Colazione con Audrey
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Colazione con Audrey

La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Colazione con Audrey

La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna

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Sullo sfondo di un'America ancora intrappolata nel perbenismo degli anni '50 ma già tesa verso lo spirito ribelle di Woodstock, Sam Wasson racconta la storia di un film, la storia di una donna e la storia di un'epoca. Alle 5 del mattino del 2 ottobre 1960, Holly Golightly cammina per la Quinta Strada in una New York deserta, con gli occhiali da sole scuri e un abito di Givenchy destinato a diventare leggendario: è così che inizia Colazione da Tiffany ed è con questa scena che si apre una nuova era per la società americana (e non solo).Sam Wasson racconta la nascita, la realizzazione e le conseguenze di un film unico. Svela le avventure rocambolesche che sceneggiatore, regista, attori e produttori hanno dovuto affrontare per portare a termine una lavorazione piena di imprevisti; i trucchi messi in atto per passare illesi (o quasi) tra le maglie della censura e le intuizioni geniali che hanno permesso al film di superare un'accoglienza diffidente, di fare breccia nei cuori degli spettatori e di diventare un vero classico.Tutto parte dalla storia di una giovane comparsa che diventa un'icona di stile: Audrey Hepburn, con la sua grazia, riesce a guadagnarsi la fiducia di un pubblico eterogeneo e a conquistare mariti, mogli, genitori e figli.Nel momento in cui la società si sente soffocata nei vecchi panni del primo dopoguerra e scalpita aspettando un cambiamento, Audrey e Colazione da Tiffany propongono un cinema diverso, una moda nuova e uno stile di vita libero da polverosi moralismi (e in cui il sesso non è più né un tabù né una condanna!).L'autore ripercorre la storia del film, i retroscena più significativi ma anche le sfumature più segrete: Marilyn Monroe che si sfila le scarpe per ballare con Truman Capote, Billy Wilder che si nasconde in un armadio, Givenchy che pensa di parlare con la Hepburn sbagliata, Blake Edwards che organizza una festa per girare la scena di una festa e Moon River che rischia di non entrare nel film... salvo poi far risplendere Colazione da Tiffany alla notte degli Oscar.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858651025
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale
1
Un’idea
1951-1953
La prima Holly
Truman Capote era stato costretto allo sradicamento fin dall’infanzia. Alla fine degli anni Venti Lillie Mae, sua madre, aveva preso l’abitudine di abbandonarlo con i parenti per mesi e mesi mentre lei passava da un riccone all’altro. Un po’ alla volta essere scaricato non lo fece più soffrire tanto – o forse si era soltanto assuefatto al dolore – e con il tempo adattarsi divenne il suo talento. Imparò a inserirsi in qualsiasi ambiente.
Quando i genitori avevano divorziato, Truman aveva cinque anni e fu spedito a casa della zia a Monroeville, in Alabama: Lillie aveva finalmente la possibilità di saltar giù dal carro bestiame della provincia per montare su un rapido diretto verso la grande città. Si sentiva destinata alla vita di una donna di mondo, ricca e vezzeggiata, e solo a New York poteva riuscirci. Lillie Mae – o Nina, come si presentava in città – avrebbe raggiunto il suo obiettivo molto prima se non fosse stato per Truman, il figlio che non aveva mai voluto, e che aveva tentato di abortire.
Se avesse abbandonato Monroeville una volta per tutte forse Truman avrebbe sofferto un po’ meno, invece non stava mai lontana a lungo. Piombava lì senza preavviso, in un vortice di stoffe stravaganti, gli faceva due moine, si dichiarava pentita, e spariva. Poi, come se niente fosse, eccola di ritorno. Veniva immancabilmente scaricata dalla sua ultima fiamma per colpa di quell’aria provinciale che cercava invano di nascondere, se ne andava dall’ascensore di servizio e tornava di corsa da Truman con gli occhi gonfi come mongolfiere. Passavano un giorno o due, Nina si rendeva conto di trovarsi in Alabama e alzava nuovamente i tacchi per dare la scalata ai piani alti di Manhattan.
Se Truman fosse stato più grande, forse sarebbe riuscito a non mettere il suo cuore nelle mani della madre, cosa che in futuro avrebbe imparato a fare con tutti gli altri, ma allora era ancora troppo piccolo e non poteva non amarla. Diceva di amarlo anche lei e a volte sembrava facesse sul serio, come quando se lo portava dietro in qualche hotel e gli prometteva che sarebbero rimasti insieme per sempre. Salvo poi chiuderlo a chiave tutta la notte in camera per filarsela nella stanza accanto a un rendez-vous mercenario con l’ennesimo elegantone. E ovviamente Truman sentiva tutto. Una volta trovò in giro una boccetta del suo profumo e, con la disperazione di un tossico, se la bevve. Non servì a farla tornare da lui, ma almeno in quei sorsi aspri la sentì più vicina.
Quella boccetta – ciò che gli restava ormai della madre – fu la fonte di quasi tutte le sue creazioni di romanziere. L’idea di lei, come l’idea dell’amore e di una casa si rivelarono molto difficili da definire. Ci provò, comunque. Ma nessuna bottiglia di profumo o di whisky, non importa quanto intenso o accattivante, poté cambiare la realtà della sua assenza. E nemmeno le donne o gli uomini a cui si legò in seguito. Nessuno riusciva mai a riversare abbastanza calore nel vuoto che sentiva.
Di conseguenza, Capote era in parti uguali desiderio e vendetta, si aggrappava alle persone con artigli che puntava contro di sé quando restava solo. La sofferenza era atroce, ma quegli artigli strapparono sua madre al passato per metterla sulla pagina dove, sotto forma di parole, Truman riuscì a replicarne il profumo in una fragranza inesauribile di nome Holly Golightly.
Al primo sbuffo di eau d’Holly, i lettori si innamorarono di Truman, dandogli l’unica cosa che aveva sempre desiderato da quando sua madre se n’era andata la prima volta, oltre all’illusione di avere finalmente una casa, un luogo di sensazioni familiari, un odore conosciuto, la sua sciarpa preferita o il fermacarte bianco a forma di rosa che teneva sulla scrivania mentre scriveva Colazione da Tiffany.
Il fermacarte bianco a forma di rosa
Nel 1948 Truman si trovava a Parigi, acclamato da tutti per Altre voci altre stanze, il suo primo sensazionale romanzo, e Jean Cocteau lo accompagnò al Palais Royal a casa di Colette. L’autrice di Gigi, dei romanzi di Claudine e di innumerevoli altri si avvicinava agli ottanta ma era ancora la grande dame della letteratura. Costretta a letto dall’artrite, senz’altro sorrise alla fotografia di Truman sulla copertina di Altre voci altre stanze. Il ragazzo la fissava con occhi languidi e labbra morbide, uno sguardo lascivo che la vecchia signora conosceva bene: ai suoi tempi Colette aveva a sua volta fatto tremare Parigi con più di un succès de scandale, sulla pagina e nella vita. E adesso ecco Truman, un mascalzone con il viso d’angelo, e l’espressione vorace. Che meraviglia. Era sicura che tra loro esistesse un legame speciale, come un vincolo di sangue, e anche Truman, prima ancora di entrare nella stanza, aveva avuto la stessa sensazione.
«Bonjour, Madame
«Bonjour.»
Non parlavano quasi l’uno la lingua dell’altra ma quando lui si avvicinò al bordo del letto, la sensazione diventò certezza: appartenevano alla stessa razza. Venne servito il tè, l’atmosfera si fece più amichevole, Colette prese la mano del ventitreenne Truman tra le sue e ci appoggiò sopra un fermacarte di cristallo con una rosa bianca al centro.
«Che cosa le fa venire in mente?»
Truman se lo rigirò tra le mani.
«Ragazzine con il vestito della comunione» disse.
A Colette piacque quell’osservazione.
«Molto affascinante» commentò. «Molto appropriato. Allora quello che mi ha detto Jean è vero. Ha detto: “Mia cara, non farti ingannare. Sembra un angelo di dieci anni. Ma è senza età e ha la mente perfida”.»
Glielo regalò, come souvenir.
Capote collezionò fermacarte per tutta la vita, ma quello con la rosa bianca restò sempre il suo preferito, non se ne separava mai.
Buongiorno Audrey
Per Audrey Hepburn tutto ebbe inizio una splendida mattina come tante nella primavera del 1951. Si alzò all’alba, prese un caffè a letto e fece colazione – due uova sode e una fetta di pane integrale tostato – davanti alla finestra da cui si vedevano i più mattinieri di Montecarlo salpare con gli yacht. Fare colazione con tanta calma era un piacere raro per lei; in Inghilterra – dove lavorava di solito – si iniziava a girare al sorgere del sole, ma ai francesi piaceva fare diversamente. Non si mettevano in moto fino ad après dejeuner e lavoravano fino a notte fonda, così Audrey aveva la mattina libera per esplorare spiagge e casinò, e un momento per telefonare al suo fidanzato James che – di nuovo – si trovava in Canada per lavoro.
Era un ragazzo veramente gentile e bello, di famiglia benestante, gli Hanson. La amava, ovviamente, lei amava lui e, a sentire i giornali, avevano proprio tutto quello che si può desiderare. Ma tutto vale niente quando non puoi godertelo. Sembravano fidanzati solo a parole, lei con una tabella di marcia che la portava da un set cinematografico all’altro e lui con il tour infinito delle sale riunioni più illustri del pianeta. Forse, pensava Audrey, era stupido credere di poter fare l’attrice e la moglie. Se voleva sistemarsi – e lei lo voleva, sul serio – avrebbe dovuto mettere da parte il cinema. Almeno questo era il parere di James. Solo così sarebbero stati davvero insieme.
Nei sogni di Audrey lo erano: avevano una casa, due o tre bambini e tutto il tempo del mondo. La sua parte in Vacanze a Montecarlo avrebbe richiesto appena un mese di riprese: non era una consolazione da poco.
Buongiorno Colette
L’Hôtel de Paris era senza dubbio il più straordinario di tutta Monaco. A giudicare dalla facciata, una combinazione di archi e guglie Belle époque, solo la crème della società poteva soggiornare lì. Agli occhi di Audrey, che non era mai stata in Costa Azzurra, essere all’Hôtel de Paris era un’emozione smorzata solo dalla nostalgia per James e dall’assurdità del film (la sceneggiatura era insensata: un semi-musical sdolcinato su un bambino scomparso). Ma per Colette quel soggiorno non aveva niente di particolare, era un’altra goccia nel vaso dorato del lusso: frequentava l’albergo abitualmente dal 1908. Questa volta, ospite del principe Ranieri, era la regina del palazzo e come tale la salutavano i valletti quando la incontravano per i corridoi sontuosi sulla sua sedia a rotelle. Nella vecchia signora vedevano di sicuro il sangue vivo dei suoi romanzi che pulsava in lei dalla punta dei piedi fino alla tête, e culminava con l’esplosione della chioma rossa.
I dottori l’avevano mandata lì perché si riposasse, ma per Colette era più faticoso che lavorare. Da quando l’assistente del suo agente di New York si era preso la responsabilità di produrre da solo uno spettacolo dal suo romanzo Gigi, Colette non era riuscita a smettere di pensarci. Si era persino messa alla ricerca disperata dell’attrice protagonista e aveva iniziato a vedere Gigi ovunque – per strada, al mare, nelle fotografie. Nessuna la convinceva fino in fondo, ma il tempo è denaro e ne era già passato parecchio. Chi aveva investito nel progetto mostrava segni d’impazienza e – come narrano quasi tutte le leggende sui casting – aveva deciso di imporle una star collaudata quando, all’ultimo momento, accadde che qualcosa disturbò Colette mentre andava a cena.
Quello che stava per succedere avrebbe cambiato per sempre la vita di Audrey.
Colette scoprì, con disappunto, che la sala da pranzo principale era stata chiusa per girare Vacanze a Montecarlo. Che ne direbbe invece, aveva domandato il maître, di pranzare nella sala della colazione? Absolument non! Offesa, si spinse dritta nel salone proprio nel bel mezzo di una ripresa. La scena venne interrotta di colpo. La troupe si girò a guardarla. Non volava una mosca, si sentiva solo il respiro di Colette. Le era caduto l’occhio su una ragazza stranamente attraente. Aguzzò la vista oltre le luci abbaglianti, inforcando gli occhiali per studiarla meglio.
Ovviamente Audrey non aveva la minima idea che qualcuno la stesse osservando. Né Colette aveva la minima idea di chi fosse la ragazza. Quel che sapeva, però, era che le sembrava di aver messo piede nel suo romanzo: dal viso al corpo al portamento stava fissando Gigi in carne e ossa.
Prima di parlare, la scrutò per qualche minuto, o forse solo per qualche secondo o molto probabilmente appena per un istante poiché, come Audrey da allora avrebbe dimostrato milioni di volte, è questo il tempo che impiegava per conquistare chiunque se la trovasse davanti. In quell’istante – unità di misura scientifica quando si tratta di star – comunicò a Colette quello che uno scrittore racconta in un romanzo intero. Cioè la storia di una ragazza di Parigi che, a sedici anni, si prepara a ricevere un’educazione da cortigiana.
«Voilà,» disse tra sé Colette «c’est Gigi.»
Iniziò così la trasformazione di Audrey.
«Voilà...» Bastò questo.
Suona fin troppo magico, e infatti in un certo senso lo era, ma l’epifania di Colette, come tutte le scelte perfette di casting, non nasceva solo dall’istinto: nasceva dai fatti. Nonostante Audrey avesse una sensualità innata e la «Gigi-nità» scritta addosso, nessuno l’aveva mai notato prima. Forse a causa delle imperfezioni: aveva le gambe troppo lunghe, la vita troppo sottile, i piedi troppo grandi e anche gli occhi, il naso e le narici. Quando sorrideva (e non era raro), la bocca le inghiottiva la faccia mettendo in mostra una fila di denti seghettati per niente adatti a un primo piano. Certamente non si poteva dire che fosse bella. Poteva essere graziosa, intrigante di sicuro, ma così acqua e sapone e con il seno quasi piatto, seducente non lo era proprio. E aveva anche il viso un po’ rotondo, la poveretta.
Eppure Colette non riusciva a smettere di fissarla. Era incantata.
Cosa vide: parte I
Audrey magari non aveva l’aspetto di una diva, ma d’altra parte Gigi, come molte teenager, non era nata diva. Era solo una ragazza che stava affacciandosi all’età adulta, piena di potenzialità ma senza esperienza. E gli occhi di Audrey questo lo dicevano, no? Certo erano grandi, e spalancati, e le persone con quegli occhi hanno la curiosità nello sguardo. Li aveva così la Gigi di Colette, come chi non sa ancora nulla del mondo. Però il naso era un problema, vero? Non era elegante o grazioso alla maniera delle donne di classe e nemmeno i capelli, i denti o le sopracciglia folte. Perciò come avrebbe potuto una Gigi del genere, non tanto diversa da un cucciolo randagio, fare il suo ingresso nell’alta società?
Quanto a erotismo, poi, in Audrey c’era ben poco di femminile e niente lasciava intendere che sapesse soddisfare un uomo. Di sicuro non c’era nulla che anticipasse le insinuazioni sconvenienti di Holly Golightly.
O forse sì? C’era un briciolo di sensualità nascosto in lei?
Colette abbassò gli occhiali, sorridendo, e si sporse in avanti per guardare meglio.
Cosa vide: parte II
Audrey aveva le movenze di una ballerina mancata. Nonostante le cosiddette imperfezioni fisiche, era estremamente controllata nei movimenti, dimostrava una padronanza di sé incredibile per la sua età. Era qualcosa che saltava subito agli occhi, e Colette si era chiesta come facesse un affarino così giovane ad avere un portamento tanto adulto. Anche i gesti più semplici rivelavano la sua grazia interiore e cancellavano ciò che a una prima occhiata la rendeva insolita. Sembrava si muovesse ballando.
Tutto ciò che conta in una donna
«Madame?»
Uno stuolo di ammiratori aveva circondato Colette. Lei li scacciò via con un gesto. (Ci avrebbe pensato più tardi a incantarli, se ne avesse avuto voglia.) Si aggrappò a un ignaro membro della troupe e lo costrinse a chinarsi verso di lei.
«Chi è quella?» gracchiò, facendo cenno con la testa verso Audrey.
«Signora, quella è Mademoiselle Hepburn.»
«Dille che le voglio parlare.»
Lo lasciò andare e si diede un tocco di cipria rosa al naso.
«Di’ che me la portino qui.»
Mentre la guardava avvicinarsi, si convinceva sempre di più. Quella ragazza era più sorprendente da vicino che da lontano.
«Bonjour, Madame» fece lei.
«Bonjour.» Prese Audrey per una mano e la portò nel foyer dell’albergo. Le disse che avrebbe mandato un telegramma al suo produttore e al suo sceneggiatore di New York per avvertirli che dovevano interrompere la ricerca, che aveva trovato la sua Gigi e che, anche se per loro era una completa sconosciuta, dovevano immediatamente salire su un aereo e andare a Londra per conoscerla.
Audrey ascoltò tutto, ma non fu svelta a rispondere. Appena riuscì ad aprire bocca pronunciò la famosa frase: «Non posso. La verità è che non sono pronta a un ruolo da protagonista. Non ho mai parlato sulla scena». E aggiunse: «Io sono una ballerina».
«Sì, sì, sei una ballerina,» replicò Colette «perché hai lavorato sodo per diventarlo. Adesso lavorerai sodo anche per diventare un’attrice.»
Qualche mese dopo Audrey era all’Hotel Savoy di Londra per incontrare Anita Loos, la sceneggiatrice di Gigi, e Gilbert Miller, il produttore. Ripeté loro quel che aveva già detto a Colette, che non era un’attrice e che impersonare Gigi sarebbe stato impossibile per lei. Miller stava per cedere sotto il peso delle sue obiezioni, ma Loos non era disposta a mollare. L’autrice de Gli uomini preferiscono le bionde era sicura di aver colto qualcosa di speciale in quella ragazza senza esperienza che indossava, con una certa goffaggine, una camicia troppo grande e delle scarpe basse. Sarebbero trascorsi dieci anni prima che Audrey interpretasse Holly Goligthly e ridefinisse il concetto di femminilità, ma Loos – con l’intuito tipico di una flapper*– aveva fiutato con una generazione di anticipo che il vento stava cambiando. In seguito disse che Audrey Hepburn aveva «tutto ciò che cont...

Indice dei contenuti

  1. Colazione con Audrey
  2. Copyright
  3. Il cast
  4. La New York di Holly Golightly
  5. Prossimamente
  6. 1. Un’idea. 1951-1953
  7. 2. Il desiderio. 1953-1955
  8. 3. I preparativi. 1955-1958
  9. 4. L’affare. 1958-1960
  10. 5. Il corteggiamento. 1960
  11. 6. La prova dei fatti. 2 ottobre 1960-11 novembre 1960
  12. 7. La consacrazione. 1961
  13. 8. Volere di più. Anni Sessanta
  14. Una nota sulle Note
  15. Note
  16. Titoli di coda
  17. Indice