Tre volte no
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Tre volte no

  1. 140 pagine
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Tre volte no

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"Il fascismo ci aveva portato via le scuole, la lingua, persino i nomi. Tutto ciò che poteva esprimere, anche vagamente, la nostra identità nazionale fu cancellato." Boris Pahor era solo un bambino quando a Trieste fu proibito parlare sloveno. L'italianizzazione forzata, imposta dal fascismo alla città multiculturale in cui era nato e cresciuto, lo segnò per sempre. Studente più volte bocciato, seminarista per ripiego, soldato dell'esercito italiano, antifascista militante, deportato politico, insegnante e infine scrittore acclamato, Pahor ripercorre qui gli snodi della sua esperienza scandita dai tre no che oppose con uguale fermezza al fascismo, al nazismo e al comunismo. Attraverso il racconto personale – dall'incendio della Casa di cultura slovena ai campi di concentramento, dalle memorie di infanzia al primo amore salvifico – l'autore di Necropoli ricorda ai troppi che vogliono dimenticare che il fascismo non fu un regime tollerante, ma incarnò un male violento e oppressivo. E ripete che è giusto commemorare le vittime della barbarie delle foibe, ma è altrettanto necessario ammettere prima i soprusi di una dittatura senza pietà nei confronti delle minoranze. Perché la tragedia delle terre di confine nasce proprio dai silenzi di una memoria troppo indulgente con se stessa. Tre volte no testimonia la tenacia di un uomo che ha imparato a proprie spese l'importanza di ancorarsi alle radici, linguistiche e culturali; la difficoltà di mantenere viva un'identità negata dalla storia; il bisogno di asserire il proprio diritto alla libertà. E ha saputo trovare la forza di reagire e mettere la parola letteraria al servizio della memoria, per denunciare le aberrazioni dei sanguinosi totalitarismi del Novecento e gli strascichi che ancora oggi portano con sé.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858654521

«Il piroscafo s’annegò»

L’infanzia e l’ascesa del fascismo a Trieste

Negli ultimi decenni la Mitteleuropa di impronta asburgica è stata riscoperta e idealizzata come luogo di perfetta fusione di popoli e culture. In che modo la dissoluzione dell’impero influì sulle condizioni delle minoranze slave passate all’Italia?
La mia famiglia, come molte altre famiglie slovene di Trieste, veniva dal Carso. Mio nonno paterno si era trasferito in città nella seconda metà dell’Ottocento. Aveva una bancarella nel mercato di ambulanti di piazza del Ponterosso, dove vendeva la ricotta e il miele. Mio padre, Franc Pahor, era nato a Kostanjevica sul Carso nel 1882 e faceva parte della gendarmeria come fotografo della scientifica. Mia madre, Marija Ambrožič, era nata a Šenpeter na Krasu (San Pietro del Carso) ed era cuoca presso un’importante famiglia triestina. I miei genitori si erano sposati per amore nel gennaio del 1913 e io sono nato il 26 agosto dello stesso anno.
All’epoca abitavamo nel cuore della città vecchia, in via del Monte, una viuzza di cui parla anche Umberto Saba in Tre vie:
A Trieste ove son tristezze molte,
e bellezze di cielo e di contrada,
c’è un’erta che si chiama Via del Monte.
Incomincia con una sinagoga,
e termina ad un chiostro; a mezza strada
ha una cappella; indi la nera foga
della vita scoprire puoi da un prato,
e il mare con le navi e il promontorio,
e la folla e le tende del mercato.
Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto
abbandonato, ove nessun mortorio
entra, non si sotterra più, per quanto
io mi ricordi: il vecchio cimitero
degli ebrei, così caro al mio pensiero,
se vi penso i miei vecchi, dopo tanto
penare e mercatare, là sepolti,
simili tutti d’animo e di volti.
Proprio di fronte al cimitero del ghetto ebraico che Saba descrive c’era la casetta dove abitavano i miei. Dopo di me sono nati diversi bambini, ma sono rimaste in vita solo tre sorelle: Maria, nata nel 1915, è stata vittima della terribile influenza spagnola del 1918; Evelina, di un anno più grande, è scomparsa nel 1994; e Marica, nata nel 1919, è morta di tisi nel 1947, poco dopo il mio ritorno dal sanatorio francese.
La mia vita è stata da sempre quella della comunità slovena di Trieste, che fino al 1918 era unita agli altri sloveni sotto il dominio degli Asburgo. Le radici della nostra vita triestina risalgono a dodici secoli fa, come affermò anche Scipio Slataper nel 1912.
Per secoli abbiamo svolto lavori umili e di fatica: gli sloveni erano contadini, scaricatori di porto, donne di servizio, cuoche e balie – anche Saba ne aveva una, che chiamava Peppa. Fu la «primavera dei popoli» del 1848 a risvegliare poco a poco anche la nostra coscienza nazionale.
All’epoca Trieste era una città molto attiva e vitale, perché Vienna si impegnava a sviluppare il suo unico sbocco sul mare, creando nel 1717 il porto franco. Dopo l’apertura del canale di Suez il porto era diventato un importante snodo per le rotte navali, che arrivavano fino all’estremo Oriente, e la rete ferroviaria, efficientissima, permetteva intensi scambi commerciali e soprattutto culturali. Tra Ottocento e Novecento, a Trieste soggiornarono i massimi intellettuali europei: Rainer Maria Rilke, Sigmund Freud, Christian Friedrich Hebbel, Henrik Ibsen, August Strindberg, Otto Weininger, James Joyce. Fu grazie a loro che Trieste accolse e propose nuovi stili, superando il modello di scrittura tradizionale. Questo fece della città un esempio di pluralismo culturale.
La grande apertura nasceva anche dall’intrinseca eterogeneità della sua gente. Italiani, tedeschi, sloveni, ma anche croati, serbi, cechi, greci, armeni popolavano le vie, gestivano le attività e animavano tutti i settori della vita pubblica. Sotto l’impero asburgico, le comunità nazionali si erano sviluppate liberamente e la città era diventata di fatto trilingue: si parlava tedesco, italiano e sloveno. La stessa amministrazione usava il trilinguismo per i documenti. Per questo gli sloveni, che padroneggiavano bene i principali idiomi, trovavano impiego nell’amministrazione più facilmente degli italiani. Il crescente peso sociale e culturale slavo suscitò però l’ostilità della borghesia italiana, che voleva mantenere saldamente la propria supremazia politica, culturale ed economica. La libertà e lo sviluppo che Vienna avrebbe concesso alla comunità slovena erano di fatto ostacolati dalle autorità comunali, praticamente in mano italiana.
La situazione peggiorò bruscamente dopo l’Unità di Italia, quando gli irredentisti della regione iniziarono a rivendicare la città. Gli italiani volevano conservare a tutti i costi il predominio, mentre gli sloveni chiedevano il pieno riconoscimento dei propri diritti nazionali e politici e l’emancipazione sociale. Per esempio proposero di istituire una scuola pubblica di lingua slovena anche in città, oltre a quelle che già esistevano nel circondario, ma il Comune si oppose nel timore che Trieste potesse diventare più slovena di quanto già non fosse. Gli sloveni non si arresero e aprirono la propria scuola privata di San Cirillo e Metodio, nel quartiere operaio di San Giacomo. Quell’edificio, nel secondo dopoguerra, diventò la casa editrice del «Primorski Dnevnik» (Gazzetta del litorale), il quotidiano della comunità slovena del Friuli-Venezia Giulia.
La Prima guerra mondiale fece precipitare la situazione. Il Patto di Londra del 1915 garantiva all’Italia l’annessione delle «terre irredente» come premio per l’entrata in guerra. La comunità slovena della regione, che in verità non partecipava all’irredentismo italiano, cominciò a temere per i propri diritti: le autorità austriache non avevano mai perseguitato né internato gli sloveni. Infatti, Ivan Cankar, uno dei più importanti scrittori sloveni, aveva pubblicato quaranta volumi nella sua lingua. Questo non sarebbe più stato possibile dopo il passaggio all’Italia.
Venuti a conoscenza del Patto di Londra del 1915, molti soldati triestini di nazionalità slovena e croata preferirono quindi combattere contro l’Italia: non tanto per il giuramento fatto all’imperatore, quanto per timore di diventare una minoranza all’interno dello Stato nazionale italiano.
Esisteva un precedente significativo. Dopo la Terza guerra d’Indipendenza (1866), con l’annessione del Veneto e del Friuli occidentale, la comunità slovena delle valli del Natisone si trovò sotto la sovranità italiana. Già quel primo caso di confronto tra la volontà uniformatrice dello Stato nazionale e una minoranza coesa intorno alla propria identità culturale era stato risolto con l’imposizione dell’italiano come lingua ufficiale per sradicare l’identità nazionale. L’autonomia amministrativa, culturale e linguistica di cui godeva la comunità slovena nel periodo veneziano precedente fu soppressa.
I fatti confermarono le previsioni più negative: nel 1918, l’Italia promise alla minoranza slovena della Venezia Giulia condizioni migliori rispetto a quelle dell’impero asburgico, invece attuò una politica di nazionalizzazione. L’annessione portò sotto il governo italiano circa 350.000 sloveni; di questi, circa 80.000 decisero di emigrare nel neocostituito Regno dei Serbi, Croati e Sloveni o oltreoceano, pur di sfuggire all’italianizzazione linguistica e culturale imposta nei nuovi territori. Questo drammatico antecedente viene tralasciato nel dibattito sull’esodo degli italiani istriani e dalmati nel secondo dopoguerra.
Quando Trieste diventò italiana, agli impiegati sloveni che un tempo appartenevano all’amministrazione austriaca fu imposto il trasferimento d’ufficio, soprattutto se rivestivano incarichi importanti. Mio padre fu destinato in Sicilia, ma non volle saperne di lasciare Trieste e scelse di andare in pensione. Il suo compenso era modesto perché aveva lavorato pochi anni e per vivere riprese il mestiere di mio nonno: vendeva burro, ricotta dolce, ricotta acida e miele nella piazza del Ponterosso, all’epoca il principale mercato cittadino.
Il suo bancone era una specie di cassapanca montata su quattro piccole ruote, che ogni giorno doveva essere depositato in magazzino. Era una vita di sacrifici, soprattutto d’inverno, quando doveva montare una tenda sopra il cassone e lottare a lungo contro la bora che spazzava via tutto. A volte i cesti e la merce finivano nel canale. Per ripararsi dal vento e dal freddo pungente metteva sotto la camicia i fogli del giornale sloveno «Edinost» (Unione), il suo quotidiano.
La situazione sociale della nostra famiglia peggiorò pochi anni dopo, quando un amico di mio padre decise di aprire un negozio di pelletteria in città e gli chiese di fargli da garante per un prestito. Mia madre, donna molto pratica, era contraria, ma si lasciò convincere dal marito secondo cui era giusto aiutare un amico in difficoltà. Purtroppo il negozio in questione fallì e noi ci trovammo coperti di debiti. Per fronteggiarli, fummo costretti a cercare una sistemazione molto economica e finimmo in un sottoscala. I miei genitori accettarono di fare i custodi di un palazzo.
Il nostro «appartamento» era un monolocale. Una tenda tesa su un cavo con gli anelli cuciti da mia madre separava la cucina dalla camera da letto. Le uniche due finestre che avevamo erano in cucina e si affacciavano sul muro del cortile interno, mentre la camera da letto era al buio. La più disgraziata fu mia madre, che era obbligata a fare le pulizie nel palazzo: in ginocchio, con la spazzola e la calce in mano, strofinava le scale per cinque piani. Solo molti anni dopo ho potuto capire l’umiliazione alla quale fu costretta.
Certo che anche per mio padre il passaggio da fotografo a venditore ambulante fu una ragione di continua insoddisfazione.
Proprio nella Venezia Giulia il fascismo manifestò fin dall’inizio una tendenza alla violenza maggiore che altrove. L’incendio della casa di cultura slovena, il Narodni Dom, il 13 luglio 1920 dimostrò definitivamente l’efferatezza di cui erano capaci gli squadristi. Cosa ricorda di questo episodio e che significato ebbe per la comunità slovena?
Noi abitavamo in via Commerciale, non molto distante da piazza Caserma, oggi piazza Oberdan, dove si trovava il Narodni Dom. Era un edificio di sei piani, molto bello e imponente. Era il primo degli stabilimenti multifunzione. Infatti, al suo interno raccoglieva un teatro, una biblioteca, diversi uffici, assicurazioni, una banca, un caffè e l’Hotel Balkan. Queste ultime due attività – il bar e l’albergo – finanziavano le iniziative culturali vere e proprie.
Era il luogo di incontri privilegiato per noi sloveni, il cuore stesso della nostra cultura. Per noi bambini era un posto speciale: il 6 dicembre di ogni anno ci andavamo per la festa di san Nicolò. Un adulto si travestiva come il santo e distribuiva a tutti noi i doni. Nei pacchi c’erano sempre i dolci e anche qualche libro in sloveno.
Quando appiccarono il fuoco, quel fatidico 13 luglio 1920, si vedevano da lontano le fiamme e il cielo che bruciava. Fu la nostra vicina Mitzi ad avvertirci dell’incendio. Abitava nell’appartamento sopra il nostro e noi bambini andavamo spesso a trovarla, perché lei – che faceva la sarta ed era quasi sempre in casa – ci raccontava le favole mentre cuciva. Il suo appartamento era una sorta di nascondiglio, quando desideravamo evadere dal nostro piccolo e buio.
Ricordo che quel giorno Mitzi si precipitò giù dalla scale. «Il Narodni Dom sta bruciando» disse a mia madre. Ci raccontò terrorizzata che l’avevano cosparso di benzina. C’era gente, ripeteva, che si buttava giù dalle finestre. Mia sorella Evelina e io, lei di 4 e io di 7 anni, uscimmo di corsa sulla strada per vedere che cosa stava succedendo. Non sono più riuscito a dimenticare ciò che vidi. Quello spettacolo si impresse indelebile nei miei occhi. Vedevo quell’orrore e non capivo perché alcuni stessero festeggiando.
Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: «Viva! Viva!». Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: «Eia, eia, eia!». E gli altri allora di rimando: «Alalà!». Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.
«Eia, eia, eia, alalà!» gridavano come dei forsennati e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere.
(Dal racconto Il rogo nel porto)
L’incendio fu soltanto il primo e più sconcertante gesto di odio nei nostri confronti, a cui purtroppo ne seguirono molti altri. Esistevano vari circoli nei diversi rioni della città, ma solo il Narodni Dom sorgeva in pieno centro e con la sua imponenza feriva ogni giorno l’orgoglio dei nazionalisti italiani. Per tanti l’attentato fu un segno inequivocabile: il fascismo aveva distrutto il simbolo della nostra cultura.
Il fascismo ricorse spesso anche a forme più sottili e pervasive di intolleranza, che si traducevano in quotidiane discriminazioni. Per esempio, le politiche scolastiche nella Venezia Giulia imposero l’italiano come lingua unica e bandirono ogni altra lingua e cultura per minare la sopravvivenza della coscienza nazionale delle minoranze. I bambini furono le prime vittime di questa italianizzazione forzata. Cosa significò per lei abbandonare la scuola slovena e dover studiare in italiano?
Quale possibilità di difenderti ti rimane se dappertutto, dove sorgono case di cultura slovene, s’innalzano i roghi; e non basta averti privato delle scuole e dei giornali nella tua lingua, ma addirittura non ti è permesso esistere pubblicamente come sloveno. Allora ti ritrovi ad affrontare un dilemma peggiore di quello di Amleto. Perché essere o non essere non è una questione tua personale, non si tratta, cioè, soltanto di sostituire il tuo io con un altro preso in prestito, ma della responsabilità che ti assumi nei confronti della storia, delle generazioni che verranno dopo te, o che non verranno, se permetterai che con te annientino anche i tuoi discendenti.
(Da Qui è proibito parlare)
Finché mi fu permesso studiare in sloveno, ero stato un bravo studente. Mia sorella Evelina e io prendevamo tutte le mattine il tram per raggiungere il sobborgo di Roiano, dove si trovavano le elementari slovene. In realtà, non distavano molto, ma quando a Trieste soffia la bora, si cammina con difficoltà, non si riesce quasi a girare per strada, così prendevamo il tram. Ricordo ancora il biglietto verde che costava venti centesimi e valeva tutto il giorno. A volte, quando il vento ce lo permetteva, preferivamo andare a piedi e usavamo quei venti centesimi per comprarci le caramelle.
Mia sorella aveva tre anni meno di me, ma mi aveva accompagnato a scuola anche il mio primissimo giorno. Sono sempre stato molto timido, fin da bambino, e lo sono rimasto a lungo anche in seguito. Quella mattina ero spaventatissimo: avevo paura che mi avrebbero fatto domande difficili, alle quali non avrei saputo rispondere. Allora la mia famiglia decise che Evelina mi doveva accompagnare perché era lei la più coraggiosa. E la più saggia: «A scuola ci vai per imparare, non per farti interrogare» mi disse rassicurante.
Per i primi quattro anni di elementari ho seguito le lezioni in sloveno, poi non ho più potuto studiare nella mia lingua. Quell’apprendistato è rimasto comunque fondamentale: nella rivista per ragazzi «Novi rod» (Nuova generazione), che si vendeva nelle scuole, ho potuto leggere per la prima volta alcune delle poesie dei grandi poeti sloveni come France Prešeren e Srečko Kosovel, morto giovanissimo, a soli 22 anni. Nelle sue poesie, Kosovel descriveva la bellezza caratteristica del Carso e le violenze contro la sua gente:
Dai, orsù, piove sulle bianche case di Lubiana,
avvolte in cortine grigie sotto il sole.
A Trieste ci bruciano «Edinost».
Cristo è giunto alla Società delle Nazioni.
No, costui non è quello buono e bello
splendente di glorioso amore.
Uno Pseudocristo è a Ginevra.
Come, piove anche a Ginevra?
(Da Srečko Kosovel)
La mia maestra, Anica Čok, era per me una seconda madre. Quando i miei genitori mi dissero che non sarebbe più stata lei a insegnare, scoppia...

Indice dei contenuti

  1. Tre volte no
  2. Copyright
  3. Dedizione
  4. Quale memoria? – Il confine e il fascismo
  5. «Il piroscafo s’annegò» – L’infanzia e l’ascesa del fascismo a Trieste
  6. Nomade senza oasi – La guerra
  7. Il triangolo rosso – Nei campi della morte
  8. Il ritorno alla vita – L’amore, la cultura e il dopoguerra
  9. Uno scrittore non allineato – Il terzo no
  10. Postfazione di Mila Orlić – Un intellettuale di confine
  11. Note
  12. Testi citati
  13. Indice