Testimonianze
Un omaggio di due grandi amici registi
LUCA RONCONI
Maestro Ronconi, come ha conosciuto Dacia Maraini?
La conoscenza ovviamente avviene prima delle collaborazioni che abbiamo avuto. Mi sembra di conoscerla da quando ancora io facevo l’attore, anche se non è stata una frequentazione. Ti parlo di quarantacinque o cinquanta anni fa. Successivamente, quando ho cominciato a fare il regista, i rapporti si sono fatti più interessanti.
La prima collaborazione con Dacia risale già alla fine degli anni Settanta, ai tempi del Fabbricone di Prato. In cosa consisteva questa cooperazione?
Quel laboratorio fu, per parecchi di quelli che vi hanno partecipato, me compreso, una delle esperienze artistiche e professionali più fertili e più fondative. Credo che lo fu anche per Dacia. Il laboratorio era organizzato per sezioni e per gruppi. Io lavoravo soprattutto con dodici attori, giovani professionisti. Partecipò Franco Quadri. Partecipò Gae Aulenti, che lavorò con un gruppo di architetti. Naturalmente l’elemento teatrale era al nucleo. Dacia gestiva un gruppo chiamato «linguaggio», detto anche «Gruppo L», termine che riguarda un po’ tutto, ma qui non era rivolto a un utilizzo immediato in senso drammaturgico. C’era poi Luigi Nono che fece alcuni interventi sul rapporto tra palco e suono.
Il Fabbricone ha ospitato anche un bellissimo testo di Dacia: I sogni di Clitennestra. Cosa può raccontarci in proposito?
Era un lavoro che io ho seguito, durante le discussioni che si facevano. Indubbiamente non era un lavoro funzionale a una rappresentazione pubblica, era un lavoro di ricerca con il suo gruppo.
Dacia pubblicò in quegli anni una recensione alla Sua celebre messa in scena dell’Orestea.
Sì perché, fra l’altro, lavorava al laboratorio di Prato Marisa Fabbri, che collaborò con Dacia e che aveva fatto Clitennestra nell’Orestea. Poi avevamo allestito l’Orestea a Prato l’anno precedente, avevamo fatto molte discussioni. Quindi già il tema e il personaggio di Clitennestra erano nell’aria. D’altra parte il personaggio di Clitennestra, da come è presentato nell’Orestea, a come invece è rielaborato nella visione di Dacia e del suo gruppo, presenta uno spostamento dell’osservazione. Ed era proprio uno dei temi generali del laboratorio, quello di dare una maggiore libertà interpretativa dei testi della tradizione. Dacia dava una interpretazione matriarcale del personaggio di Clitennestra.
C’è poi nel teatro di Dacia un impegno a favore delle donne.
Certo, anzi direi che è proprio una caratteristica costante di tutto il lavoro di Dacia, ed è proprio quello che gli conferisce anche un carattere. Io ho lavorato solo per uno spettacolo, Memorie di una cameriera, altre cose le ho viste da spettatore, o le ho lette: mi ha sempre colpito come nelle funzioni teatrali di Dacia non ci sia niente che non abbia il segno della necessità, la necessità del personaggio. Questo è molto bello, indipendentemente dagli esiti, dai risultati. Si sente che anche la scrittura è qualcosa di necessario. A volte lavora per richiesta, ma questo non diventa mai una firma. Questo è molto bello.
Nel 1997 chiederà a Dacia di scrivere un testo (tratto dal Journal d’une femme de chambre di Octave Mirbeau) che metterà Lei stesso in scena al Teatro della Sapienza di Perugia e che nel 1999 arriverà anche al festival internazionale del Lussemburgo. Dacia ricorda la bravissima Anna Maria Guarnieri, la bella scena di Marco Capuana, le maschere di Salvatore Placenti. Com’è andata questa esperienza?
Mi piacque molto lo spirito con cui da Diario fu spostato a Memorie. Anche perché l’attrice Anna Maria Guarnieri già allora non era più una bambina. E poi, quello spostamento, fatto non solamente per via della credibilità dell’attrice, ma anche per far sì che, in qualche modo, quell’esperienza non fosse vissuta giorno per giorno, ma ci fosse anche un accumulo della memoria, fu un’ottima idea. A questo io non avevo affatto pensato, l’ho poi ricavato dalla lettura del testo. Inizialmente, con l’idea di un Diario di una cameriera, avevo pensato di fare una serie di episodi nel tempo. Viceversa, fare in modo che tutta la cosa fosse un recupero di memoria mi ha molto aiutato. Per esempio, la scenografia era una specie di piramide rovesciata, fatta di oggetti di arredamento, era molto legata all’idea dell’accumulo dei ricordi nella memoria, cosa che, viceversa, fosse stata più lineare, avrebbe fatto venire in mente un passaggio diacronico. Questo per dirti che anche l’uso delle maschere, tranne lei che non ce l’aveva, era in qualche modo, certo, anche perché ogni attore facesse parecchie parti, ma soprattutto suggeriva questa deformazione, che è la maschera, come un elemento nella memoria della protagonista.
Sembra addirittura che sia stata Dacia a proporre dei tagli, Lei voleva mettere in scena tutto il testo così com’era. Pensa che sia importante e poco diffusa questa Sua educazione al rispetto estremo dell’autore?
Sì è vero, Dacia a un certo punto ha detto: «Tagliamo, tagliamo!».
Mi dispiaceva anche un po’. La cosa che mi piace molto nel mio lavoro è proprio cercare di entrare nel testo, che sia di Dacia, che sia di Pier Paolo Pasolini, o che sia di Botho Strauss, Edward Bond, ma anche che sia Euripide, mi domando qual è la ragione per cui una parola segue un’altra parola e non c’è piuttosto una parola simile. Mi piace entrare attraverso la scrittura non tanto nell’intenzione dell’autore, ma proprio nel suo scrivere e non nel suo «voler dire». Mi interessa vedere «come» gli autori dicono, piuttosto che «cosa» dicono.
Dacia sostiene che anche la Sua messa in scena di Memorie di una cameriera a un certo punto sia stata come dimenticata e sfavorita dai circuiti teatrali, nonostante avesse successo e grande valore artistico. Dice a questo proposito: «Mi è dispiaciuto che lo spettacolo, di grande successo, sia stato poi abbandonato, come tutti gli spettacoli riusciti nel nostro Paese. Non esiste teatro di repertorio. Tutto corre rapido, si consuma, si perde e ogni volta si ricomincia da capo. Un sistema fondamentalmente idiota. Di questo non hanno colpa i registi o gli attori né naturalmente i drammaturghi che sono le vittime designate, ma il sistema produttivo e distributivo che risponde a un mercato nevrotico, divistico e privo di capacità di giudizio e di scelta».
Concorda con questa visione?
Concordo totalmente. Che quello di oggi sia dal punto di vista produttivo e gestionale un teatro che punta soprattutto alla sopravvivenza, senza porsi altri problemi, che i problemi coincidano cioè con la necessità di sopravvivenza che spesso coincide con la necessità di buttar via, ecco, questa è un’insensatezza, specialmente quando si parla di teatro pubblico, che spesso dovrebbe avere la funzione di far durare le cose.
Pensa che un giorno potrà riprendere questa Sua regia?
L’ho fatta molto volentieri, ci siamo divertiti come dei pazzi, ha avuto molto successo, sia in Italia che all’estero. In Italia è stata rappresentata per almeno un anno e mezzo. Certo, in molte città importanti come Roma o Milano, non è stata vista, mi pare… È stato un peccato lasciarla morire.
Lei da grande uomo di teatro è notoriamente anche uno straordinario conoscitore della letteratura e della letteratura teatrale in particolare. Come collocherebbe Dacia Maraini, con il suo teatro politico, il suo teatro «dalla parte delle donne», il suo «teatro di parola», nel panorama nazionale e internazionale?
Una cosa mi piace molto nel teatro di Dacia: il fatto che è anche molto nazionale. Si sente che la matrice, al di là della continuità tematica, è molto «nostra». Marianna Ucrìa ne è un esempio.
Io non considero un drammaturgo chiunque scriva una commedia, perché anzi, la maggior parte scrive dei copioni. Ci sono autori rispettabilissimi, ma il risultato è un prodotto, non è un messaggio, una fede, un’azione. La caratteristica di Dacia, di gran parte del suo teatro, è che mentre molto spesso negli autori riconosci le ascendenze – Beckett da qualche parte, Pinter da un’altra, Dario Fo da un’altra ancora e via dicendo, invece in Dacia è riconoscibilissima Dacia stessa. Oltretutto, Dacia lo sa benissimo, Memorie di una cameriera è stata una delle pochissime commedie contemporanee italiane che ho messo in scena. Ora, una delle maledizioni del teatro italiano, delle difficoltà del nostro teatro, è che manca un po’ una drammaturgia italiana, scritta in italiano e che non sembri una traduzione dall’inglese, o una traduzione dal francese, come succedeva negli anni Trenta, o una traduzione dall’americano. Testi così non dico che siano brutti, ma è difficile recitarli. Viceversa, poter lavorare con dei bravi attori come è stato nel caso di Memorie di una cameriera, su una scrittura che è la nostra lingua, il nostro modo di pensare, il nostro ritmo linguistico, è infinitamente più piacevole e ottiene dei risultati molto maggiori: non ci dobbiamo adeguare, arrampicandoci un po’ sugli specchi come facciamo abitualmente quando cerchiamo di recitare un testo tradotto. L’ho fatto ultimamente con una commedia inglese, fatta di parole brevi, bisillabe, resa invece con delle parole che in italiano diventano quadrisillabe: in una scrittura il suono può essere affidato a una modulazione vocalica che noi non abbiamo. A teatro non è come leggere un libro, noi dobbiamo restituire il testo foneticamente e gestualmente. Ecco perché ho lavorato pochissime volte con una commedia italiana, e anche perché il copione italiano o americano, inglese eccetera in quanto ricetta da mettere in scena non mi interessa. Non mi interessa non perché la disprezzi, semplicemente non sono sicuro che la rispetterei bene, semplicemente ritengo di non essere capace di rispettare bene quella ricetta. Nel caso di Dacia invece so che è la scrittura di un autore e quindi mi mette in contatto con un cervello, con una mente, con una storia, ancora di più, e non invece con un prodotto.
Negli anni Settanta Dacia Le fece un’intervista nella quale Lei affermava: «Il discredito dell’autore in realtà riguarda più chi riceve che chi fa. È il pubblico che ha logorato l’idea dell’autore. Al pubblico non interessa sapere cosa gli vengono a dire queste persone che sono gli autori. […] Il pubblico non va a teatro per discutere di problemi. Ma per vedere delle cose su cui è d’accordo già in partenza».1 Oggi la pensa ancora così?
Be’, abbastanza, abbastanza…
E poi ancora diceva a proposito degli autori: «Questo non è un momento creativo per il teatro scritto. Non c’è un autore che ci ponga il problema dell’utilizzazione delle scoperte che sono state fatte da ultimo nel campo della scrittura scenica. Ci si lamenta che la parola sia la servetta. Ma non c’è un autore al mondo che abbia pensato di utilizzare le nuove forme di arte teatrale».
A distanza di alcuni decenni si sentirebbe di confermare queste sue opinioni?
Questo succedeva allora. Adesso, grazie a Dio, siamo forse esattamente al contrario. Se prima si peccava in un senso, adesso forse si pecca dall’altra parte. Però adesso gli autori ci sono. Franco Quadri ha pubblicato testi in cui si utilizzano delle possibilità drammaturgiche molto più estese rispetto a quelle costrittive degli anni Settanta.
Dacia anche come autrice teatrale ha un certo richiamo, oggi è difficile che i teatri siano vuoti quando viene rappresentato un suo testo. Mi sembra però che la critica non abbia ancora dato il giusto riconoscimento a quest’autrice e bisogna dire che molta parte della sua produzione è poco conosciuta e messa in scena. Lei è d’accordo?
Questo in parte è vero. Secondo me però dipende anche dal fatto che Dacia è stata sempre molto democratica nelle sue scelte. Viceversa, adesso no, comincia a essere molto diverso, ma per un certo periodo la critica è stata molto sussiegosa e quella forma di democrazia, il rivolgersi per esempio anche a un teatro minoritario, veniva in qualche modo considerato come antiprofessionismo. Però è un titolo di merito per Dacia l’essersi rivolta, già dai tempi di Prato, anche ai margini.
Tornando alla scrittura teatrale di Dacia, non pensa che sia una scrittura di grandissimi personaggi?
Dacia insiste molto anche sull’aspetto psicologico delle figure, molto più che sulla trama o sull’aspetto stilistico. Lei ha un occhio molto attento a chi è il personaggio e perché è così. Lei parla molto di psicologia.
Dacia insiste molto anche sul problema italiano del dramaturg, che nel nostro Paese spesso è poco considerato, poco incentivato, in generale poco riconosciuto. Crede che il nome e il carisma di Dacia Maraini potrebbero permetterle di diventare un punto di riferimento, un’incitazione per quel «sommerso» di autrici e autori italiani, ma anche veri e propri dramaturg, che stenta a essere riconosciuto e legittimato e dunque a emergere?
Il dramaturg è una figura istituzionale ed è legittimata dal fatto che esista un’istituzione che la legittimi. In un teatro italiano, dove l’istituzione teatrale è sporadica e, viceversa, l’organizzazione teatrale continua a essere più o meno su base familiare e casalinga, come era nell’Ottocento, tu capisci che in un tipo di assetto teatrale, tutto sommato ancora capocomicale, dove l’istituzione è vista da tutti come un fatto negativo, è molto difficile dare lavoro a un dramaturg o a un drammaturgo, perché il drammaturgo è proprio una figura dell’istituzione, che garantisce soprattutto la continuità ideologica dell’istituzione. Quindi in una società individualistica come la nostra, individualistica in tutti i sensi, se il nostro carattere teatrale è capocomicale-familiare, ci sarà anche un motivo più profondo, non solamente economico. Da quello che dico capisci bene che non sono molto d’accordo, perché sarebbe bene che ci fosse il drammaturgo se fosse riconosciuta al nostro teatro una funzione civile, educativa, culturale, formativa, identitaria, cosa che non è.
Vuole aggiungere qualcosa su Dacia, come Sua amica e come donna di teatro?
Indubbiamente il rapporto fra Dacia e la marginalità è un rapporto esistente e interessante, tra chi è ai margini e chi è ricacciato ai margini. Anche il suo rapporto rispetto alla figura femminile è molto legato a questo: c’è bisogno di riscattare una specie di emarginazione. Il teatro di via Belsiana era un teatro tutto sommato snob, nel momento in cui quello era il margine, progressivamente quella cosa marginale, è diventata centrale. A un certo punto della nostra vicenda teatrale, non sappiamo se è più marginale un teatro come era allora quello di via Belsiana. Piano piano ci siamo spostati verso le periferie. Insomma in Dacia mi sembra che ci sia un occhio, un’attenzione su quello che è ai margini, tutto incentrato per lo più sulla figura femminile, cercando in qualche modo di rendere una centralità a delle situazioni che inizialmente erano marginali.
Non voglio poi fare panegirici, perché non sono panegirici, ma nascono da una stima e da una considerazione vere e sincere e da un grandissimo apprezzamento della sua coerenza. Non vedo Dacia da dieci anni, forse da quando sono qui a Milano, però sono sicuro che potremo sempre riprendere un discorso interrotto anni fa, trovandoci qualcosa di nuovo, trovandoci uno sviluppo.
Quindi la coerenza è un punto in comune fra Voi?
Be’, io sono abbastanza infedele a me stesso e ci tengo, perché ho bisogno di cambiare sempre, e però forse proprio per questo mi piace un punto di riferimento costante, che non tradisce.
EUGENIO BARBA
Holstebro, 29 marzo 2013
Cara Dacia,
abbiamo la stessa età, abbiamo – ...