Lontani da qui
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Lontani da qui

Storie di ordinario dolore dalla periferia del mondo

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Storie di ordinario dolore dalla periferia del mondo

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Dall'Afghanistan al Nicaragua, dalla Liberia al Messico, dalla Cambogia a Cuba. Il ritorno del decano dei reporter di guerra nelle terre insanguinate dai conflitti degli ultimi decenni. "A Kabul c'è paura. La gente fugge, non vuol parlare con lo straniero." Sono queste le parole che hanno firmato il primo di una lunga serie di avvincenti reportage di Ettore Mo, giornalista di mestiere, giramondo per vocazione. Ripercorrendo i luoghi da cui ha mosso i suoi primi passi come inviato, l'autore ci guida per il lato oscuro della terra. Ci accompagna attraverso un'avvincente escursione per mostrarci i drammi più cupi dell'umanità: la povera gente di Monrovia che festeggia Natale e Capodanno al cimitero, bevendo, mangiando e dormendo accanto alle tombe dei defunti; i molti emigranti messicani che inseguendo il sogno di raggiungere l'America si fanno mozzare le gambe dai treni merci; gli abitanti di La Oroya avvolti da un'apocalittica polvere di piombo, zinco, zolfo e arsenico emessa dalla "fonderia della morte" al centro della cittadina; la strage di civili nella terra Tamil; le favelas del terrore di Caracas e i figli della Revolución cubana in fuga da una realtà immiserita e senza scampo. Raccontato in prima persona, a metà strada tra memoir e reportage, Lontani da qui è il resoconto doloroso e commovente di una vita intera dedicata al viaggio che chiude con un grande insegnamento: il sangue versato sui campi di battaglia non migliorerà mai il corso della storia, finché non cambierà il cuore di chi combatte.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858654088
Argomento
Storia

Afghanistan

Non saranno le operazioni militari tra i talebani e i mujahiddin dell’Alleanza del Nord, sostenuti dal contingente americano e dagli alleati europei, a porre fine alla guerra e a determinare, di conseguenza, il destino dell’Afghanistan: tale risultato potrà essere raggiunto solo attraverso trattative di pace.
È sulla base di questa convinzione che nel marzo del 2009 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha invitato i due belligeranti a sedersi al tavolo dei negoziati, dove il leader dei talebani, il mullah Omar, avrebbe dovuto incontrare i rappresentanti di Washington e del governo di Kabul per elaborare un piano che conducesse alla risoluzione pacifica del conflitto.
In campo militare negli ultimi sette anni si lamenta un progressivo deterioramento delle condizioni dei settantamila uomini del contingente USA e delle forze NATO-ISAF (Forza d’Intervento Internazionale) che, arrivati qui nel 2001, non prevedevano certo un soggiorno tanto lungo e scomodo. S’erano forse illusi di trovare un nemico meno efficiente e compatto, ma in realtà il 74 per cento del territorio è sotto il controllo dei talebani, sulla cui consistenza numerica non esistono dati attendibili: è però vero che riescono a paralizzare totalmente il traffico di uomini e mezzi sulle quattro grandi strade carrozzabili che congiungono il Nord al Sud e l’Est all’Ovest. Il resto è destinato agli zoccoli dei muli.
Gravi i problemi pure sul fronte politico interno. I talebani «regnano» indisturbati a Kandahar, feudo del mullah Omar, e nella regione sud-orientale di Helmand dove il grosso delle popolazioni è nelle mani del fondamentalismo islamico, che ha in Osama bin Laden il suo profeta. Situazione che pone in grave difficoltà il presidente Hamid Karzai.
Oltre che con la guerra, l’Afghanistan deve fare quotidianamente i conti con il mostro della corruzione che nella propria ingordigia non fa discriminazioni e ha coinvolto ogni strato della società, dall’élite della upper-class ai poveracci delle bidonville. Attentati anche recenti e turbolenze sempre maggiori tra le popolazioni tribali del confine afghano-pakistano hanno sufficientemente confermato che Karzai, amabile persona e diplomatico di prim’ordine, non è l’uomo dal polso d’acciaio che le attuali circostanze richiederebbero.
Non stupisce che il suggerimento di Barack Obama di aprire un «processo di riconciliazione» verso i talebani, incominciando a intrecciare un dialogo con i loro elementi «più moderati», sia stato accolto con qualche entusiasmo dal presidente afghano, il quale già da un paio d’anni sosteneva che non erano possibili altre «scorciatoie» per arrivare alla pace.
Per la maggior parte degli afghani, i soldati americani altro non sono che truppe d’occupazione, così come lo erano stati un secolo prima gli inglesi della regina Vittoria e un secolo dopo gli «sciuravì» dell’Armata Rossa sbarcati in Afghanistan la vigilia di Natale del 1979. Per Karzai, invece, gli yankee sono gli amici di sempre venuti in forza dagli States per liberare il Paese dalla barbarie del fanatismo islamico. Ed è sorprendente che, nonostante la sua devozione per la bandiera a stelle e strisce, anche il presidente sia stato alla fine isolato e non abbia più goduto in pieno della fiducia di Washington.
Nelle pagine che seguono c’è il resoconto di alcune mie scorribande in territorio afghano nel 2008. Non sono in grado di prevedere a cosa condurranno le proposte di Barack Obama di avviare «trattative di pace», coinvolgendo l’ala moderata dei talebani. Tuttavia, come mi accade quasi sempre alla fine di un soggiorno più o meno breve in Afghanistan, sono colto da una ventata di ottimismo e accarezzo l’illusione che alla prossima visita troverò una Kabul pacificata, distesa e festosa, come negli anni Settanta, quando i figli dei fiori vagavano per Chicken Street un po’ ebbri, inalando profumi d’«erba» e di kebab, mentre soldati e mujahiddin infileranno un fiore nella canna del fucile.
Che sia questa la volta buona? Ricordo un giornalista inglese che, dopo aver visitato un obsoleto cimitero di Peshawar dov’erano sepolte decine di soldati britannici periti nelle guerre anglo-afghane, fece un’amara riflessione: «La pace» disse semplicemente «non si addice all’Afghanistan».
Hekmatyar Herat
I morti non parlano. Ma non è difficile immaginare la reazione di Ahmad Shah Massoud – il «leone del Panshir», barbaramente assassinato due giorni prima dell’11 settembre 2001 – se venisse a sapere che il presidente dell’Afghanistan, Karzai, ha invitato a far parte del suo governo il mullah Omar e Gulbuddin Hekmatyar, i due leader politici che si sono schierati con i talebani inchinandosi davanti a Sua Onnipotenza Osama bin Laden. Per chi ha vissuto in prima persona le vicende dell’Afghanistan dai tempi dell’invasione sovietica in poi, il ritorno di Hekmatyar, soprattutto, sulla scena politica provoca un non lieve sconcerto. Sono in grado di immaginare il sorriso enigmatico di Massoud se gli avessero comunicato questa storiella assurda.
Conobbi il capo dello Hezb-i-Islami (uno dei sette partiti della resistenza islamica) a Peshawar sei mesi prima che l’Armata Rossa invadesse l’Afghanistan. Già allora Hekmatyar vantava una serie di primati e si considerava il numero uno dei guerriglieri afghani. Mi fece subito intendere di non avere grande stima per Massoud che, invece di oziare nelle retrovie, stava solo nel suo Panshir a combattere gli «sciuravì».
Andai poi a trovarlo anni dopo, nel 1994, nel suo rifugio di Sharasiab, sulle montagne, in compagnia di un giovane collega afghano, Mirwaiz Jalil, che lavorava per la BBC a Kabul. Ci teneva molto, Mirwaiz, a incontrarsi personalmente con il «grande capo», anche se dallo schermo lo aveva attaccato talvolta sulla sua efficienza strategica.
Gulbuddin era un tipo autoritario, stizzoso e non tollerava critiche neanche se vergate con la penna morbida di Jalil, che non era un cronista d’assalto. Sta di fatto che nel viaggio di ritorno da Sharasiab a Kabul, la macchina su cui viaggiavamo venne bruscamente bloccata da un gippone dal quale sbucarono cinque uomini con la faccia coperta da fazzoletti neri e il kalashnikov in pugno. Non ero io quello che volevano, era Mirwaiz. Lo strapparono dal sedile posteriore colpendolo sulla testa, in faccia e sulla schiena. Non dimenticherò mai il suo sguardo e le sue ultime parole: «Ettore, it’s the end, they are killing me...» (Ettore è la fine, adesso mi ammazzano). Lo spinsero nel folto dei cespugli lungo la strada e lo abbatterono a fucilate. Sparavano ancora quando l’autista, con me a bordo, fu costretto a ripartire alla volta di Kabul. Mirwaiz aveva venticinque anni. Un ragazzo raccontò d’averlo visto sul margine della radura con «un paio di baionette infilzate nella pancia».
Succube di un’ambizione smisurata, Gulbuddin non tollerava i suoi rivali politici, fossero Massoud o Burhanuddin Rabbani, Babrak Karmal, Yunis Khales o il «generale» Dostum, sovrano di Mazar-i-Sharif. Nemmeno il tentativo fatto dal presidente Rabbani e dallo stesso Massoud che gli avevano proposto l’incarico di premier era riuscito ad ammorbidirlo. E per un paio d’anni, dal suo covo di Sharasiab ha continuato a scaricare missili su Kabul, che stava a soli 25 chilometri di distanza. A causa sua non c’era più spazio per seppellire i morti nei cimiteri della capitale. Già negli anni dell’invasione sovietica, il governo di Islamabad sosteneva apertamente Hekmatyar (e non Massoud), che riteneva l’unico leader politico e militare in grado di sconfiggere l’Armata Rossa e il regime marxista di Kabul, e di conseguenza anche i finanziamenti esterni (Stati Uniti, Paesi del Golfo) finivano nelle mani di Gulbuddin e dei suoi uomini.
L’offerta del presidente Karzai al mullah Omar e a Hekmatyar potrebbe suggerire l’ipotesi di una manovra politica per l’affermazione, in Afghanistan, di quell’integralismo islamico lanciato a Teheran da Khomeini che il governo di Ahmad Shah Massoud aveva tentato di contenere, privilegiando un regime islamico moderato.
Kabul città blindata
I colpi sparati il 27 aprile 2008 contro Karzai, rimasto fortunatamente illeso, hanno raggiunto in modo indiretto anche me che dopo qualche anno ero tornato a Kabul per vedere «com’era cambiata». Chi vi aveva messo piede di recente la descriveva frenetica e vibrante, spensierata se non proprio gaudente e finalmente libera dalla funerea camicia di forza imposta dai talebani.
La guerra era lontana, si combatteva ancora nel Sud, a Kandahar, e nelle province occidentali lungo il confine con l’Iran dove sono impegnati anche i soldati del nostro contingente. A Kabul giungevano gli echi di quegli scontri, quasi per ricordare agli afghani la realtà immutata di un Paese che non ha mai conosciuto la pace.
Le strade sono sempre intasate da gente che si sposta da una periferia all’altra, invade stadi, parchi e giardini, in mezzo a un fracasso di suoni e di grida, con sguaiati cartelloni pubblicitari che pendono da mastodontiche impalcature per reclamizzare i cellulari, di cui tutti sembrano muniti.
Chicken Street, la strada più famosa della capitale dove i figli dei fiori bighellonavano nei primi anni Settanta inebetiti dall’hashish, è sempre pervasa dalla sua effimera vitalità, sebbene ormai tutte le strade del centro le somiglino: i commercianti di tappeti continuano a lamentarsi per il declino degli affari, favoleggiando dei bei tempi felici, e sorseggiando tè seduti sul marciapiede. «Qui mangi il miglior kebab di Kabul» urla un tipo barbuto tenendo viva con un ventaglio la brace su cui cuociono degli spiedini di montone.
Ma questa impressione di presunta normalità scompare non appena ci si inoltra nelle strade più frequentate del centro storico, interrotte da sbarramenti e blocchi di cemento, dove la sommità dei muri di cinta dei palazzi è coronata ovunque da rotoli di filo spinato. Poliziotti e militari con il mitra spianato controllano perentoriamente il traffico, dando origine a chilometri di macchine costrette per ore a una penosa immobilità. Kabul è una città blindata.
Nel suo libro autobiografico, il presidente Karzai ricorda la Kabul degli anni Cinquanta, quando, scrive, «era una città pulita, ordinata e discretamente cosmopolita, con lunghe strade a tre corsie [...], il luogo favorito per i diplomatici occidentali, davanti alle spettacolari cime dell’Hindu Kush». In esso, però, accenna pure alla distesa di papaveri da oppio, «assai noti alla cultura delle droghe in Europa».
Oggi, invece che dai trasognati viaggiatori del secolo scorso, poeti, scrittori, artisti e perditempo, Kabul è stata, per così dire, invasa dai militari dei vari contingenti dei Paesi alleati, preoccupati di sostenere l’Afghanistan in un momento tanto critico della sua storia. Si tratta di «missioni di pace» il cui obiettivo è assistere il Paese nei programmi di ricostruzione e, soprattutto, della sicurezza, dato che la minaccia dei talebani si sta intensificando di giorno in giorno. Ma a questo punto sorge un altro problema, che si avverte passeggiando per la capitale o nelle città di provincia, chiacchierando davanti a una tazza di tè (gli alcolici sono ancora proibiti come ai tempi della tirannia talebana). Ed è, semplicemente, che la maggioranza della popolazione sembra essere arcistufa della presenza delle «truppe straniere». Per molti, uomini politici, intellettuali o anche uomini della strada, esse altro non sono che «truppe di occupazione», come in passato sono stati i russi e, prima ancora, gli inglesi della regina Vittoria.
«È ora che se ne vadano» ha sentenziato un nostro amico afghano, dimostratosi un sollecito cicerone durante queste settimane, assecondando il presidente Karzai che recentemente ha affermato: «Nessuna forza di occupazione può rimanere in Afghanistan contro la volontà del popolo afghano. Non è successo nel passato e non succederà mai nell’avvenire. Noi sapevamo che a un certo punto i sovietici se ne sarebbero andati, ciò che non avevamo previsto era il disastro che sarebbe seguito al loro rientro».
È una considerazione che viene fatta di continuo in questi giorni. Pure un nostro amico di vecchia data, che per anni fu il braccio destro di Ahmad Shah Massoud, si confessa perplesso e spiazzato di fronte al dilemma: «Nessuno più di me sarebbe felice se gli yankee togliessero le tende. Ma allo stesso tempo non posso non chiedermi: cosa accadrà dopo il loro ritiro? Né la struttura militare afghana, qual è oggi, né la polizia sarebbero in grado di sostenere da soli lo scontro con i talebani, che sono sempre più forti e ricevono aiuti dal Pakistan. La vedo brutta, amici».
I ritratti (gigantografie) di Massoud ti accompagnano ovunque, a Kabul come in un qualsiasi remoto villaggio. Egli resta il solo, vero «eroe nazionale» ed è rimpianto da tutti, anche da coloro – sento dire – che erano suoi nemici. Tuttavia si ha l’impressione che il suo spirito e il suo messaggio si siano come affievoliti, se non addirittura scomparsi, nell’epidemica apparente festosità della Kabul di questi giorni.
Non ho potuto perciò resistere alla tentazione di raggiungere la collina del Panshir dove è stato tumulato. Un viaggio di due ore, tra montagne, pianure e boschi lungo il fiume chiaro e ruggente che porta il nome della vallata. Il monumento sopra la sua tomba non è stato ancora ultimato, cosa che sta facendo arrabbiare molte persone. Arrivano comitive anche dall’estero: il giorno della nostra visita, l’eroe riceve l’omaggio del ministro degli Esteri polacco. I soldati incasellano il mausoleo nei loro cellulari.
È toccante il messaggio fatto incidere dal figlio di Massoud su una lastra di marmo posta all’ingresso della tomba. Dice: «I nemici pensavano che uccidendo mio padre – l’eroe Ahmad Shah Massoud – avrebbero potuto uccidere i suoi sogni. Essi non sapevano che Massoud era qualcosa di più che un comune mortale. Era un’idea, una visione». Firmato: Ahmad Massoud. E, sotto: «Offerto al popolo afghano con grande rispetto per il “leone del Panshir” dal Lieutenant General dei Marines degli Stati Uniti d’America James Mattis, 17 maggio 2007».
Io ricordo le giornate passate insieme, le chiacchierate, quella sua maniera dolce e triste di guardare la gente che gli stava attorno. Molti dei suoi ragazzi erano analfabeti, e lui, tra una battaglia e l’altra, leggeva poesie.
Kabul rinasce
Quando vi misi piede per la prima volta, sei mesi prima che le piombasse addosso l’Armata Rossa di Leonid Il’ič Brežnev, la capitale dell’Afghanistan era una remota Cenerentola dell’Asia centrale che, a eccezione degli inglesi, solo pochi avrebbero potuto rintracciare con facilità sull’atlante.
Affrontando quel viaggio verso l’ignoto, avevo però ritagliato e messo in borsa un elzeviro di Moravia che, sulla terza pagina del «Corriere», parlava di Kabul e del suo arcano re, da qualche anno esule in Italia: quanto bastava per alleviare di poco il mio disagio.
Era l’estate del 1979. Nelle città e sulle montagne era già cominciata la lotta armata o jihad (guerra santa) degli afghani contro il governo filosovietico di Nur Muhammad Taraki, presidente, e del suo primo ministro Hafizullah Amin, ambedue portabandiera del regime dei «senza Dio», ferocemente avverso alla prospettiva di una repubblica teocratica nel Paese. Quello stesso anno, nella notte tra Natale e Santo Stefano, quando i carri armati sovietici entrarono sferragliando a Kabul, ebbe inizio l’ultima guerra coloniale del secolo. L’ho seguita per quasi trent’anni, fino all’ultima visita – domenica, 27 aprile 2008 –, giorno del caotico, fallito attentato dei talebani contro il presidente Hamid Karzai.
Fatalmente, la sola porta d’ingresso per l’Afghanistan era allora Peshawar, la città di frontiera pakistana dove stavano annidati i quartier generali dei sei o sette partiti della resistenza islamica, impegnati nella jihad. Ricordo come fosse ieri il primo incontro con Gulbuddin Hekmatyar, il torvo, truce capo dello Hezb-i-Islami – il gruppo più agguerrito e aggressivo dei mujahiddin che sta tuttora combattendo a fianco dei talebani nella valle del Kunar – che mi disse: «Se vai a Kabul, salutami Taraki. Digli che i miei ragazzi possono anche andare scalzi in montagna, con un tirasassi invece del fucile, ma si lasceranno ammazzare piuttosto che arrendersi. Digli che il giorno della resa dei conti è vicino. Allah akhbar. Che Iddio ti assista».
Da Peshawar, città guarnigione, città bazar, città ospizio di un milione di profughi afghani, si raggiungeva Kabul su una piccola, ansimante corriera azzurra su cui erano stipate anche pecore e capre, in sette od otto ore passando per il Khyber Pass e rampicandosi a strappi e rantoli su tornanti scoscesi lungo un fiume – il Kabul – pieno d’ira e di schiuma. La città sembrava calma e, a 1800 metri, si respirava un’aria nuova, pulita, vero refrigerio dopo la calura sofferta nelle zone basse di frontiera, isterilite dal sole.
Mesi dopo, tornato sui miei passi, chiesi ad Hafizullah Amin, diventato presidente dopo la scomparsa (leggi eliminazione) di Taraki, se avesse mai pensato che avrebbe potuto finire i suoi giorni come il suo predecessore e non spegnersi tranquillamente nel proprio letto. Ipotesi che di fatto si realizzò. Neanche due settimane dopo il colpo di Stato che aveva rovesciato il suo regime, Amin e la sua famiglia furono trucidati dai soldatacci dell’orda sovietica, e al suo posto venne messo Babrak Karmal, imposto dal Cremlino e sbarcato nella capitale sulla torretta di un tank T26, con la stella rossa. In pochi giorni, con duecento voli dalla Russia alla base aerea di Bagram, il comando militare sovietico aveva scaricato da millecinquecento a cinquemila soldati, insieme a tonnellate d’armi d’ogni tipo e dimensione. L’intero Paese era ormai nelle mani dei russi.
Ciononostante, la Kabul del dopo intervento appariva meno «marziale» e meno «militare» di quella che avevo visto un mese prima. La presenza sovietica era confermata, con discrezione, da robuste camionette senza targa o con targa non afghana, gremite di soldati dell’Armata Rossa, infagottati e silenziosi, la testa avvolta nel colbacco nero. Pochi i carri armati in città, minacciosamente immobili nel giardino della sede tv; ma centinaia di blindati stavano dislocati e occultati nella periferia tutta intorno, livida e bianca di neve, o lungo i contorcimenti della carrozzabile per Jalalabad.
Da un’altura a ovest della capitale, reparti di «sciuravì» tenevano sotto tiro un campo militare afghano, segno evidente che l’Armata Rossa non si fidava più degli uomini che avevano combattuto contro i mujahiddin sotto il regime di Taraki e Amin. Molti di loro s’erano rapidamente sbarazzati della divisa passando dalla parte dei guerriglieri islamici. Defezioni a catena. Era ormai chiaro per tutti che l’ordine interno e la sopravvivenza del nuovo governo «moscovita» dipendevano esclusivamente dall’esercito sovietico, padrone assoluto. Una presenza massiccia, la sua: da diciotto a venticinquemila soldati, che tuttavia non furono in grado di proteggere le proprie installazioni dagli attacchi e attentati del comandante Abdul Hag, principe dei dinamitardi. I diplomatici russi e il loro entourage vivevano murati dentro l’ambasciata, con tutte le amenità che Mosca forniva loro per addolcire l’esilio.
Ancorata alle sue strutture arcaiche, Kabul non era visibilmente cambiata, ma un lieve mutamento c’era stato; il professor Majrooh, ex decano di lettere all’università della capitale, lo ravvisava «nel tono e nel ritmo della vita». Una trasformazione della cultura afghana era certamente tra gli obiettivi del Cremlino e non doveva perciò stupi...

Indice dei contenuti

  1. Lontani da qui
  2. Copyright
  3. Prefazione
  4. Afghanistan
  5. Nicaragua
  6. Liberia
  7. Sri Lanka
  8. Cambogia
  9. Perù
  10. Venezuela
  11. Bolivia
  12. Messico
  13. Cuba
  14. Conclusione
  15. Indice