo voleva Concentrazione – un cospicuo gruppo di parlamentari della DC provenienti dalla destra del Partito, dalla dirigenza sindacale, ma anche dalla sinistra – che aveva il suo unico comune denominatore nell’avversione a Fanfani.
Questi aveva tentato d’imporsi con il pugno di ferro. C’era riuscito, finché s’era trattato soltanto di espellere due deputati, Mario Melloni (il Fortebraccio dell’«Unità») e Ugo Bartesaghi, che erano diventati – soprattutto Melloni – comunisti con etichetta DC. Ma quando volle indicare il Presidente del gruppo parlamentare a Montecitorio (il suo uomo era Aldo Moro) fu ripagato con un primo evidente segno di ribellione. Moro passò con 138 voti, ma Andreotti, «portato» da Concentrazione, ne ebbe 109.
Tra gli esponenti di questa corrente, ha scritto Giulio C. Re in Fine di una politica, «è numeroso lo stuolo degli ex, e anche di alto lignaggio. Gronchi ha sempre aspirato a rappresentare il numero due della Democrazia cristiana, dopo De Gasperi, ed è stato, prima che Presidente della Camera, Ministro; Pella è stato Presidente del Consiglio e Ministro del Bilancio, del Tesoro, delle Finanze, degli Esteri; Gonella Ministro della Pubblica istruzione e segretario del Partito; Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Ministro dell’Interno; Rapelli, segretario generale dei sindacalisti bianchi, prima di Giulio Pastore; Scoca, Ministro senza portafoglio; Del Bo, sottosegretario al Lavoro; Marazza Ministro dei Lavori pubblici, e così via. Essi hanno tutti la sensazione di essere ormai considerati bruciati e superati dalla nuova classe dirigente del Partito, e tagliati fuori dalle preferenze. Anche qualcuno di coloro che hanno basi abbastanza solide alla periferia si vede minacciato da provvedimenti della segreteria centrale, la quale ha sciolto varie federazioni, specie nel Sud: ultima la federazione di Roma, in cui sono forti gli andreottiani e i gronchiani».
Nenni che preparava il Congresso del suo Partito – fu celebrato ai primi di aprile, ed egli lo definì «il più bello del dopoguerra» perché l’aveva visto trionfatore – lanciò con largo anticipo un siluro contro Einaudi. Annotava il 27 febbraio 1955, sul suo diario: «Nell’articolo di oggi sull’“Avanti!” ho gettato un sasso nelle acque stagnanti dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. Ho preso posizione contro la rielezione di Einaudi con molto garbo e rispetto verso la persona del Presidente, ma con fermezza».
Si delineava così la manovra che avrebbe portato Gronchi al Quirinale, contro il Presidente del Senato Cesare Merzagora, ideologicamente liberale ma compagno di viaggio dei democristiani. Il 15 aprile Nenni precisò ancor meglio il suo disegno, che doveva avviare l’apertura a sinistra e che «favorisce una candidatura democristiana (nell’ordine delle mie preferenze: Gronchi, Vanoni, Zoli)». Il solo Pertini, nella direzione socialista, si disse contrario a queste designazioni. «Gli altri riconoscono che non possiamo mettere veti a un democristiano senza spezzare sul nascere l’apertura a sinistra già di per sé così difficile.»
Fanfani, sempre nei ricordi di Nenni, «propende per Merzagora (ma forse è una finta). Non vede altri possibili candidati liberali. Insiste per Zoli. In subordine fa i nomi di Vanoni o Segni (ma per quest’ultimo teme i latifondisti del suo Partito). Dice che Gronchi non avrebbe venti voti dalla DC». Un errore di calcolo, quest’ultimo, derivante, come spesso accadeva a Fanfani, da eccessiva sicurezza.
Alle spalle di Fanfani, e a sua insaputa, si stava tessendo una trama «milazzista» ante litteram: un pasticcio ideologico che faceva convergere sul nome di Gronchi, portabandiera d’un populismo cattolico spregiudicato, i favori della destra delusa e della sinistra rampante. I notabili della DC volevano Gronchi per dare uno schiaffo a Fanfani, che li emarginava, e al Presidente del Consiglio Scelba, che pur essendo dei loro li aveva «traditi». Merzagora era il candidato della segreteria DC, Gronchi era il candidato d’una coalizione, e d’una cospirazione, che coagulava la protesta, e la nobilitava con l’«afflato» sociale. Per questo ruolo il Presidente della Camera, bell’uomo, oratore trascinante e lucido anche quando sotto le parole la sostanza latitava, era l’interprete ideale.
Giovanni Gronchi era nato a Pontedera in provincia di Pisa – la cittadina poi divenuta famosa anche perché vi ha sede la Piaggio – il 10 settembre 1887. Il padre, contabile e rappresentante, non poteva dare alla famiglia più d’una decorosa povertà. A sei anni Gronchi rimase orfano della madre. Descrisse se stesso come un «ragazzo male in arnese, non per cattiva volontà della famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze».
Fu uno studente brillante tanto che era in grado di dar lezioni private ai suoi compagni. Ammesso alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa, vi conseguì nel 1909 la laurea in lettere con una tesi su Daniello Bartoli, e poi insegnò nelle scuole secondarie. Rimasto vedovo nel 1925 della prima moglie, Cecilia Comparini, sposò nel 1941 Carla Bissatini che gli diede due figli, Mario e Maria Cecilia. Il lungo intervallo tra i due matrimoni non deve far pensare a un Gronchi macerato nella solitudine.
Vedovo o sposato, egli ebbe una attività galante che – soprattutto, e si spiega, dopo l’elezione a Presidente – suscitò pettegolezzi e alimentò un’abbondante e piccante aneddotica. Si può rilevare per inciso che le propensioni d’alcova, sulle quali s’era anche basata l’opposizione democristiana alla candidatura presidenziale di Carlo Sforza nel 1948, non turbarono i timorati di Concentrazione che su Gronchi riversarono poi i loro voti.
Questo tombeur de femmes (non si sa quanto precoce) fu molto precocemente un cattolico impegnato e praticante (la coesistenza pacifica tra fede religiosa ed erotismo non è inconsueta, molti Re cattolicissimi ne diedero insigne esempio). Militò presto nelle organizzazioni giovanili cattoliche, assumendovi incarichi direttivi. Espresse simpatia per le tesi moderniste di Romolo Murri, alle quali si sentì sempre vicino anche se evitò la sconfessione della Chiesa, dalla quale Murri fu invece colpito.
Alla vigilia della prima guerra mondiale Gronchi fu risolutamente interventista: uno dei non molti cattolici di spicco – Domenico Bartoli nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi ricorda Giosue Borsi e Attilio Piccioni – che vollero la guerra contro l’Austria, e che si arruolarono volontari. Come ufficiale di fanteria meritò tre ricompense al valore militare: ambizioso, ma anche coraggioso.
Il primo dopoguerra consacrò la sua ascesa nelle file del Partito popolare: Pisa lo elesse due volte deputato, nel 1919 e nel 1921. Segretario della Confederazione italiana del lavoro, il sindacato cattolico, si collocò alla sinistra del suo Partito senza tuttavia sconfinare nel «comunismo bianco».
Quando Mussolini costituì, dopo la marcia su Roma, il suo primo governo, il Partito popolare accettò che vi fossero inseriti alcuni suoi rappresentanti: nell’illusione – di breve durata – di poter imbrigliare e parlamentarizzare il movimento vittorioso delle camicie nere, e il suo capo, non ancora Duce. Vincenzo Tangorra e Stefano Cavazzoni ebbero rispettivamente i Ministeri del Tesoro e del Lavoro, quattro furono i sottosegretari cattolici, Gronchi (per l’Industria e il Commercio), Merlin, Milani e Vassallo.
Ben presto, tuttavia, tra il fascismo e il Partito popolare fu dissidio, e poi rottura. Mussolini non tollerò una collaborazione condizionata e svogliata: e definì sostanzialmente antifascista il Congresso che il Partito popolare (pipì come dicevano spregiativamente gli avversari) aveva tenuto nell’aprile del 1923. Eppure in quell’assemblea i toni verso il fascismo furono ancora possibilisti, e un ordine del giorno De Gasperi sulla situazione politica approvò «la partecipazione dei popolari all’attuale Ministero, come apprezzabile concorso perché la rivoluzione fascista s’inserisca nella Costituzione».
I popolari furono comunque costretti ad andarsene dal governo. Molti di loro ebbero in quel frangente tentennamenti: numerose furono le diserzioni e i passaggi al campo opposto. A Gronchi non poterono essere rimproverati, sotto questo aspetto, cedimenti. Pronunciò discorsi di critica dura a Mussolini; rivolse un saluto commosso a Sturzo il giorno in cui il Vaticano, compromissorio quasi fino alla resa, lo costrinse ad abbandonare la segreteria del Partito popolare (gli succedette un triumvirato composto appunto da Gronchi, Rodinò e Spataro); tentò di opporsi alla repressione sindacale fascista riassumendo la guida della Confederazione del lavoro.
Piero Gobetti fu molto colpito dalla personalità del giovane politico, e nel suo periodico «La rivoluzione liberale» diede di lui un giudizio fin troppo elogiativo: «Gronchi sorprende e domina per l’agilità giovanile, per la modernità inquieta ed enciclopedica. In un mondo che prende quasi tutti i suoi soloni dal neotomismo, Gronchi sembra una rivoluzione paradossale, uno scopritore di nuovi orizzonti. Non può non stupire la fresca eleganza con cui egli cita Sorel e Maurras, Croce e Bergson. L’astuzia di Gronchi è di avventurarsi in queste scorribande senza presunzione e senza pedanteria, conservandosi la fama di dialettico brillante».
Nel 1926, proclamata e già affermata la dittatura, la carriera politica di Gronchi era spezzata. Egli stesso, probabilmente, temette che fosse finita per sempre. Poteva tentar di riprendere la strada dell’insegnamento: anche se, per il suo passato, non gli sarebbero mancati ostacoli. Ma non l’imboccò. Scelse invece la strada degli affari, e negli affari rivelò l’altra faccia della sua personalità: la scaltrezza spinta fino alla spregiudicatezza, la capacità di simulazione, l’avidità di denaro.
Riemerse dalla penombra dell’opposizione silenziosa al fascismo dopo la sconfitta, ed ebbe – com’era giusto – una posizione di primo piano nella Democrazia cristiana. Subito si riagganciò alla tematica sociale che gli era congeniale: lo attestano i discorsi che, come Ministro dell’Industria o come Presidente della Camera, andava pronunciando. Affermava che «classi che hanno dimostrato la loro impotenza vengono ad essere gradualmente sostituite da classi nuove perché la civiltà capitalistica è in fallimento»; che «l’opporre ferma resistenza al bolscevismo, come dottrina e come regime politico-sociale, non equivale a sbarrare il passo alle classi lavoratrici nelle loro aspirazioni a una migliore giustizia». Dopo il trionfo democristiano del 1948 avvertì che quel 18 aprile era stato «il più grosso equivoco dei ceti conservatori industriali ed agrari»: i quali votando DC avevano creduto di proteggere i loro interessi, e si sbagliavano. Erano, le sue, tesi nobili e magari in più d’un punto tesi giuste. Ma asservite a una volontà di fronda, di protagonismo e di potere che mal si conciliava con l’altezza dei concetti.
Gronchi era ostile a De Gasperi, che a sua volta l’aveva in uggia fiutando nelle enunciazioni populiste e nelle ostentazioni religiose dell’uomo molto opportunismo, se non molta doppiezza. Come Ministro dell’Industria Gronchi aveva appoggiato il «petroliere» Enrico Mattei, che non dimenticava i favori, e sapeva come retribuirli. Nella DC era un notabile di grande prestigio, privo tuttavia d’una solida base parlamentare e «correntizia», tranne che nel suo collegio. Poiché nel governo gli dava ombra, e gli creava fastidi, De Gasperi credette di neutralizzarlo issandolo, l’8 maggio 1948, alla carica altamente onorifica e scarsamente operativa di Presidente della Camera.
La poltrona si addiceva alle qualità di Gronchi, di parola pronta, di tratto superficialmente amabile, colto, duttile nel guidare i dibattiti e agguerrito nel risolvere le questioni procedurali. Dal suo ufficio di Montecitorio poteva avere contatti, e stringere accordi, con gli esponenti dei vari partiti e delle varie fazioni.
Fu in quel posto di comando che maturò la strategia antifanfaniana e antiscelbiana dell’elezione presidenziale. È vero che già la volta precedente il candidato ufficiale della DC, Sforza, era stato bocciato: lo era stato benché De Gasperi disponesse della maggioranza assoluta in parlamento e d’una autorità mai poi eguagliata nel Partito e nel Paese. Ma Einaudi era stato una «seconda scelta» gradita, in fin dei conti, al leader democristiano. Questa volta l’infortunio fu più spiegabile – essendo radicalmente mutato il quadro nel quale Fanfani agiva – ma fu anche più grave perché la candidatura vincente consacrò come perdente il segretario del Partito.
Questi aveva preventivamente convocato a Palazzo Barberini i deputati e senatori DC perché ratificassero la candidatura Merzagora. Non s’era verificata una rivolta – in casa DC si ha maggior propensione per le congiure – ma l’atmosfera era tesa. Infatti alla prima votazione, il 28 aprile 1955, fu chiaro che Merzagora era impallinato. A Parri andarono i 308 voti delle sinistre – un omaggio simbolico, mentre ancora non v’era nulla di deciso perché le prime tre votazioni richiedevano una maggioranza di due terzi –, Merzagora ne ebbe 288, Einaudi (candidato dei laici) 120, Gronchi 30.
Era un segnale. Che si precisò alla seconda votazione quando, ritirato il nome di Parri, Merzagora, anziché progredire, scese a 225 voti, Gronchi salì a 127, Einaudi ne ebbe 89. Alla terza votazione Gronchi prese la testa: 281 voti contro i 245 di Merzagora e i 61 di Einaudi. Il duello era anche visivamente emozionante – per la prima volta la televisione trasmise le sedute in diretta – perché Gronchi dava lettura delle schede, e Merzagora, seduto accanto a lui, ascoltava accigliato.
La DC era spaccata. Moro, Presidente dei deputati democristiani, ...

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  1. L'Italia dei due Giovanni
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L'Italia dei due Giovanni
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole