Sulla volontà nella natura
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Sulla volontà nella natura

  1. 228 pagine
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Sulla volontà nella natura

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Entrare in un testo di Schopenhauer è come fare ingresso in un magico impero, perché significa penetrare nella trama terribile e avvincente della natura, dominata da un sovrano di potenza sconfinata. Questo effetto si rinnova in modo particolarmente intenso quando il testo è Sulla volontà nella natura, perché qui il filosofo sviluppa, dei due elementi che sono alla base del suo sistema – volontà e rappresentazione – quello che più gli appartiene, la volontà, destinato a cambiare il corso della filosofia occidentale. Più che nelle altre sue opere, la natura irrompe in questa con impressionante violenza, sciorinando una massa sterminata di creazioni multiformi, che sono però sempre rapportate al principio essenziale di tutto l'esistente, la volontà di vivere.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858656549
SULLA VOLONTÀ NELLA NATURA
DISSERTAZIONE SULLE CONFERME CHE LA FILOSOFIA DELL’AUTORE HA RICEVUTO, DAL SUO APPARIRE, DALLE SCIENZE EMPIRICHE
iscrizione in greco
[Tessevo sul telaio la tela dei miei pensieri:
non la ritennero degna di uno sguardo;
ma il tempo trascorrendo rende tutto palese.]
Esch[ilo, Prometeo, versi 214-215, 981]

PREFAZIONE

Dopo diciannove anni ho avuto la gioia di poter porre mano per la seconda volta, per rivederla, a questa piccola opera; e la gioia è stata tanto più grande in quanto quest’ultima è di particolare importanza per la mia filosofia. Giacché, partendo dalla pura empiria, dalle osservazioni di naturalisti spregiudicati, intenti a seguire il filo della loro scienza specifica, io giungo qui immediatamente al vero e proprio nocciolo della mia metafisica, mostro i punti di contatto di questa con le scienze naturali e fornisco così in certa misura la prova del nove del mio dogma fondamentale, che in tal modo appunto riceve tanto la sua fondazione più aderente e più specifica, quanto anche si presta all’intelligenza nella maniera più chiara, comprensibile e precisa che in qualsiasi altro luogo.
Le correzioni apportate a questa nuova edizione coincidono quasi del tutto con le aggiunte, dato che della prima niente che sia degno di essere menzionato è stato tralasciato, mentre sono state inserite numerose aggiunte in parte considerevoli.
Ma è anche in generale un buon segno che il mercato librario abbia richiesto una nuova edizione di questo scritto, in quanto ciò indica un interesse per la filosofia seria e conferma che il bisogno di effettivi progressi in essa viene sentito attualmente in modo più urgente che mai. Ma ciò dipende da due circostanze. Da un lato cioè dallo zelo senza precedenti profuso da tutte le branche della scienza della natura le quali, maneggiate in massima parte da gente che non ha imparato niente al di fuori di essa, minaccia di portare a uno stolto e crasso materialismo, nel quale ciò che anzitutto offende non è la bestialità in senso morale dei risultati ultimi, ma l’incredibile inintelligenza dei primi princìpi, dato che addirittura viene negata la forza vitale e si abbassa la natura a un fortuito gioco di forze chimiche.1 A codesti signori del crogiuolo e della storta si deve far entrare in testa che la chimica da sola va bene per fare un farmacista, ma non per fare un filosofo, come a certi altri scienziati loro parenti in spirito, [bisogna far entrare in testa] che uno può essere un perfetto zoologo e conoscere a menadito tutte le sessanta specie di scimmie, e però, se non ha imparato nient’altro che magari il suo catechismo, considerato nel suo complesso, è un uomo ignorante, da annoverare tra il volgo. Ma questo, ai nostri tempi, è un caso frequente. Oggi si erigono a rischiaratori del mondo persone che hanno imparato la loro chimica o fisica o mineralogia o zoologia o fisiologia, ma nient’altro al mondo, e aggiungono a queste le altre loro uniche conoscenze, cioè quanto è loro rimasto appiccicato addosso, dagli anni di scuola, della dottrina del catechismo, e se per loro poi questi due tronconi non collimano insieme, essi si fanno subito schernitori della religione e per conseguenza insulsi e crassi materialisti.2 Che una volta ci siano stati un Platone e un Aristotele, un Locke e specialmente un Kant, lo hanno forse sentito dire una volta a scuola, tuttavia non hanno ritenuto che queste persone, visto che non maneggiavano crogiuolo e storta, né imbalsamavano scimmie, fossero degne di maggior conoscenza; ma per contro, gettando tranquillamente dalla finestra il lavoro del pensiero di due millenni, spacciano al pubblico una filosofia ottenuta coi propri ricchi mezzi spirituali, in base al catechismo da un lato e ai crogiuoli e alle storte, o ai registri pitecologici dall’altro. A costoro bisogna dire, senza mezzi termini, che essi sono degli ignoranti e che hanno ancora molto da imparare prima di poter interloquire. E in generale chiunque se ne sta a dogmatizzare così, con un realismo puerilmente ingenuo su anima, Dio, inizio del mondo, atomi e altre cose consimili, come se la Critica della ragione pura fosse stata scritta sulla luna e nessun esemplare di essa fosse caduto sulla terra – appartiene appunto al volgo. Mandatelo nella stanza della servitù, affinché porga lì all’Uomo la sua sapienza.3
L’altra circostanza che fa appello a effettivi progressi della filosofia è l’incredulità che, a dispetto di tutti gli ipocriti velami e a tutte le pratiche chiesastiche, prende sempre più piede, dato che va necessariamente e inevitabilmente mano nella mano con le conoscenze empiriche e storiche di ogni genere che si diffondono sempre più largamente. Questa minaccia di rinnegare, con la forma del cristianesimo, anche lo spirito e il senso di esso (che si estende molto al di là di esso) e di consegnare l’umanità al materialismo morale, che è ancora più pericoloso di quello chimico anzidetto. Non c’è cosa che favorisca di più questa incredulità della tartufferia d’obbligo che ora si presenta dappertutto in modo così sfacciato, e i cui goffi seguaci, tenendo ancora in mano la mancia ricevuta, predicano con tale unzione e insistenza, che le loro voci penetrano fin nelle dotte riviste critiche pubblicate da accademie e università e fin nei libri fisiologici come pure filosofici, dove i medesimi, come in luogo del tutto inadatto, pregiudicano il loro stesso scopo suscitando indignazione.4 In queste circostanze fa dunque piacere vedere che il pubblico prende parte alla filosofia.
Ciò nonostante, devo dare ai professori di filosofia una ferale notizia. Il loro Kaspar Hauser (secondo Dorguth) a cui essi per quasi quaranta anni avevano tolto con tanta solerzia aria e luce, e che avevano murato in modo così fermo che nessun rumore poteva rivelarne al mondo l’esistenza – il loro Kaspar Hauser è fuggito! È fuggito e corre per il vasto mondo – alcuni pensano perfino che sia un principe. O per parlare in prosa: ciò che quelli soprattutto temevano, ciò che a forze congiunte e con rara perseveranza, per mezzo di un così profondo silenzio e di un così concorde ignorare e insegretire, come non si era mai fatto prima, erano riusciti felicemente a evitare per tutta una generazione – questa disgrazia è però accaduta: si è cominciato a leggermi, e ormai non si smetterà più. Legor et legar: non sarà altrimenti. È veramente male e quanto mai inopportuno; sì, è una vera fatalità, per non dire calamità. È questo il premio per un silenzio mantenuto con tanta fedeltà e lealtà? O infelici consiglieri aulici! Che ne è della promessa di Orazio:
Est et fideli tuta silenzio
Merces
?
[Carm., III, 2, 25]
Il fedele silentium essi veramente non l’hanno fatto mancare; anzi proprio questa è la loro forza, dovunque fiutino meriti, è anche contro questi il loro trucco più sottile; giacché, ciò che nessuno sa, è come se non esistesse. Ma quanto alla merces, che essa rimanga così del tutto tuta [sicura], adesso non sembra che si possa dire – a meno che non si interpreti merces in senso negativo, come certo si può comprovare in base a buone autorità classiche. Molto giustamente quei signori avevano capito che l’unico mezzo che si poteva applicare contro i miei scritti era di farne un mistero per il pubblico, facendo calarvi sopra un profondo silenzio, frammezzo a tutto il chiasso per la nascita di ogni figlio malformato della filosofia dei professori – così come una volta i coribanti, con tutto il loro baccano e schiamazzo, impedivano di sentire la voce del neonato Zeus. Ma quell’espediente si è logorato e il segreto è stato svelato: il pubblico mi ha scoperto. La rabbia dei professori di filosofia è per questo grandiosa, ma impotente; giacché, dopo che quell’unico mezzo efficace e per tanto tempo impiegato con successo si è logorato, nessuna cagnara scatenata contro di me potrà ormai impedirmi di esercitare la mia efficacia, e inutilmente l’uno adesso prende una posizione e un altro un’altra. Certo hanno ottenuto che la generazione propriamente contemporanea alla mia filosofia fosse deposta nella tomba senza averne avuto conoscenza. Ma si è trattato di un semplice rinvio: il tempo ha, come sempre, tenuto parola.
Le ragioni, però, per cui ai signori della «professione filosofica» (essi stessi hanno l’incredibile ingenuità di chiamarla così)* la mia filosofia riesce tanto odiosa, sono due. La prima è che le mie opere guastano il gusto del pubblico per l’intessere frasi vuote, per gli accumuli di parole accatastate che non dicono niente, per il vacuo, basso e alla lunga tormentoso chiacchiericcio, per il dogmatismo cristiano che si presenta camuffato sotto la veste della metafisica più noiosa, e per il più piatto filisteismo sistematico che presenta l’etica, finanche con indicazioni per il gioco di carte e la danza, insomma per tutto il metodo filosofico in veste da camera, che ha già distolto per sempre tanti e tanti da ogni filososofia.
La seconda ragione è che i signori della «professione filosofica» non possono assolutamente permettersi di lasciar valere la mia filosofia e quindi non possono neanche farne un uso utile per la «professione» – una cosa questa di cui essi, invero, sono cordialmente dispiaciuti, perché la mia ricchezza soccorrerebbe magnificamente la loro amara povertà. Solo che mai e poi mai essa potrà trovare grazia ai loro occhi, neanche se contenesse i tesori più grandi e magari sublimi della sapienza umana. Giacché la medesima fa a meno di ogni teologia speculativa, oltre che della psicologia razionale, mentre queste, proprio queste fanno la gioia di vivere di lorsignori, la conditio sine qua non della loro esistenza. Essi vogliono infatti, più di ogni altra cosa in cielo e in terra, i loro impieghi, e i loro impieghi richiedono, più di ogni altra cosa in cielo e in terra, teologia speculativa e psicologia razionale: extra haec non datur salus. La teologia deve assolutamente esserci, da qualunque parte venga. Mosé e i profeti devono avere ragione: questo è il principio supremo della filosofia. E in più [deve esserci] la psicologia razionale, come si conviene. Ora però tutto ciò non si può trovare né in Kant né in me. Anzi, per la sua critica di ogni teologia speculativa vanno notoriamente in frantumi, come un bicchiere lanciato contro una parete, le più abili argomentazioni teologiche, e della psicologia razionale neppure un brandello rimane intero nelle sue mani! E ora poi in me, ardito continuatore della sua filosofia, né l’una né l’altra compaiono mai più, come vuole appunto la coerenza e l’onestà.5 Invece il compito della filosofia cattedratica è in fondo questo, di esporre, sotto una quantità di formule e frasi quanto mai astratte, astruse e difficili, e quindi tormentosamente noiose, le verità fondamentali del catechismo; sicché queste si rivelano alla fine come il nocciolo della cosa, per quanto possano essere apparse di primo acchito stravaganti, svariate, strane e singolari. Questo cominciamento può avere la sua utilità, sebbene mi sia ignota. So soltanto che in filosofia, ossia nella ricerca della verità, voglio dire della verità
iscrizione in greco
, per cui si intendono gli schiarimenti più alti, più importanti e che stanno a cuore al genere umano più di ogni altra cosa al mondo, non si avanzerà, con un tale procedere, mai, neanche di un solo pollice; anzi in tal modo si sbarra la strada a quel ricercare, perciò da un pezzo io ho riconosciuto nella filosofia delle università l’antagonista di quella autentica. Ma se poi, in una situazione così fatta, per una volta si presenta una filosofia che fa sul serio ed è in tutta serietà indirizzata alla verità e a nient’altro che la verità, non devono i signori della «professione filosofica» sentirsi come si sentirebbero i cavalieri con le loro corazze di cartone in teatro se in mezzo a loro apparisse improvvisamente un cavaliere con una corazza vera, che facesse tremare, col suo passo pesante, le sottili tavole del palcoscenico? Una tale filosofia deve allora necessariamente essere cattiva e falsa e impone pertanto ai signori della «professione» il ruolo penoso di colui che, per sembrare quello che non è, non può lasciare che gli altri valgano per quel che sono. Ma da ciò nasce ora il divertente spettacolo che godiamo quando i signori, poiché purtroppo la faccenda dell’ignorarmi è finita, cominciano ormai, dopo quaranta anni, a misurarmi con le loro assicelle e a dar giudizi su di me dall’alto della loro sapienza, come persone che d’ufficio sono perfettamente competenti; e allora sono davvero deliziosi, quando nei miei riguardi si mettono a far la parte delle persone rispettabili.
Non molto meno di me, seppure più celatamente, è a loro odioso Kant, proprio perché ha minato negli imi fondamenti la teologia speculativa oltre alla psicologia razionale, gagne-pain di codesti signori, anzi le ha irrimediabilmente compromesse presso tutti coloro che sanno che cosa vuol dire la serietà. E uno così essi non dovrebbero odiarlo? Uno che ha creato tante difficoltà alla loro «professione filosofica» che essi fanno fatica a capire in che modo si possa sortirne con onore? Perciò dunque noi siamo tutt’e due cattivi e lorsignori ci ignorano a distanza. Me, per quasi quarant’anni non mi hanno degnato di uno sguardo, e Kant adesso lo guardano dall’alto della loro sapienza compassionandolo e ridendo dei suoi errori. Questa è una politica molto saggia e ben rispondente alla bisogna. Giacché allora essi possono, con estrema disinvoltura, quasi non ci fosse al mondo una Critica della ragione pura, parlare per interi volumi di Dio e dell’anima come di personalità conosciute e a loro particolarmente familiari, discorrere da cima a fondo, dottamente, del rapporto del primo col mondo e della seconda col corpo. Una volta nascosta sotto il banco la Critica della ragione pura, poi tutto va magnificamente! A tal fine già da molti anni essi cercano con molta discrezione e a poco a poco di spingere Kant da parte, di renderlo antiquato, anzi di arricciare il naso su di lui e, facendosi coraggio l’un l’altro, diventano adesso sempre più sfrontati.6 Infatti nel loro ambiente non hanno da temere di essere contraddetti; hanno in effetti tutti gli stessi scopi, un’uguale missione e formano una comunità numerosa, i cui talentuosi membri, coram populo, si servono scambievolmente con inchini, a destra e a manca. E così a poco a poco si è arrivati al punto che i più miserabili stilatori di compendi vanno tant’oltre nella loro baldanza, da trattare le grandi e immortali scoperte di Kant come errori antiquati, anzi da metterle tranquillamente da parte con la più ridicola suffisance e con le sentenze più invereconde, che essi tuttavia porgono col tono dell’argomentazione, confidando di avere davanti un pubblico credulo che non conosca le cose.* E ciò è inflitto a Kant da scrittori la cui totale incapacità salta agli occhi da ogni pagina, si potrebbe dire da ogni rigo della loro fiumana di parole stordenti e prive di pensiero. Se ciò continuasse così, ben presto Kant offrirebbe lo spettacolo del leone morto a cui l’asino tira calci. Perfino in Francia non mancano camerati che, animati dalla stessa ortodossia, cooperano allo stesso scopo. In particolare un certo signor Barthélemy de St-Hilaire, in un discorso tenuto nell’aprile 1854 davanti all’Académie des sciences morales, si è permesso di giudicare Kant dall’alto in basso e di parlare di lui nella maniera più indegna; fortunatamente però così che ognuno vede subito che cosa vi è dietro.7
Altri comunque, facenti parte della nostra «professione filosofica» tedesca, nel tentativo di sbarazzarsi di Kant che tanto intralcia i loro scopi, imboccano a loro volta la strada del non polemizzare magari direttamente contro la sua filosofia, ma del tentare di minare i fondamenti su cui essa è edificata; ma sono in ciò così totalmente abbandonati da tutti gli dèi e da ogni capacità di giudizio, da prendersela con verità a priori, cioè verità che sono vecchie come l’intelletto umano, anzi che addirittura lo costituiscono, e alle quali appunto non ci si può opporre senza dichiarare guerra anche a quello. Ma tanto grande è il coraggio di questi signori! Purtroppo di essi me ne sono noti tre,* ma temo che ce ne siano ancora altri che contribuiscono a questa opera demolitoria e hanno l’incredibile temerarietà di far sorgere lo spazio a posteriori, come una conseguenza, una mera interrelazione degli oggetti in esso, sostenendo che spazio e tempo sono di origine empirica e ineriscono ai corpi, sicché solo a causa della percezione della giustapposizione dei corpi sorge lo spazio, e così pure solo a causa di quella della successione delle affezioni il tempo (sancta simplicitas!), come se per noi le parole giustapposizione e successione potessero avere un qualche senso senza essere precedute dalle intuizioni dello spazio e del tempo8 che conferiscono loro significato, e che conseguentemente, se non ci fossero i corpi, non ci sarebbe neanche lo spazio, e se pertanto quelli sparissero, esso dovrebbe di necessità venir meno a sua volta; e così pure che, se tutte le affezioni si arrestassero, si fermerebbe anche il tempo.9
Una tale robaccia viene presentata con tutta serietà cinquanta anni dopo la morte di Kant. Ma lo scopo è quello di minare la filosofia kantiana, e certamente, se quelle proposizioni di lorsignori fossero vere, essa verrebbe rovesciata d’un sol colpo. Ma per fortuna sono asserzioni della specie che non merita in risposta neppure una confutazione, bensì una risata di scherno, ossia asserzioni per le quali si tratta in primo luogo non di un’eresia contro la filosofia kantiana, bensì di un’eresia contro il sano comprendonio umano, e qui ha luogo non tanto un attacco a un qualunque dogma filosofico quanto un attacco a una verità a priori, che proprio come tale costituisce il comprendonio umano stesso e che quindi deve apparire istantaneamente chiara a chiunque sia in sé, allo stesso modo che 2 × 2 = 4. Toglietemi un contadino dall’aratro, fategli capire la questione, ed egli vi dirà che, se tutte le cose del cielo e della terra sparissero, lo spazio però rimarrebbe, e che se tutte le affezioni del cielo e della terra si arrestassero, il tempo però continuerebbe a scorrere. Quanto più degno di stima appare, rispetto a questi filosofastri tedeschi, il fisico francese Pouillet, che non si preoccupa della metafisica, ma, nel suo libro di fisica universalmente noto, posto in Francia a fondamento del pubblico insegnamento, non manca di incorporare subito nel primo capitolo due estesi paragrafi, uno De l’espace e uno Du temps, in cui dimostra che, se tutta la materia fosse distrutta, lo spazio continuerebbe a esserci, come anche che esso è infinito; e che, se tutte le affezioni si arrestassero, il tempo continuerebbe il suo cammino, senza fine. Ora, in ciò egli non si richiama all’esperienza, come invece fa in ogni altro punto, perché essa è impossibile; tuttavia parla con certezza apodittica. A lui cioè, come fisico, la cui scienza è del tutto immanente, ossia si limita alla realtà empiricamente data, non viene affatto in mente di c...

Indice dei contenuti

  1. Sulla volontà nella natura
  2. Copyright
  3. Introduzione di Sossio Giametta
  4. SULLA VOLONTÀ NELLA NATURA
  5. SOMMARIO