L'Italia del miracolo - 14 luglio 1948 - 19 agosto 1954
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L'Italia del miracolo - 14 luglio 1948 - 19 agosto 1954

La storia d'Italia #17

  1. 320 pagine
  2. Italian
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L'Italia del miracolo - 14 luglio 1948 - 19 agosto 1954

La storia d'Italia #17

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Superato l'assestamento postbellico, la vittoria elettorale della Democrazia cristiana sancisce definitivamente il passaggio a un nuovo ordine. Si apre ora la difficile via alla ricostruzione, segnata indelebilmente dalla figura di Alcide De Gasperi. Già ultimo presidente del Consiglio sotto la monarchia e capo provvisorio di Stato, a lui la Dc affida l'incarico di formare il governo. Un compito che si rivela particolarmente delicato: durante i mandati di De Gasperi, che si erano aperti sotto il segno dell'attentato a Togliatti, viene firmato il Patto Atlantico; nascono la Ceca e il Ced, primi antesignani dell'Unione europea; le colonie vengono dichiarate indipendenti; cominciano le occupazioni contadine al Sud e le grandi migrazioni interne verso il Nord; il Polesine è devastato dall'alluvione; l'organizzazione democratica subisce continui attacchi da parte degli opposti estremismi di destra e sinistra, si assiste ai primi pasticci politici come la "leggetruffa". E, soprattutto, il nostro Paese è chiamato a schierarsi compiutamente con le democrazie occidentali, non solo con scelte politiche ma inserendosi nel mercato internazionale e accettandone le regole. Montanelli e Cervi ci presentano il racconto affascinante di una stagione complessa - divisa tra un'operosità frenetica e i vizi tipici della Prima Repubblica - che fu fondamentale per il nostro successivo sviluppo: quel boom economico e sociale che De Gasperi, il grande protagonista di questo libro, riuscì a orchestrare senza avere il tempo per potervi assistere.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642986
Argomento
History
L’ITALIA DEL MIRACOLO
AVVERTENZA
Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi L’Italia di De Gasperi, e in realtà lo è. Ma l’editore suggerì che questo titolo non avrebbe facilitato le vendite, e noi abbiamo avuto la debolezza d’inchinarci a queste ragioni commerciali e di accettare L’Italia del miracolo, titolo certamente più attraente, ma non altrettanto pertinente almeno dal punto di vista cronologico.
Il «miracolo» infatti venne dopo l’episodio conclusivo del libro: la morte dello statista trentino, nel ’54. Se non come scusante, almeno come attenuante, noi possiamo tuttavia addurre il fatto che, anche se sbocciò più tardi, il miracolo ebbe le sue premesse in questo periodo, che vide il definitivo inserimento dell’Italia nella famiglia delle democrazie occidentali, e non solo come vincolo di politica estera col Patto atlantico e la Comunità europea, ma anche come accettazione delle regole del giuoco economico. Se non ci fossero state, grazie soprattutto a De Gasperi, queste decisive scelte contro le resistenze sia della sinistra comunista che si batté all’ultimo sangue contro di esse al servizio dell’URSS, sia della destra nazionalista, nostalgica e rancorosa verso gli ex nemici, nessun miracolo sarebbe stato possibile. De Gasperi non fece in tempo a vederlo. Ma ce lo lasciò in eredità.
Purtroppo non altrettanto possiamo dire della sua eredità politica, perché di eredi De Gasperi non ne lasciò. E proprio la sua caduta, pochi mesi prima della morte, lo dimostra. Prima che amareggiato, De Gasperi dovette restare stupefatto dalla mancata unanimità del Partito intorno al suo nome come segretario generale. Evidentemente egli non si era accorto che la DC, come del resto anche tutti gli altri partiti, non era più quella ch’egli aveva voluto che fosse e che in realtà era stata fino ai primi anni Cinquanta: una grande cinghia di trasmissione, intesa a interpretare e rappresentare la volontà degli elettori.
Che la DC e gli altri partiti democratici lo avessero fin allora sempre fatto e sempre fatto bene non si può dire. Ma che De Gasperi così intendesse e manovrasse il Partito, è sicuro. Quella che si trovò di fronte al Congresso del ’53 era però una tutt’altra DC in mano a una categoria di apparatchik – come li chiamano i sovietici che di questo sistema sono stati i grandi maestri –, cresciuti a sua insaputa nelle pieghe della «macchina» partitica, e diventatine i padroni.
In questi anni il Paese subisce infatti un’autentica rivoluzione con l’apertura delle sue frontiere, l’accettazione delle regole del mercato internazionale e le tumultuose migrazioni interne dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Le premesse di tutto questo erano state poste da De Gasperi e dalla sua «squadra»: gli Einaudi, gli Sforza, i La Malfa, i Merzagora, i Menichella con le misure di liberalizzazione avversate sia dai comunisti che dalla parte più retriva dell’imprenditoria nazionale avvezza da sempre ai pannicelli caldi dell’autarchia. Ma, scomparso De Gasperi, tutto questo prese a svolgersi al di fuori di una classe politica sempre più chiusa nella sua cittadella, e quindi sempre più estranea al Paese. Sicché, mentre la vita italiana si sviluppava – sia pure nel più totale disordine e con drammatici scompensi – nel campo economico, sociale, culturale eccetera, quella politica si sclerotizzava riducendosi a un giuoco di potere fra partiti, «correnti» e clan e dando inizio a quel deleterio fenomeno che si chiama «partitocrazia», e che oggi è arrivato alla sua fase di putrescenza.
Noi abbiamo cercato di rendere chiaro il groviglio di avvenimenti che segnarono questa fase del dopoguerra. Ci auguriamo di esserci, almeno in parte, riusciti.
I.M.
CAPITOLO PRIMO
L’ATTENTATO
Dopo la valanga democristiana del 18 aprile 1948 Alcide De Gasperi, forte della maggioranza assoluta in parlamento, capo d’un governo di coalizione che gli riconosceva un’incontestata autorità politica e morale, avrebbe potuto sperare in una estate tranquilla. I travagli, i pentimenti, le lotte intestine dovevano, secondo logica, essere appannaggio del Fronte popolare, uscito malconcio dalla prova elettorale.
Il vento delle polemiche interne squassò infatti furiosamente il Partito socialista, che nella spartizione dei seggi era stato penalizzato, con cinica deliberazione, dal PCI, e che sfogava i suoi rancori e confessava i suoi errori. Il Congresso che il PSI tenne dal 27 giugno al 1° luglio a Genova – il ventisettesimo della sua storia – fu convulso, pasticciato, una sceneggiata patetica. Nonostante tutto, non si placò la lotta per la conquista dei posti, «e non avvertono che sono posti che soltanto i pazzi possono desiderare» commentava Nenni, per l’occasione spettatore più che protagonista. Protagonista fu invece, come sempre, Sandro Pertini, cui sarebbe spettato il compito di difendere una mozione di saldatura tra la sinistra e il centro del Partito: ma lo fece «accentuando fino all’esasperazione le note dell’operaismo, dell’unità d’azione, addirittura del frontismo». Dalla sala gli gridarono «hai sbagliato mozione» e lui replicò «non voglio la vostra approvazione». Così dopo l’intervento di Pertini, che era atteso come chiarificatore, la confusione divenne ancor più grande. In extremis fu varato un programma scialbo e fragile, con Alberto Jacometti alla segreteria (Riccardo Lombardi, il cui passaggio dall’azionismo al socialismo era troppo recente, l’aveva rifiutata), e alla carica di vicesegretario Carlo Matteotti. Di Jacometti, Nenni disse benignamente che era un bravo compagno «ma forse inferiore al compito». Quanto a Carlo Matteotti, si trattava di un «mediocre acchiappanuvole con un nome illustre». Lombardi ebbe la direzione dell’«Avanti!». «È una cattiva scelta» commentò Nenni «prima di tutto per lui. Lombardi, che non sa cosa sia un giornale, che non conosce il Partito socialista, ci darà una brutta copia della fu “Italia libera”.»
Il PSI era allo sbando, e Nenni, politico guidato dalle emozioni più che da strategie a lungo raggio, assisteva alle convulsioni epilettiche del Partito, che erano una conseguenza diretta dell’abbraccio con i comunisti nel Fronte popolare, come se gli fossero estranee. La sua debolezza era pari solo alla sua vanità. Durante la discussione alla Camera sul programma del quinto governo De Gasperi – quello appunto che fu formato dopo il 18 aprile – aveva così scritto sul suo diario: «Quella di oggi [11 giugno, N.d.A.] è considerata la miglior giornata parlamentare della appena iniziata legislatura. Ci sono stati due discorsi: quello del democristiano Cappi e il mio».
Se i socialisti, ancora impegolati nelle liturgie del Fronte popolare ma ansiosi di liberarsene, si davano al gusto acre del litigio, i comunisti opponevano invece all’opinione pubblica un monolitismo tanto più impermeabile quanto più difficile e sofferto. Per loro il 18 aprile 1948 andava messo nel conto della guerra fredda, e nella guerra fredda inserito come un episodio importante e in qualche modo fatale. Nel suo freddo realismo Togliatti, che aveva previsto probabilmente la sconfitta, ma non le sue dimensioni, si proponeva un obiettivo preciso: quello di dare totale sostegno alle tesi sovietiche di politica internazionale. La battaglia interna era parte del grande scontro planetario. Gli avvenimenti consolidavano questa sua convinzione. Tutto si legava. Lo scisma di Tito maturò, è vero, prima del 18 aprile. Una lettera intimidatoria di Stalin e Molotov, che volevano ricondurre all’obbedienza il maresciallo ribelle, e se necessario sbarazzarsene con la scomunica, era stata recapitata a Tito il 29 marzo, e il 13 aprile la dirigenza jugoslava approvò una replica epistolare molto ferma. Ma la rottura giunse a compimento in maggio, quando Tito respinse l’invito a inviare delegati jugoslavi a una conferenza del Cominform, e il 28 giugno il Cominform stesso espulse la Jugoslavia dalla «famiglia» comunista. Non è il caso di tessere, in base a semplici ipotesi, una storia mai realizzatasi. Ma si può ragionevolmente affermare che, se il Fronte popolare avesse avuto la maggioranza in Italia e fosse andato al governo, il maresciallo eretico, stretto in una tenaglia ideologica e politica, anche se non militare, avrebbe dovuto con molta probabilità rientrare nei ranghi.
Un altro fatto di prima grandezza turbò quell’agitata stagione. In una implacabile escalation di misure restrittive i Sovietici recisero, uno dopo l’altro, i cordoni ombelicali grazie ai quali i settori occidentali di Berlino si alimentavano. Dapprima fu stabilito – 30 marzo 1948 – che il personale militare occidentale diretto a Berlino attraverso la zona d’occupazione sovietica della Germania dovesse presentare documenti d’identità; poi che i trasporti fossero ammessi a transitare per i posti di blocco solo se disponevano d’un permesso dell’Armata Rossa; infine – 24 giugno – fu annunciato che era stata interrotta la circolazione dei passeggeri e delle merci sulla linea Berlino-Helmstedt, l’unica che fosse rimasta aperta. Gli Anglo-americani decisero di rifornire i settori occidentali dell’ex capitale per via aerea: impegnandosi così a scaricare nella città suppergiù 3500 tonnellate di merci al giorno. Solo il 5 maggio del 1949 il blocco, che segnò uno dei momenti più drammatici e acuti della tensione tra Sovietici e «occidentali», ebbe termine.
La Germania postbellica
Quando Palmiro Togliatti pronunciò alla Camera, il 10 luglio 1948, un discorso contro l’adesione italiana al «piano Marshall» – che prendeva il nome dal segretario di Stato americano, e che assicurava ai Paesi pronti a beneficiarne larghi aiuti economici –, aveva ben presente l’insieme della situazione.
Il dibattito su quello che tecnicamente si chiamava «piano di ricostruzione europea» (European Recovery Program, Erp in sigla) era seguito con scarso interesse dai deputati, e Togliatti se ne rammaricò. Ma il ministro Corbino, che aveva il senso dell’umorismo, gli diede una spiegazione tagliente: «Perché dovremmo discutere e appassionarci dal momento che ci siamo già schierati? Ci siamo schierati nel corso della battaglia elettorale pro o contro la politica del piano Marshall. Nulla può cambiare adesso». Era vero. Ma Togliatti non pretendeva di cambiare, pretendeva invece di dimostrare, nel parlamento italiano, che la decisione con cui Mosca aveva rifiutato l’adesione al piano Marshall era legittima e sensata non solo dal punto di vista degli interessi dell’URSS, ma anche dal punto di vista tecnico. Stalin aveva respinto, dopo non poche esitazioni, la mano tesa degli Americani perché sospettava che la collaborazione economica sottintendesse o implicasse una ingerenza politica: il che solleticava la sua smisurata diffidenza. Obtorto collo i vassalli di Mosca s’erano adeguati alle direttive del Cremlino e avevano a loro volta rifiutato il piano Marshall: che era stato così confinato nell’ambito occidentale (e ai Paesi europei messi in ginocchio dalla guerra, fossero vincitori o vinti, avrebbe dato una spinta decisiva per lo straordinario sviluppo degli anni successivi).
«Piano Marshall, piano di guerra» è il titolo che gli Editori Riuniti hanno dato a questo intervento parlamentare di Togliatti, nel quinto volume delle sue opere. Vale la pena di citare largamente: per capire la posizione del PCI, ma anche per costatare quanto il capo carismatico che l’agiografia comunista vuole lungimirante e quasi infallibile fosse vincolato a schemi e parole d’ordine: acritico e, per l’occasione, miope. Togliatti disse che «il capitalismo europeo, nel suo sistema, quale era esistito nel periodo tra le due guerre mondiali, è stato profondamente scosso: si può anzi affermare che per gran parte è crollato». Si erano salvati dal disastro i Paesi dell’Europa orientale. «Essi… hanno modificato profondamente la propria struttura economica e sociale, si sono staccati dalla vecchia tradizionale economia agraria arretrata, hanno realizzato nelle campagne profonde riforme…; e in pari tempo si sono posti sulla strada di una rapida industrializzazione preceduta e condizionata dalla espropriazione dei vecchi gruppi monopolistici e realizzata attraverso piani di rapido sviluppo industriale che oggi sono tutti in corso di ottima attuazione. Una sola parte d’Europa… ha dimostrato… nonostante un’atroce guerra di quattro anni, di avere una struttura organica capace di resistere a quella prova cui non hanno resistito le strutture dell’Europa capitalistica.»
Insistendo, Togliatti spiegò che il risultato elettorale del 18 aprile «ottenuto con quegli indegni mezzi che voi sapete» aveva posto un ostacolo, in Italia, al progresso ormai inevitabile, e condannava «a maggiori dolori la collettività nazionale». Il piano Marshall, proseguì Togliatti, avrebbe asservito l’Europa occidentale all’imperialismo politico ed economico statunitense, e non avrebbe raggiunto nessuno degli scopi che gli venivano attribuiti: nemmeno lo scopo di riportare l’economia e i consumi dei Paesi ad esso associati, entro il 1951, ai livelli del 1938. «Questo, mentre abbiamo in Europa un Paese, come la Russia sovietica, che già oggi ha raggiunto e superato il livello di produzione industriale e agricola di prima della guerra… Questo mentre sulla stessa strada procedono ormai tutti i Paesi che stanno al di là della famosa cortina di ferro, con maggiore o minore rapidità di evoluzione, secondo i problemi più o meno gravi che ciascuno di essi deve risolvere. Concludiamo dunque che secondo il metodo che in questo piano viene proposto l’Europa capitalistica rimane in ogni modo legata a quella crisi, che è la crisi delle proprie strutture economiche e in particolare della propria industria, e le masse lavoratrici rimangono legate a una grave situazione di sottoconsumo.»
Poste queste premesse, le previsioni – se il piano Marshall fosse stato accettato, ed era certo che lo sarebbe stato – diventavano apocalittiche. «Si partirà da una crisi economica, sempre più acuta; si arriverà a un vero crollo, provocato da altri crolli in campo internazionale; vi sarà il tentativo di trascinare direttamente l’Italia nella guerra oppure, il che è forse più probabile, si farà di tutto per trasformare sempre più il nostro Paese in base di guerra di un imperialismo straniero? Oggi non sappiamo ancora come le cose andranno, ma tutte queste prospettive sono esiziali, sono tragiche, sono, per l’Italia e per il popolo italiano, prospettive di catastrofe.»
Alla fine del discorso Togliatti, che non improvvisava se non molto raramente, e che quindi doveva aver meditato anche questa frase, ebbe un’uscita minacciosa: «Desidererei dirvi però anche un’altra cosa: ed è che se il nostro Paese dovesse essere trascinato davvero per la strada che lo portasse a una guerra, anche in questo caso noi conosciamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con la insurrezione per la difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese! Sono convinto che nella classe operaia, nei contadini, nei lavoratori di tutte le categorie, negli intellettuali italiani, vi sono uomini che saprebbero comprendere, nel momento opportuno, anche questo dovere».
Erano, quelli di Togliatti, toni d’acceso patriottismo sovietico, in sintonia con una polemica nella quale si perdeva spesso, da una parte e dall’altra, il senso della misura. Tanto che il famoso gesuita padre Lombardi, soprannominato «il microfono di Dio» per gli accenti biblicamente anticomunisti delle sue prediche radiofoniche, aveva qualche settimana prima, davanti all’Ara Coeli, parlato in questi termini a mezzo milione di giovani cattolici: «Avventurieri erano venuti da lontani e cattivi Paesi con liste di gente da assassinare brutalmente. Migliaia e migliaia di Italiani furono uccisi e dei loro cadaveri fu fatto scempio. Questo spettacolo orrendo si rinnovò in tutte le città d’Italia ma allora Roma fu salva da questo pericolo. Gli assassini ancora onorati, saranno un giorno colpiti dalla giustizia». Sull’«Unità» Pietro Ingrao aveva bollato padre Lombardi, dopo la sua concione esagitata, come «gesuita di Salò». A sua volta Carlo Andreoni, direttore del quotidiano socialdemocratico «l’Umanità», non aveva lasciato passare sotto silenzio l’esplicito accenno di Togliatti, il 10 luglio, ad una possibile esplosione rivoluzionaria. «Per quanto ci riguarda» aveva scritto Andreoni il 13 luglio «dinnanzi a queste prospettive ed alla jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta, ci limitiamo ad esprimere l’augurio, e più che l’augurio, la certezza che se quelle ore tragiche dovessero suonare per il nostro popolo, prima che i comunisti possano consumare per intiero il loro tradimento, prima che armate straniere possano giungere sul nostro suolo per conferire ad essi il miserabile potere di Quisling al quale aspirano, il governo della Repubblica e la maggioranza degli Italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non solo metaforicamente.» La lapidaria frase finale di Andreoni apparteneva al repertorio, non di prima scelta, della polemica tra comunisti e «saragattiani»: questi ultimi apostrofati con monotona insolenza come «socialtraditori».
Per sfortuna di Andreoni quella sua chiusa retoricamente truculenta precedette di poche ore l’attentato a Togliatti: e fu presentata nelle settimane successive come un’istigazione a commetterlo. All’indomani dell’articolo, il 14 luglio, uno sconosciuto studente siciliano, Antonio Pallante, ferì gravemente Togliatti con tre colpi di rivoltella, e l’Italia si trovò veramente a un passo dall’insurrezione armata.
Quel 14 luglio 1948 era una giornata afosa. La Camera dei deputati si dedicava, piuttosto distrattamente, alla discussione di provvedimenti che non gremivano né accendevano l’emiciclo. Secondo Massimo Caprara, che era allora segretario di Togliatti, e che ha scritto, sull’attentato, un libro ricco di informazioni preziose e di vividi ricordi personali – anche se influenzato, e non poteva essere altrimenti, dal legame umano e politico con Togliatti – ci si occupava di contratti sul fitto dei fondi rustici e di vendite delle erbe per il pascolo: era presente, per il governo, il ministro dell’Agricoltura Antonio Segni. Secondo Andreotti «stavo parlando io sul non affascinante problema della fornitura di carta ai giornali quotidiani». Quale che fosse il tema del momento «era più che naturale» citiamo ancora l’Andreotti di De Gasperi visto da vicino «che Togliatti scegliesse un modo migliore per impiegare il suo tempo; e decise di andare a prendere un gelato da quel Giolitti, a due passi da Montecitorio, che è ormai divenuto più noto dello statista di Dronero».
Nonostante il linguaggio volta a volta intimidatorio e sferzante dei suoi discorsi, e nonostante la disfatta elettorale del 18 aprile, il leader comunista viveva una stagione umana radiosa. Qualcuno ha supposto che Togliatti non avesse poi troppo spasimato per il successo del Fronte popolare. Ipotesi ammissibile per motivi politici: egli sapeva in quale contesto internazionale si muovesse l’Italia, e quali complicazioni sarebbero derivate da un risultato delle urne in contrasto con la divisione del continente che, a torto o a ragione, ha preso nome dal vertice dei tre grandi – Roosevelt, Churchill, Stalin – a Yalta. Ma ipotesi ancor più ammissibile per motivi privati. L’esistenza di Togliatti era divenuta per taluni aspetti più difficile, ma per molti altri meno grigia e intrisa di ideologia, da quando era cominciata la sua relazione con Nilde Iotti. Il gelido cospiratore, il funzionario del Comintern refrattario alle emozioni e ossessionato unicamente dalla ragione di partito, si concedeva parentesi affettive, e di svago, che mai aveva conosciuto. Ufficialmente Togliatti non era separato dalla moglie Rita Montagnana, anche se la fine della loro unione appariva ormai irrevocabile.
Questa posizione ambigua – e sempre spiacevole benché non infrequente in un partito che in fatto di pruderie rivaleggiava con la Democrazia cristiana – determinava problemi logistici e problemi di sicurezza: i quali affioreranno infatti, nel corso delle polemiche s...

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  1. L’Italia del miracolo
  2. Copyright
  3. Premessa
  4. L’Italia del miracolo
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole