Vincere l'ansia con l'intelligenza emotiva
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Vincere l'ansia con l'intelligenza emotiva

  1. 288 pagine
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Vincere l'ansia con l'intelligenza emotiva

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Informazioni sul libro

In una società sempre più frenetica e competitiva, l'ansia è il fenomeno che più condiziona negativamente la vita emozionale, lavorativa e sociale delle persone. Appoggiandosi alle più recenti ricerche in campo neuroscientifico e all'apparato teorico dell'intelligenza emotiva, Michele Cucchi - psichiatra specializzato nello studio e nella cura dei disturbi emotivi - descrive le principali difficoltà vissute da chi soffre d'ansia e spiega come affrontare le molteplici forme che questo fenomeno può assumere: dall'ansia generalizzata alla timidezza patologica, dalla paura di trovarsi in pubblico ai disturbi causati da traumi specifici, dagli attacchi di panico alle ossessioni, l'autore indaga i disagi più diffusi nella nostra società e offre indicazioni pratiche per intraprendere un efficace percorso di cura. Grazie ad agevoli spiegazioni ed esempi concreti tratti dalle esperienze dei suoi pazienti, Cucchi ci insegna a governare e sconfiggere quel malessere quotidiano che paralizza le vite di molti, aiutandoci a ritrovare l'equilibrio necessario ad affrontare al meglio la vita.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858658369

Ma ci si può curare?
Le terapie disponibili:
quando, come e perché





La presa in carico del paziente ansioso

Guarire dall’ansia sembra facile, ma in realtà non lo è: non basta limitarsi alla mera cura del sintomo «attacco di panico», «ossessione», «fobia», ma bisogna provare a indurre un cambiamento nel funzionamento delle fragilità del cervello emotivo fin qui descritte, che favoriscono l’organizzazione del disturbo a partire dall’esperienza dei fenomeni ansiosi. Si tratta spesso di rivoluzionare in maniera radicale lo stile di vita di chi ne è affetto.
Spesso ci si trova ad affollare gli ambulatori del proprio medico di fiducia, in genere il medico di base, in cerca di una rassicurazione rispetto alla natura del proprio disagio.
La prima aspettativa è quella di essere soddisfatti nel bisogno di accudimento e «presa in carico». Per ottenerlo si passa attraverso una fase che in gergo si chiama «restituzione e psicoeducazione», nella quale le capacità del professionista si mescolano alle sue facoltà empatiche, umane. L’obiettivo che ci si pone è far sentire il paziente compreso, chiarirgli la sua condizione, come se finalmente i pezzi di un puzzle venissero messi in ordine.
È poco frequente riscontrare la necessità di un ricovero ordinario; questa evenienza si verifica solo quando la sindrome clinica comporta un blocco totale delle funzioni socio-lavorative, quando sussiste una complicazione clinica – come la copresenza di un problema di abuso di sostanze, cui spesso si fa ricorso come forma di automedicazione dell’ansia –, o quando la sensazione di impotenza indotta dal cambiamento della condizione clinica è tale da richiedere uno stacco dal quotidiano. Molto più di frequente la tipologia di intervento è quella ambulatoriale, di certo adeguata, nella maggior parte dei casi, all’impostazione di un piano di cura completo.
Sovente, chi soffre d’ansia non trova un interlocutore adeguatamente preparato e tecnicamente pronto a quei trenta minuti dedicati al «far capire che ti capisco» e ricorre al «fai da te», ricavando informazioni da giornali, riviste e siti internet, che spesso hanno valenza più pubblicitaria che davvero psicoeducativa e terapeutica. L’ansia rimane allora un «oggetto non meglio identificato», gestito con metodiche, e da professionisti, di varia natura – delle più disparate a dire il vero –, talvolta supportati da una base medico-scientifica poco solida e con risultati sconfortanti. Il paziente rimane quasi uno spettatore, con la sensazione che qualcuno gli stia ristrutturando la casa delle emozioni senza avergli sottoposto il progetto.

Allenarsi alla guarigione

Dunque ci si può curare? La risposta è: assolutamente sì! Certo, ci sono alcune condizioni da porre, perché curarsi bene non è così facile. Questo tipo di disturbi è spesso sottovalutato e affrontato superficialmente, quando invece un trattamento specifico potrebbe portare a un reale, e duraturo, cambiamento della qualità della vita. È usuale cadere in un grande fraintendimento: la rassicurazione indotta dalla sensazione di essere compresi e curati diventa il risultato su cui ci si siede, magari complice anche una terapia ansiolitica, il famigerato tranquillante, la coperta di Linus. Invece è necessario un ulteriore step, quello in cui ciascuna persona matura i propri anticorpi rispetto all’ansia, impara a emozionarsi con efficacia, intelligenza, gestendo le emozioni negative, utilizzandole senza subirle. La rassicurazione e il senso di fiducia indotti dall’«essere in cura» sono solo il presupposto mentale su cui poggiare il cambiamento.
La persona affetta da un disturbo d’ansia deve prendere consapevolezza del fatto che la cura della propria condizione debba necessariamente implicare un percorso, che non è come entrare nello studio di un medico lamentando un sintomo e uscirne che ne è stata «rimossa» la causa: «Buongiorno dottore, mi fanno male i denti, proprio lì». «Okay, facciamo un’otturazione…» «Ah fantastico: ora sì che sto meglio, mi sento come nuovo!»
Qui la storia è tutta diversa. Succede solo di rado che il trattamento di un disturbo d’ansia si concluda in qualche settimana – come se fosse una cura antibiotica – e tutto finisca dissolvendosi nel nulla così come dal nulla era arrivata la sintomatologia. Si tratta di casi di disturbi specifici (talvolta capita con l’attacco di panico), che presentano precise caratteristiche cliniche, per esempio un’elevata componente di squilibrio chimico e una bassa destabilizzazione emozionale di base. Ma non è la regola, anzi.
Il trattamento, come abbiamo già detto, può essere assimilato a una palestra dove ci si allena per migliorare le proprie performances. La prima fase è quella che riduce i sintomi più evidenti e ci permette di tornare, per così dire, in carreggiata. Per sentirsi veramente liberi, per sviluppare gli «anticorpi» per combattere l’ansia, però, la strada da fare è un po’ più lunga. Non è impraticabile, ma non sono ammessi perditempo! Bisogna rimboccarsi le maniche e predisporsi a un duro allenamento, imparare a pensare in modo differente, trovare approcci ai problemi con strategie diverse, sviluppare un maggior autocontrollo, una maggiore autostima. I compagni di viaggio in questo allenamento sono la costanza, la gradualità e la tolleranza.
Un serio percorso clinico non può prescindere da questi tre livelli:
1. Alleviare i sintomi
2. Modificare la percezione di ciò che la condizione di malattia e il presentarsi dei sintomi significano per chi ne soffre
3. Armonizzare il proprio sistema emotivo.
I tre livelli possono essere affrontati in modi e tempi differenti, a seconda della persona. Non esiste da questo punto di vista la scelta giusta sempre e comunque. È imperativo che il paziente capisca che la scelta del percorso di terapia va personalizzata, condivisa e quindi definita insieme al proprio professionista. Non deve mai essere subita come una prescrizione.
Quanto al primo e al secondo livello, la «tecnica» terapeutica viene stabilita in larga parte dalle linee-guida scientifiche internazionali. Sul terzo livello di cambiamento – quello che interviene sulla fragilità di sottofondo –, poco è stato detto e poco si sa. In assoluto non possiamo escludere che forme di approccio molto dissimili fra loro possano pervenire a risultati simili, in persone differenti. Le emozioni, la loro natura, il modo di viverle e utilizzarle intelligentemente, o meglio di essere intelligenti emotivamente, diventano l’argomento fondamentale, la cornice di riferimento; è imprescindibile sentirsi su un percorso individualizzato e personalizzato, come quando si va da un sarto per realizzare un vestito su misura.
Porsi questo fine sposta l’attenzione dal modello medico, concentrato sull’attenuazione dei sintomi, alla prospettiva della persona nella sua globalità. Sembra una sciocchezza ma di fatto quando ci si reca da un medico per un problema come questo non si hanno le idee chiare su cosa ci si aspetta e su cosa desiderare. Questo perché si tende a vivere il ruolo del «malato» basandosi sul paradigma della malattia («devo raccontare i miei sintomi») e non della persona («posso raccontare il mio disagio»). La natura e la qualità delle manifestazioni della malattia possono essere comprese, e adeguatamente affrontate, solo se ci si addentra nella propria vita emotiva, acquisendo la capacità di trovare felicità, salute e benessere nel coltivare un rapporto armonico con le proprie esperienze emotive.

«Se lo conosci non lo temi»

La prima tappa terapeutica deve essere, come abbiamo accennato poc’anzi, la psicoeducazione, ovvero una sorta di «corso didattico formativo» sul disturbo. Nel nostro caso il famigerato detto «Se lo conosci lo eviti» può essere adattato e trasformato in «Se lo conosci non lo temi». La profonda angoscia che vive chi è affetto da simili disturbi nasce proprio dal fatto che si è consapevoli di avere un problema, lo si teme, ma non lo si capisce e non si sa cosa sia davvero. Spesso si pensa a una cosa grave, potenzialmente letale; ci si vergogna e ci si affligge per la bizzarria di certe sue manifestazioni. Questo avviene proprio perché, pur essendo «esperti» del proprio disagio, non lo si è certo della propria malattia! La non comprensione non permette di vivere il problema in modo adeguato a ridurre il disagio. Ciò di cui stiamo parlando, qui, non è dell’accettazione, pur importante: bisogna comprendere che il primo aiuto che possiamo dare a noi stessi è condividere una spiegazione e poter dare un significato differente a ciò che si prova. Teniamolo a mente: il malato è l’esperto del disagio, il clinico è l’esperto della malattia, e una fusione di queste due esperienze è già di per sé cura. Anzi, un pezzo fondamentale della cura. In questo senso la psicoeducazione è comprensione.
Certo, non basta: la psicoeducazione è anche, a un primo livello più basico, rassicurazione. Avere qualcuno che ci comprende, che anticipa le nostre parole nel descrivere quello che proviamo è molto tranquillizzante. La rassicurazione è una «stampella» potentissima nei confronti delle problematiche ansiose, ma non bisogna abusare di questa risorsa. All’inizio aumenta eccezionalmente la compliance e la fiducia nella terapia e nel terapeuta, ma potrebbe diventare, a lungo andare, una trappola e fonte di rallentamento del cambiamento.
Da ultimo, ma non per importanza, la psicoeducazione è il primo gradino sulla scala della consapevolezza; veicola informazioni che permettono una migliore messa a fuoco di ciò che si vive, è come rivedere un film insieme a un critico cinematografico che ci fa notare alcuni dettagli tecnici, visitare una mostra d’arte con una guida che ci illustra il significato di alcuni particolari che, magari, non avremmo mai colto, e, all’improvviso, ogni cosa sembra più chiara, più plausibile, tutto torna e tutto si lega in una visione d’insieme. È un’esperienza entusiasmante perché infonde speranza: entriamo nello studio del medico carichi di dubbi, perplessità, bisognosi di affidarci a lui e ne usciamo con una sensazione di leggerezza, di essere finalmente sulla strada giusta, di aver ridimensionato quella che credevamo essere una nostra peculiare stranezza in una cosa piuttosto comune.

Un percorso condiviso

Dopo la fase di psicoeducazione sul disturbo, il paziente si deve immergere nella dimensione della «previsione condivisa». Non bisogna illudersi di trovarsi di fronte professionisti che, con fare taumaturgico, asseriscono di avere tutto sotto controllo e, imponendo le mani, profetizzano una mistica redenzione dall’ansia. Medico e paziente «condividono» quelle che saranno le tappe di un percorso, definendo obiettivi e strumenti. Questa fase ha tre risvolti fondamentali: riduce le aspettative sugli effetti «magici» che si possono avere riguardo a farmaci o altri presidi terapeutici, aumenta la sensazione di intraprendere un percorso concreto e poco fumoso, responsabilizza il paziente su alcuni aspetti della cura che lui solo può realizzare.
Le persone con un disturbo d’ansia, che ne soffrono da tempo e lo vivono come una condanna ghettizzante, hanno bisogno di credere di nuovo in se stesse e di convincersi che, con un valido supporto, ce la possono fare. La condivisione della previsione ha l’obiettivo di creare i presupposti perché ciò avvenga.
Il ragionamento che va condiviso tra medico e paziente deve comprendere la domanda: «Qual è il risultato che si vuole ottenere?».
È fondamentale, infatti, il significato che si dà alla cura. La cura è sia la pillola, sia la psicoterapia, sia il medico stesso: tutti e tre sono presidi di cura. È imprescindibile, per imparare a stare bene, capire a chi, o a cosa stiamo attribuendo, o crediamo di poter attribuire, il cambiamento. Deve però essere chiaro che il protagonista attivo del cambiamento è il malato. Questo non vuol dire «aiutati che il ciel ti aiuta». Significa che il trattamento, per sortire un effetto davvero efficace, duraturo e completo sullo spettro dei sintomi che vuole curare, deve passare attraverso la maturazione nella gestione delle proprie risorse emotive e degli strumenti di terapia.

Il cammino di cura

Risultati terapeutici a breve-medio termine, periodo tradizionalmente quantificabile nei primi sei mesi di cura, ottenuti con approcci «gold standard», ovvero quelli raccomandati dalle linee-guida scientifiche internazionali, sono più che soddisfacenti con percentuali di remissione della sintomatologia del disturbo attorno al novanta per cento. È possibile affermare che, da un punto di vista pratico, le manifestazioni del disturbo possono essere ridotte e pressoché azzerate nella quasi totalità dei pazienti. Certo, per ottenere questo risultato inizialmente la strada è abbastanza obbligata e passa attraverso un approccio combinato di farmaco più terapia psicologica specialistica.
Gli ingredienti da ricercare per garantirsi i risultati in questa fase sono tre: la corretta scelta del farmaco, il giusto approccio psicologico, un adeguato rapporto medico-paziente.
La scelta del farmaco è fondamentale. Ci sono tre regole da conoscere quando si assumono farmaci per questi disturbi:
1. I farmaci sono stupidi e fanno sempre la stessa cosa, non esiste che una volta funzionino e una no, che funzionino a intermittenza o in maniera differente in momenti diversi.
2. I farmaci vengono assunti per risolvere un problema specifico. In una ricetta culinaria, non potrebbero essere paragonati al sale, senza il quale il piatto è scialbo, e nemmeno al prezzemolo, ché «una spolverata sopra non fa mai male»; sarebbero invece un ingrediente specifico e insostituibile della ricetta come la pancetta nella carbonara: il piatto si mangia comunque senza, ma solo con la pancetta il sapore è davvero completo, seppure la pancetta da sola non ne implichi il successo.
3. L’utilizzo sintomatico dei farmaci dovrebbe essere bandito perché concettualmente è come curarsi una polmonite con la Tachipirina: stiamo meglio ma non ci cura l’infezione, non risolve il problema.
Vediamo cosa aspettarci veramente dalla terapia farmacologica. Il farmaco ha come obiettivo quello di spegnere la sintomatologia florida dell’ansia, quella che difficilmente una terapia psicologica, mediante una differente interpretazione e gestione delle emozioni, permette di risolvere. L’intervento farmacologico si focalizza sull’abnormità del fenomeno «emozioni», non tanto sulla sua adeguatezza in termini di corretta pertinenza con l’evento che si sta vivendo e che le genera. Per esempio i farmaci agiscono in modo specifico sulla ricorrenza degli attacchi di panico spontanei, i «fulmini a ciel sereno», diminuiscono il volume della cassa di risonanza delle sensazioni corporee, l’anomalo livello dell’arousal emotivo; riducono la pervasività e la violenza del pensiero ossessivo, affievolendolo, ripristinano una normalità nel vissuto degli eventi traumatici inibendo i flash back.
I farmaci di riferimento sono gli antidepressivi della categoria Ssri. Il loro «giusto» dosaggio va trovato incrementando gradualmente l’assunzione e trovando il limite a cui il farmaco ottiene l’effetto desiderato.
In genere, dopo quattro settimane di assunzione della terapia corretta, si percepisce un miglioramento notevole di armonia con le emozioni. È un avvenimento talmente catartico che bisogna stare attenti a non glorificarlo troppo, perché è solo un primo, superficiale, per quanto sostanziale, cambiamento. In queste quattro settimane però bisogna avere pazienza, si devono aspettare i benefici a fronte di un possibile, seppur non scontato, piccolo peggioramento dei sintomi indotto dal farmaco: è come se questi prodotti all’inizio tendessero a mandare ancor più fuori giri il motore, e per un lasso di tempo ristretto la sensazione può essere quella di peggiorare.
La terapia psicologica deve permettere di prendersi la rivincita sulla «paura della paura» e recuperare la libertà di muoversi ogni giorno senza pensare: «E se poi mi viene l’attacco?»; «Come faccio a gestire le mie ansie?»; «Come faccio a non controllare tutte quelle volte di aver spento il gas?». È una fase della terapia difficile ma fondamentale; si basa sulla capacità da parte del professionista a cui ci si affida di conferire al paziente la sensazione di poter gestire e capire le proprie sensazioni, senza appoggiarsi troppo su aiuti esterni, come il compagno fobico, la terapia ansiolitica, l’evitamento.
Il metodo di intervento psicologico dimostratosi più efficace e specifico in questa fase è quello che prende il nome di «cognitivo comportamentale». In sostanza è una strategia basata sul mettere in evidenza i pensieri, le convinzioni e le emozioni provati nei momenti critici di disagio e discuterne l’appropriatezza. Non esiste un pensiero o un’emozione giusta o sbagliata: si tratta di trovare la «retta via». Questo metodo permette di imparare a identificare le emozioni che per varie caratteristiche – intensità, tempismo, adeguatezza – sono fuorvianti e...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Presentazione e ringraziamenti
  5. Disturbi d’ansia e intelligenza emotiva: la ricerca del benessere fra disagio e malattia
  6. Intelligenza emotiva e neurobiologia del cervello emotivo
  7. Ansia come stile di vita: l’ansia generalizzata
  8. Vivere con una spada di Damocle sulla testa: panico e paura della paura
  9. Rosso pomodoro: la fobia sociale
  10. Strane manie: ossessioni, bizzarrie e dintorni
  11. Episodi che segnano una vita: il disturbo post-traumatico da stress
  12. Ma ci si può curare? Le terapie disponibili: quando, come e perché