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Le scienze pratiche
1. L’oggetto
Le scienze pratiche sono scienze, ossia conoscenze rigorose – nelle modalità e secondo un grado di rigore che subito preciseremo – le quali hanno per oggetto e per fine l’azione
per oggetto, in quanto sono saperi che indagano l’agire morale e le sue condizioni; per fine in quanto, come Aristotele dichiara, ciò che esse si propongono e per esse ha importanza è condurre ad agire. Così in
Eth. nic., X, 10 (1079 b 13) egli chiarisce che «il [loro] fine non è il contemplare e il conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il compierla» e che pertanto «neppure per quel che concerne la virtù è sufficiente il conoscere, ma bisogna cercare di possederla e di praticarla».
Il rapporto tra le due dimensioni, quella conoscitiva e quella pratica, vede perciò la prima in funzione strumentale, ossia di condizione, rispetto alla seconda, com’è detto in
Eth. nic., II, 2 (1103 b 26-30), dove il filosofo, asserito che lo studio non è finalizzato a una conoscenza pura
precisa che la ricerca sulla virtù non va intrapresa per conoscerla, bensì «per diventare buoni, giacché altrimenti nulla sarebbe la sua utilità», e stabilisce che «è necessario esaminare ciò che concerne le azioni per sapere come bisogna compierle». Dunque, si conosce per agire, e il conoscere ha importanza in vista dell’agire. Le scienze in questione si caratterizzano allora come «pratiche» non soltanto e non principalmente perché studiano la prassi, ossia per l’oggetto, ma innanzitutto per il fatto di orientare a essa il sapere che pongono in campo.
Il quale, proprio in questo assume una curvatura epistemologica sua propria, pur entro il quadro complessivo delle prerogative che ne segnano la condizione di «sapere» e che perciò lo accomunano a ogni altra conoscenza scientificamente organizzata. A partire dalla ricerca della verità. Ché anche le scienze pratiche, in quanto «scienze», l’hanno di mira, ancorché essa e la relativa conoscenza non siano, come nel caso della filosofia prima, della fisica e della matematica, fine a se stesse, ma vengano perseguite in vista dell’agire o, più precisamente dell’agir bene
nell’ambito in cui ciascuna scienza pratica è primariamente impegnata e che ne definisce l’oggetto peculiare.
Proprio la ricerca della verità e il suo finalizzarsi all’azione costituiscono le note essenziali con cui in
Metaph., II, 1 (993 b 19-23) Aristotele caratterizza le scienze pratiche, qui distinte per la prima volta da quelle teoretiche – segnando così un distacco dalla posizione platonica, da lui seguita nel
Protrettico, dove la
come abbiamo visto, abbraccia entrambe le dimensioni del sapere. Nel passo citato egli, a dimostrazione che è giusto chiamare la filosofia «scienza della verità», fa presente che questa costituisce il fine della filosofia teoretica e che nell’ambito della filosofia pratica, il cui fine è l’opera, si indaga
il modo in cui stanno le cose, studiando però «la causa non di per se stessa, ma in relazione a qualcosa e ora». Ebbene, se lo studiare la causa denota, come già sappiamo, il carattere proprio della scienza (il che non solo comprova che quelle in oggetto sono scienze, ma ne specifica anche la ragione), l’«indagare come stanno le cose» indica esattamente e determinatamente la verità, che, dunque, viene essa pure perseguita da queste scienze, ancorché per uno scopo diverso da se stessa.
Questa medesima situazione è poi confermata in
Eth. nic., VI, 3 (1139 b 15-17), dove Aristotele, assieme all’arte
alla scienza
alla sapienza
e all’intelletto
annovera anche la saggezza
– ossia, come vedremo, la virtù della parte calcolativa dell’anima razionale, che fa come scattare il compiersi dell’azione perché pone la premessa che traduce l’indicazione del fine in una scelta dei mezzi atti a conseguirlo – tra gli abiti con i quali l’anima dice il vero
affermando o negando.
Si tratta allora di vedere, in primo luogo, quali caratteri qualificano il sapere delle scienze pratiche come «scienza» e, per altro verso, quali lo connotano nella sua peculiarità epistemologica propria.
1.1 FILOSOFIA PRATICA E SAGGEZZA
Già dal passo di Metaph., II, 1 è risultato che ciò che gli conferisce il carattere di «scienza» è la ricerca e l’indicazione delle cause, che abbiamo visto essere la caratteristica costitutiva del sapere scientifico in quanto tale. Ma le cause sono principi, e nella ricerca dei principi risiede, come s’è illustrato, l’impegno primario della scienza, giacché essi fungono da premesse nel relativo procedimento argomentativo (da premessa maggiore quelli comuni e da premessa minore quelli propri), e quindi da essi derivano in modo necessario, in quanto conclusioni sillogistiche, quelle verità che costituiscono il patrimonio conoscitivo delle singole scienze. Ora, anche le scienze pratiche sono conoscenze causali, vanno cioè alla ricerca di enunciati che, in una forma d’argomentazione chiamata «sillogismo pratico», fungono da premesse dalle quali a titolo di conclusione discende la scelta dell’azione nella sua concreta individualità, una volta effettuata, come sarà chiaro, la scelta dei mezzi necessari per realizzarla.1 E, al pari di quelle teoretiche, le quali, già sappiamo, giustificano dialetticamente i loro principi, anche queste si servono dei procedimenti della dialettica, e innanzitutto della confutazione, per stabilire i propri. Si tratta di asserti sul bene, sia nella sua generalità che nella specificità delle singole virtù in cui si realizza, nonché sulle condizioni che lo favoriscono o l’ostacolano, come la continenza e l’incontinenza, la moderazione e l’intemperanza; asserti che debbono in ultima analisi servire, atteso il finalizzarsi del conoscere delle scienze pratiche all’azione, al compimento di questa. Tali asserti indicano i fini, ed è compito primario delle scienze in oggetto, in quanto tali, l’enunciarli, ossia il farli conoscere, in maniera stabile e sicura – conformemente al grado di certezza che è loro proprio –, vale a dire provandoli e giustificandoli.
Essi, in quanto enunciazioni generali, fungono da premessa maggiore nel procedimento argomentativo che porta all’azione. Questa, poiché rappresenta il fine delle scienze pratiche, e dunque è l’esito cui mira un’
che è discorso dimostrativo, non può che raggiungersi essa stessa per una via che a suo modo è dimostrativa: come conclusione, cioè, di una sorta di sillogismo. Ma poiché l’azione, che è sempre singolare, in quanto sono singolari le circostanze in cui s’individua, si compie quando l’indicazione – generale – del fine si traduce nella conoscenza di volta in volta singolare, conformemente ai singoli casi, dei mezzi necessari a realizzarla, il relativo ragionamento abbisogna di una seconda premessa indicante tali mezzi.
Essa non può essere formulata dalla «scienza» pratica, giacché questa, in quanto scienza, ha per oggetto l’universale o comunque il «per lo più», non l’individuale, che, già sappiamo, non è indagato da nessuna scienza; ma è fornita da un’altra forma di razionalità anch’essa pratica, la quale, non potendo costitutivamente essere «scientifica», per il motivo testé detto, interviene però altrettanto costitutivamente nella scienza dell’agire in quanto rappresenta il momento in cui la relativa conoscenza diviene, per l’appunto, «pratica». Essa fa, cioè, scaturire l’azione, realizzando così il proprio essere un sapere in vista della prassi. Tale è esattamente la saggezza
virtù o stato d’eccellenza di quella parte dell’anima razionale che ha come compito suo proprio il deliberare
ossia il calcolare; e precisamente in un calcolo consiste la scelta dei mezzi.
1.2 IL METODO E LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA SCIENZA PRATICA
Ebbene, entro questo quadro complessivo, la giustificazione dei principi generali, che fungono da assiomi comuni nel sillogismo pratico e ne esprimono la premessa maggiore, è compiuta dalle scienze pratiche per via dialettica. Anzi, proprio l’impiego in esse del procedimento dialettico al fine di stabilire gli asserti fondamentali o principi pratici, dà visibile attuazione di quell’uso della dialettica che nei
Topici veniva indicato come «relativo alle scienze filosofiche». In un rilievo di carattere metodologico di
Eth. nic., VII, 1 (1145 b 2 ss.) lo Stagirita afferma infatti che, come nel caso delle altre argomentazioni, si sarà raggiunta una sufficiente dimostrazione
se, dopo aver esposto i
ossia i punti di vista, si sviluppano i problemi, ossia si esaminano diaporeticamente gli argomenti pro e contro
e, rifiutando gli aspetti insostenibili, si mostra la verità di tutte le opinioni notevoli
espresse in merito
e se non proprio di tutte, della maggior parte e delle più importanti. Come chiaramente si può dunque osservare, non si tratta di null’altro se non della seconda possibilità dell’uso scientifico o filosofico della dialettica. Uso che, essendo atto a fornire una «sufficiente dimostrazione», si conferma provvisto di capacità
anche conoscitiva, in quella che è la sua stessa attitudine «peirastica» o saggiativa, e manifesta di essere il metodo proprio
anche delle scienze pratiche.
Ma per altro verso già il genere di realtà che queste scienze indagano le differenzia da quelle teoretiche – e con ciò le definisce nella loro specificità propria – anche sul piano epistemologico. Tale caratterizzazione si esprime innanzitutto in rapporto al tipo di rigore che esse praticano. Il rigore, infatti, essendo una prerogativa peculiare della scienza in quanto tale, dev’essere richiesto anche alle argomentazioni di queste scienze, ma nella misura e in relazione cioè alla materia che indagano. Questa è costituita dalle «cose che possono essere diversamente da come sono»
le quali specificano l’ambito sia dell’azione
che della produzione
Qui, ovviamente, interessa l’azione, la quale, in quanto tale, è ineludibilmente singolare e mutevole, perché ineludibilmente singolari e mutevoli sono le circostanze in cui si concreta
Esse, infatti, assai raramente si ripetono. Di conseguenza, la «scienza» che studia l’azione, ossia la filosofia pratica, nelle conoscenze che in proposito elabora non può che mantenersi su di un livello di schemi generali, senza determinare l’azione stessa nei dettagli né, di conseguenza, raggiungere un grado di precisione assoluta rispetto alla variabilità del suo oggetto. Al contrario, deve arrestarsi alla delineazione di «tipi» o, come dice lo Stagirita, procedere sommariamente e per linee fondamentali (
Eth. nic., II, 2, 1104 a 34 ss.; I, 1, 1094 b 17 ss.).
Ma oltre che all’oggetto, questo carattere «tipologico» della scienza pratica si connette al fatto che essa, avendo per fine l’agire, non può, per così dire, limitarsi a enunciare e a comprovare dialetticamente i principi, ma deve tener conto anche della scelta dei mezzi, pur non rientrando questa seconda, in senso proprio, nella sfera della sua attività, ma essendo l’oggetto di quella saggezza che costituisce un momento della razionalità pratica distinto da quello della scienza pratica, nei termini che si sono detti. Sennonché, ferma restando questa differenza, è impensabile che l’individuazione dei principi dell’agire non tenga conto già in se stessa del momento della scelta dei mezzi, giacché tali principi, nel concreto della prassi cui sono finalizzati, non hanno altra estrinsecazione se non nel poter essere realizzati mercé mezzi idonei, né avrebbero alcuna utilità se non fossero di natura tale da escludere ogni mezzo atto a realizzarli. A ben vedere, è questo ciò che risuona al fondo della critica mossa da Aristotele alla platonica Idea del Bene, la quale, non essendo, nella sua trascendenza, oggetto d’azione, manca, in ultima istanza, della possibilità di trovare mezzi tali da darle concreta attuazione pratica. Insomma, la stessa indicazione dei principi e, di conseguenza, la loro stessa proposizione, mercé l’impegno dialettico inteso a giustificarne la bontà etica, al fine dell’agire non avrebbero senso senza che essi non potessero trovare alcun mezzo adatto a realizzarli, di modo che anche la scelta dei mezzi, pur definendo un momento della razionalità pratica distinto da quello della filosofia o scienza pratica, interviene tuttavia nella definizione di quei principi ste...