Viaggi fantastici
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Viaggi fantastici

  1. 1,260 pagine
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Viaggi fantastici

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Si andrà sulla Luna e poi sui pianeti e sulle stelle come oggi si va da Liverpool a New York. La distanza non è che una parola relativa, e finirà per essere ridotta a zero." Iniziatore della fantascienza, grande narratore e creatore di universi fantastici, con le sue opere Verne ha dato vita a vicende e viaggi incredibili tra terra, mare e spazio a bordo di invenzioni straordinarie. Nei cinque capolavori raccolti in questo volume, possiamo godere tutto il fascino delle imprese vissute da personaggi divenuti proverbiali – dal misterioso Capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari all'eccentrico Phileas Fogg di Il giro del mondo in ottanta giorni. Un'antologia perfetta per perdersi in quel meraviglioso mondo di avventure, scoperte e colpi di scena che da oltre un secolo continuano a conquistare lettori di tutte le età.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858656303
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI

PARTE PRIMA

I

UNO SCOGLIO FUGGENTE

L’anno 1866 fu caratterizzato da un avvenimento strano, un fenomeno inesplicato e inesplicabile, che nessuno certamente ha potuto dimenticare. Correvano delle voci che impressionavano le popolazioni dei porti di mare e che accendevano lo spirito pubblico nelle città dell’interno, ma in particolar modo ne fu colpita la gente di mare. Commercianti, armatori, capitani di navi, europei e americani, ufficiali delle marine militari di tutti i Paesi, e infine i Governi dei diversi Stati dei due continenti, furono profondamente turbati dallo strano fenomeno.
Da qualche tempo, in effetti, parecchie navi s’erano imbattute in alto mare in «una cosa enorme»; un oggetto lungo, fusiforme, talvolta fosforescente e molto più grande e veloce di una balena.
Le diverse apparizioni, registrate nei giornali di bordo, concordavano quasi esattamente sulla struttura dell’oggetto o dell’essere in questione, sulla velocità inaudita dei suoi movimenti, la sorprendente potenza della sua locomozione e la vita speciale da cui sembrava animato. Se era un cetaceo, aveva un volume maggiore di tutti quelli che la scienza aveva classificato sino ad allora. Né Cuvier, né Lacépède, né Dumeril, né Quatrefages avrebbero ammesso l’esistenza di un mostro simile, se non l’avessero visto con i loro occhi di scienziati.
Calcolando la media delle osservazioni fatte in diverse volte, respingendo le caute valutazioni che attribuivano a quell’oggetto una lunghezza di duecento piedi, e le opinioni esagerate che lo volevano largo un miglio, e lungo tre, si poteva tuttavia affermare che questo essere fenomenale superava di molto tutte le dimensioni ammesse sino allora dagli ittiologi, se pure il mostro esisteva davvero.
E senza dubbio esisteva; il fatto per se stesso non si poteva più negare; però, se si pensa all’istinto che spinge il cervello umano al meraviglioso, si comprenderà l’emozione prodotta in tutto il mondo dall’apparizione soprannaturale. Bisognava rinunziare a crederla una favola.
Infatti, il 20 luglio 1866, il vapore Governor-Higginson della Compagnia di navigazione a vapore «Calcutta e Burnach» aveva incontrato quella massa mobile a cinque miglia a levante delle coste australiane. In un primo momento il capitano Baker credette di avere davanti uno scoglio sconosciuto e si preparava perfino a determinarne la precisa posizione, quando due colonne d’acqua, spinte dall’inesplicabile oggetto, s’innalzarono sibilando a centocinquanta piedi. Se quella specie di scoglio non era soggetto alla pressione intermittente di una forza sismica, il Governor-Higginson aveva a che fare né più né meno che con qualche mammifero acquatico fino allora sconosciuto, che emetteva dai suoi sfiatatoi colonne d’acqua miste ad aria e a vapore.
Lo stesso fatto fu pure osservato il 23 luglio dello stesso anno nei mari del Pacifico dal piroscafo Cristobal Colon, della Compagnia di navigazione a vapore «India Occidentale e Pacifico». Evidentemente questo mostruoso cetaceo poteva portarsi da un luogo all’altro con una velocità sorprendente: a soli tre giorni di distanza, il Governor-Higginson e il Cristobal Colon lo avevano avvistato in due punti diversi separati da una distanza di oltre settecento leghe marine.
Quindici giorni dopo, a duemila leghe da quel punto, l’Helvetia della «Compagnia Nazionale» e lo Shannon della «Reale», navigando a controbordo nella parte dell’Atlantico compresa fra gli Stati Uniti e l’Europa, segnalarono rispettivamente il mostro a 42° 15’ di latitudine nord, 60° 35’ di longitudine ovest del meridiano di Greenwich. In questa osservazione simultanea si credette di poter valutare la lunghezza minima del mammifero a più di trecentocinquanta piedi inglesi, poiché lo Shannon e l’Helvetia erano più piccoli, benché, da prua a poppa, misurassero cento metri; mentre le più grandi balene, e cioè quelle che frequentano i dintorni delle isole Aleutine, il Kulammak e l’Umgullick, non sono mai state più lunghe di cinquantasei metri.
Questi rapporti arrivavano uno dopo l’altro: nuove osservazioni fatte a bordo del transatlantico Le Pereire; una collisione dell’Etna, appartenente alla linea Inman, col mostro; le dichiarazioni degli ufficiali della fregata francese Normandia, e un importantissimo rilievo fatto dallo stato maggiore del commodoro Fitz-James a bordo del Lord Clyde, impressionarono profondamente l’opinione pubblica.
In alcuni Paesi il fenomeno fu ridicolizzato, ma nei Paesi seri e pratici, come l’Inghilterra, l’America e la Germania, ci si preoccupò seriamente.
In tutti i grandi centri il mostro divenne alla moda: fu cantato nei caffè, beffeggiato nei giornali e rappresentato nei teatri.
Si videro riapparire nei giornali, scarsi di notizie, tutti gli esseri fantastici e giganteschi, dalla balena bianca, il terribile Moby Dick delle regioni iperboree, fino allo smisurato Kraken, dai tentacoli che possono allacciare un bastimento di cinquecento tonnellate e trascinarlo negli abissi dell’Oceano. Si riprodussero persino i processi verbali dei tempi antichi; si citarono le opinioni di Aristotele e di Plinio, che ammettevano l’esistenza di mostri simili; i racconti norvegesi del vescovo Pontoppidan; le relazioni di Paul Eggede, ed infine i rapporti di Harrington, di cui non possiamo mettere in dubbio la buona fede, quando afferma d’aver visto, standosene a bordo del Castillan, nel 1857, l’enorme serpente che, fino ad allora, non aveva mai frequentato altri mari fuorché quelli dell’antico Constitutionel.
Allora, nelle Società e nei giornali scientifici, scoppiò una polemica interminabile tra quelli che credevano e gli increduli. La «questione del mostro» accese gli spiriti; i giornalisti che fanno professione di scienza, in lotta con quelli che fanno professione di spirito, durante la memorabile campagna versarono fiumi d’inchiostro; e ci fu anche chi sparse due o tre gocce di sangue, per essere passato, dal serpente di mare, ad ingiurie personali.
Per sei mesi la battaglia continuò con esito incerto.
Agli articoli di fondo dell’Istituto Geografico del Brasile, dell’Accademia Reale delle Scienze di Berlino, dell’Associazione Britannica, della Istituzione Smithsoniana di Washington, alle discussioni di «The Indian Archipelago», del «Cosmo» dell’abate Moigno, del «Mittheilungen» di Peterman, alle cronache scientifiche dei grandi giornali francesi ed esteri, la piccola stampa rispondeva con un brio inesauribile. I suoi scrittori spiritosi, parodiando un detto di Linneo citato dagli avversari del mostro, affermavano che «la natura non faceva sciocchi» e scongiuravano i loro contemporanei di non dare alla natura una smentita ammettendo i serpenti marini, i Moby Dick e simili fantasticherie di marinai in delirio. Finalmente, in un articolo di un giornale satirico molto temuto, uno dei migliori redattori, muovendo incontro al mostro, come Ippolito, gli inferse un ultimo colpo e lo finì tra le risate universali. L’umorismo aveva sconfitto la scienza.
Nei primi mesi del 1867, la questione parve sepolta per non più rinascere, quando nuovi fatti vennero a conoscenza del pubblico. Non si trattò allora più di un problema scientifico da risolvere, ma di un pericolo reale e grave da scongiurare. La questione assunse un altro aspetto; il mostro ridiventò isola, roccia, scoglio, ma scoglio fuggente, che non si poteva né misurare né raggiungere.
Il 5 marzo 1867, il Moravian, di una Compagnia di navigazione di Montreal, trovandosi nella notte a 27° 30’ di latitudine e 72° 15’ di longitudine, urtò con l’anca di dritta una roccia che non era segnalata da nessuna carta. Grazie al vento e ai suoi quattrocento cavalli-vapore, navigava con una velocità di tredici nodi; non c’è dubbio che se la sua carcassa non fosse stata più che solida, il Moravian, sfondato dall’urto, si sarebbe inabissato con i duecentotrentasette passeggeri che riconduceva dal Canada.
L’incidente era avvenuto verso le cinque del mattino, allo spuntar del giorno. Gli ufficiali di guardia si precipitarono a poppa, scrutarono scrupolosamente l’Oceano e non videro nulla, eccetto un forte risucchio alla distanza di tre gomene, come se le onde fossero state battute con violenza. Fu preso l’esatto rilevamento del luogo e il Moravian continuò la sua corsa senza apparenti avarie.
Aveva urtato contro una roccia sottomarina o contro qualche grosso relitto? Non lo si poté sapere; ma esaminando la sua carena nei bacini per ripararla, si scoprì che una parte della chiglia era stata spezzata.
Il fatto, molto grave in se stesso, sarebbe forse stato dimenticato come tanti altri, se tre settimane dopo non si fosse riprodotto nelle stesse condizioni. Solo, grazie alla nazionalità della nave vittima dell’incidente, alla fama della Compagnia alla quale apparteneva il bastimento, l’avvenimento fece grande rumore.
Tutti conoscono il nome del famoso armatore inglese Cunard, un industriale di valore, che nel 1840 istituì un servizio postale tra Liverpool e Halifax, con tre navi di legno, a ruote, della forza di quattrocento cavalli, di millecentosessantadue tonnellate di stazza. Otto anni dopo, la flotta della Compagnia aumentava di quattro navi di seicentocinquanta cavalli e di milleottocentoventi tonnellate, e due anni più tardi, di due altri bastimenti di potenza e di portata superiore. Nel 1853, la Compagnia Cunard, avendo riconfermato il privilegio del trasporto dei dispacci, aggiunse successivamente al suo organico l’Arabia, il Persia, il Cina, lo Scotia, il Giava, il Russia, tutte navi molto veloci e le maggiori che, dopo il Great-Eastern, avessero mai solcato i mari. Così, dunque, la Compagnia possedeva nel 1867 dodici navi, otto delle quali a vela e quattro a elica.
Se descrivo, sia pure con poche parole, tutti questi particolari, è perché tutti sappiamo quale fosse l’importanza di questa Compagnia di trasporti marittimi, conosciuta in tutto il mondo per la sua intelligente amministrazione. Nessuna impresa di navigazione transoceanica fu diretta più abilmente e con miglior successo. In ventisei anni, le navi della Compagnia Cunard hanno attraversato duemila volte l’Atlantico senza fallire mai un viaggio, senza mai un ritardo e senza che una lettera, un uomo o un bastimento siano andati perduti, cosicché i passeggeri scelgono ancora oggi, nonostante la poderosa concorrenza che le fa la Francia, la linea Cunard, come appare da una statistica fatta sui documenti ufficiali degli ultimi anni. Detto questo, nessuno si meraviglierà del rumore prodotto dall’incidente toccato a una delle sue più belle navi.
Il 13 aprile 1867, col mare calmo e una brezza moderata, lo Scotia si trovava a 15° 12’ di longitudine e 45° 37’ di latitudine e navigava alla velocità di poco più di tredici nodi, spinto da seimila cavalli-vapore. Le sue pale battevano il mare con una regolarità perfetta.
Alle quattro e diciassette del pomeriggio, mentre i passeggeri prendevano il tè nel salone, si sentì un urto, che parve leggero, contro la chiglia, presso la ruota di sinistra.
Lo Scotia non aveva urtato, ma era stato urtato, da uno strumento piuttosto tagliente e perforante che contundente. Il colpo era parso così lieve che nessuno a bordo se ne sarebbe inquietato, se gli uomini della stiva non si fossero precipitati sul ponte, gridando:
«Affondiamo, affondiamo!»
In un primo momento, i passeggeri si spaventarono, ma il capitano Anderson si affrettò a rassicurarli.
Infatti, il pericolo non poteva essere imminente, poiché lo Scotia, diviso in sette compartimenti stagni, poteva affrontare una falla senza troppe preoccupazioni.
Il capitano scese immediatamente nella stiva, dove scoprì che il quinto compartimento era stato invaso dall’acqua, e la rapidità dell’invasione provava l’ampiezza della falla. Per fortuna le caldaie non si trovavano in questo compartimento, poiché i fuochi si sarebbero subito spenti. Il capitano Anderson ordinò senz’altro di chiudere la falla, e uno dei marinai si tuffò per esaminare l’entità dell’avaria. Poco dopo si constatò che nella carena del vapore c’era un buco largo due metri, che non si sarebbe potuto chiudere; e lo Scotia dovette continuare il suo viaggio con le ruote mezzo sprofondate nell’acqua. La nave si trovava allora a trecento miglia dal capo Clear, e dopo tre giorni di ritardo, che cagionarono una viva inquietudine a Liverpool, entrò nei bacini della Compagnia per le riparazioni necessarie.
Gli ingegneri procedettero allora alla visita dello Scotia, che fu messo in secco: ma non poterono credere ai loro occhi. A due metri e mezzo sotto la linea d’immersione si apriva un foro regolare a forma di triangolo isoscele; il taglio della lastra era tanto netto, che fatto da uno stampo non sarebbe riuscito meglio. Bisognava dunque che lo strumento perforante da cui era stato prodotto fosse di una tempra poco comune e che, dopo essere stato lanciato con una forza prodigiosa e avere forato così una lastra di quattro centimetri, si fosse ritirato da solo con un movimento retrogrado veramente inspiegabile.
Quest’ultimo fatto appassionò nuovamente l’opinione pubblica. Infatti, da quel momento, tutti i disastri marini che non avevano causa determinata furono addossati al mostro. Il fantastico animale ebbe la responsabilità di tutti quei naufragi che disgraziatamente sono numerosi; poiché di tremila navi che si perdono ogni anno, secondo le statistiche date dal Registro Navale francese, il numero delle navi a vapore o a vela, che si suppongono perdute per mancanza di notizie, arriva a duecento!
Il mostro fu così, giustamente o ingiustamente, accusato della loro sparizione; e siccome per colpa sua le comunicazioni fra i diversi continenti divenivano sempre più pericolose, il pubblico domandò ripetutamente che i mari fossero sbarazzati una buona volta, e a ogni costo, da quel terribile cetaceo.

II

IL PRO E IL CONTRO

Quando avvenivano questi fatti, io tornavo da una esplorazione scientifica intrapresa nelle terre del Nebraska, negli Stati Uniti. Nella mia qualità di professore supplente al Museo di Storia Naturale di Parigi, il Governo francese mi aveva chiamato a far parte di quella spedizione. Dopo sei mesi passati nel Nebraska, arrivai verso la fine di marzo a New York, carico di collezioni pr...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Bibliografia
  7. Viaggio al centro della Terra
  8. Dalla Terra alla Luna
  9. Intorno alla Luna
  10. Ventimila leghe sotto i mari
  11. Il giro del mondo in ottanta giorni