Terrore a nordest
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Terrore a nordest

  1. 250 pagine
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Maggio 2008. Nicola Tommasoli viene ucciso a Verona da cinque giovani neonazisti a cui aveva rifiutato una sigaretta. Febbraio 2007, un blitz delle Forze dell'ordine porta all'arresto di diversi militanti delle nuove Br nella zona di Padova e Udine. Il Triveneto, zona di confine. Qui, dove la Resistenza è stata più feroce e la guerra fredda più calda che altrove, si è preparato il terreno per la nascita del terrorismo italiano, di destra e di sinistra. È una storia complessa, che va dallo scontro tra partigiani bianchi e rossi all'orrore delle foibe, dalle quinte colonne pronte a difendersi dall'invasore rosso alle reti clandestine pronte a sostenerlo, da Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale alle Br e Autonomia operaia, fino al nazirock dei naziskin e alla galassia sfuggente dei centri sociali. Un viaggio nel presente e nel passato per spiegare le molte degenerazioni in cui è scivolata la lotta politica nel nostro Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858650820
Argomento
Storia
1. L’idra rossa
«Giacca, quand’è che ricominciamo?»
Febbraio 2007. È l’alba. Nel rifugio di Raveo, sopra Udine, Alfredo Davanzo ha appena festeggiato in totale solitudine il suo cinquantesimo compleanno. Stanco e assonnato, ha dato un’ultima occhiata alla «risoluzione strategica» scritta per «L’Aurora», il giornale clandestino dell’organizzazione. Poi ha spento la luce e si è sdraiato sul letto. Sta dormendo. Il suo è un sonno profondo, di chi si sente al sicuro in questa landa desolata della Carnia. E non si accorge di nulla. Quando si risveglia, è ormai troppo tardi: i poliziotti della Digos di Trieste, entrati nella sua stanza senza provocare il minimo rumore, lo hanno già immobilizzato. «Bravi! Non avrei mai creduto che riusciste a trovarmi proprio qui», si complimenta con gli agenti prima di dichiararsi «prigioniero politico».
La sua storia fino al giorno dell’arresto, ricostruita anche attraverso un minuzioso lavoro di intelligence dei Servizi segreti italiani: ricercato per partecipazione a banda armata, Antonio, questo il nome di battaglia, trascorre gran parte della sua latitanza all’estero; si addestra all’uso delle armi in Svizzera e in Francia, dove uomini del Soccorso Rosso Internazionale gli garantiscono ogni tipo di assistenza e supporto logistico; quindi rientra clandestinamente in Friuli per dirigere il Partito comunista politico-militare (Pcp-m), le «nuove Brigate rosse».
Alla vigilia del blitz, Polizia e Servizi segreti hanno ricostruito un quadro della situazione tanto dettagliato quanto allarmante. L’organizzazione terroristica che verso la fine degli anni Sessanta aveva cominciato a muovere i primi passi tra i furori ideologici dell’Università di Trento e che dopo una lunga, sanguinosa guerra contro lo Stato si riteneva ormai disarticolata, si è invece silenziosamente ricostituita. E di nuovo qui, nel Triveneto. Da dove poi si è irradiata nel resto del Paese, con un grado di pericolosità assai elevato. Quando il blitz scatta quasi simultaneamente a Udine, a Padova, a Milano e a Torino, le «nuove Br» sono in procinto di uscire dal «sonno» con una serie di azioni eclatanti. Tra quelle già progettate, l’assassinio del giuslavorista della Cgil Pietro Ichino, l’assalto con un’autobomba all’Eni di San Donato Milanese, la distruzione di una delle ville di Silvio Berlusconi, delle sedi dei quotidiani «Libero» e «Il Foglio» e delle emittenti tv Sky e Mediaset, nonché una serie di gambizzazioni di personaggi in vista.
I militanti arrestati nell’ambito dell’inchiesta – nome in codice Operazione Tramonto – condotta dalle Questure di Milano, Padova, Torino e Trieste, e coordinata dalla Direzione centrale della Polizia di prevenzione, sono in prevalenza giovani. Tra loro, ci sono studenti, operai, sindacalisti, come il capo della cellula padovana, Davide Bortolato, e perfino un portalettere. Alcuni sono insospettabili, altri provengono dall’area della sinistra antagonista dei centri sociali. Da uno, in particolare: il Gramigna di Padova, di ispirazione marxista-leninistamaoista, uno dei luoghi strategici dell’antagonismo italiano più estremo e simbolo attivo, secondo gli investigatori, della nuova degenerazione politica di matrice comunista. Giovani e giovanissimi. Guidati da due irriducibili cinquantenni della lotta armata, Davanzo e il suo vice Claudio Latino: entrambi apprendisti alla scuola delle vecchie Brigate rosse, col tempo, nella lunga fase di sonno, si sono trasformati in capi, con un innesto di nuove leve provenienti dalla mai del tutto disintegrata area della contiguità sui rami sopravvissuti dell’antico tronco.
Claudio Latino (detto Gallinella) lo hanno preso a Milano, ma è un lombardo che vanta un lunghissimo tirocinio politico-militare in Veneto. Muove i primi passi alla scuola di Toni Negri, negli anni Settanta, quando Autonomia operaia organizzata imperversa nella città del Santo. Il giudice Pietro Calogero gli punta gli occhi addosso durante l’inchiesta sui collegamenti tra l’Autonomia e le Br, quella passata alla storia col nome «7 aprile». Gli intellettuali di sinistra insorgono contro il «teorema Calogero» e fanno la fila per firmare appelli alla mobilitazione della pubblica opinione. Non appena il giudice padovano imbocca la pista dei rapporti internazionali, virando sui centri parigini e sul Soccorso Rosso, la pressione dell’intellighenzia va ad aggiungersi a una serie di fughe di notizie, che provocano la chiusura a riccio da parte delle autorità francesi. L’inchiesta si sgonfia. E Gallinella ne esce indenne, come del resto lo stesso Negri e gli altri del suo gruppo.
Negli anni successivi, dopo l’assassinio di Aldo Moro e l’ondata dei pentimenti, nella fase di ripiegamento del terrorismo rosso, Latino è uno dei militanti che non si rassegnano alla sconfitta, e continua anzi a lavorare sotto traccia. Organizza nel Nordest i Comitati d’appoggio alla resistenza per il comunismo, quel magma di nuove sigle della rivoluzione più noto con l’acronimo Carc, una zona grigia sospettata di essere la facciata legale dei nuovi cantieri del terrorismo. I Carc, come teorizzano nei loro documenti, puntano a portare fin dentro le «istituzioni borghesi gli interessi del proletariato», in modo da provocare il collasso dello Stato e far partire così il processo rivoluzionario. È una forma di entrismo che nasconde, dietro la patina paraistituzionale che protegge la facciata legale dei movimenti, processi di ricomposizione politico-organizzativa di tutt’altra natura.
I Carc hanno un doppio livello, clandestino, sconosciuto agli stessi militanti. Lo scopriranno gli investigatori dell’Operazione Tramonto durante una perquisizione nell’abitazione parigina di Giuseppe Maj, il leader nazionale dei Comitati da tempo latitante in Francia, rovistando nel suo archivio. Nella seconda metà degli anni Ottanta, Maj raccoglie le schede autobiografiche dei militanti che chiedono di entrare nella struttura segreta dei Carc. C’è anche quella di Gallinella, con il suo curriculum. Latino dichiara di aver costituito, tra il 1985 e il 1987, un «collettivo caratterizzato dalla clandestinità associativa», di aver compiuto «due azioni di autofinanziamento riuscite e altre tentate» e alcune «azioni politiche di attacco con l’uso di armi da fuoco», di essersi «addestrato al furto di auto e moto» e alla «contraffazione» e infine di «aver preso contatti con altri compagni, latitanti e non, con cui si è costituito un gruppo che aveva come principale obiettivo l’attuazione di azioni di autofinanziamento».
Dal doppio livello clandestino dei Carc alla rete vera e propria delle nuove Br, il salto è breve e del tutto naturale. E probabilmente avviene proprio intorno al 1999, l’anno in cui le «biografie ufficiali» raccontano di un’espulsione di Gallinella dai Comitati. Un episodio all’apparenza inspiegabile, perché segna un punto di rottura con l’esperienza precedente. Ma in realtà comprensibilissimo proprio alla luce del suo nuovo impegno: quell’espulsione serve probabilmente a precostituire una sorta di alibi per il livello legale dei Carc.
Un sottile filo rosso lega saldamente il Pcp-m alle vecchie Br. A cominciare dalle modalità di «attenzionamento» di quei soggetti considerati nemici – e dunque obiettivi da colpire –: nel computer di uno degli arrestati, ad esempio, la Polizia troverà un file contenente 44 nomi di persone appartenenti alla destra patavina con, a fianco di ciascuno, le relative indicazioni come il numero di telefono, gli indirizzi di casa e del posto di lavoro, la facoltà universitaria frequentata, le candidature a competizioni elettorali, il mezzo di trasporto utilizzato, i luoghi di ritrovo ed eventualmente la foto del soggetto. Ma il legame è soprattutto in una continuità di intenti, di ideologie, di odii espressa nelle posizioni dei due leader, Davanzo e Latino, ma anche nella sterminata pubblicistica clandestina. Dal 2003 esiste un opuscolo di propaganda politica sovversiva finalizzata alla costruzione del Partito comunista politico-militare secondo il modello della guerra popolare prolungata: si chiama «L’Aurora», con tanto di stella a cinque punte all’interno della «o». Nei documenti teorici, la lotta armata viene concepita come traino per la rivoluzione e, proprio per questo, da estendere il più possibile al proletariato mantenendo i rapporti con le «lotte sociali».
Il rapporto tra scontro armato e movimenti di massa è il tratto che lega più saldamente le nuove Br del Partito comunista politico-militare al dna della vecchia casa madre, distinguendole dal ramo puramente militarista del Partito comunista combattente di Desdemona Lioce e Mario Galesi, responsabile dell’assassinio di Massimo D’Antona, nell’autunno 1998. Ed è proprio questo a renderle ancora più pericolose: la loro capacità di mimetizzarsi e di mettere radici in una vasta area, che dal punto più lontano della sinistra politico-sindacale si avvicina sempre più alla rete clandestina attraverso i movimenti antagonisti e i centri sociali: un serbatoio di umori ed esperienze che ne garantisce la capacità di autoriproduzione.
Non è un caso che, entrato nella clandestinità, Latino continui a frequentare a Padova, con i suoi compagni di colonna, il centro sociale Gramigna. Uno dei tanti del network antagonista «del Nordest», ma con una caratteristica che lo distingue dagli altri. Più volte sgomberato dalle amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni, il Gramigna si è sempre ricostituito e col tempo ha ulteriormente accentuato il proprio ruolo e accresciuto la propria importanza. A differenza di altri centri sociali che hanno anche accettato un dialogo con le istituzioni su temi caldi come la lotta al precariato, per la casa, gli immigrati, l’ambiente, il Gramigna ha sempre opposto un netto rifiuto al confronto. Una durezza che alla lunga ha pagato, consentendogli di conquistare la leadership sull’intera area dell’antagonismo sociale, dove l’idea della lotta armata continua a esercitare un irresistibile fascino. E in virtù di questa sua funzione, sono aumentati anche i crediti all’estero. Quando scatta l’Operazione Tramonto, il Gramigna è una sorta di filiale triveneta del Soccorso Rosso Internazionale, costituisce l’associazione dei parenti e degli amici «degli arrestati il 12 febbraio» e mobilita l’opinione pubblica antagonista in favore dei «compagni detenuti», Davanzo, Latino e gli altri.
Come negli anni Settanta il Movimento e il suo zoccolo duro dell’Autonomia organizzata costituivano l’acqua in cui nuotavano le vecchie Brigate rosse, così ora il multiforme e variegato mondo dell’antagonismo sociale e dei suoi centri organizzati è l’involucro protettivo delle nuove Br. Il Pedro a Padova, il Rivolta a Marghera, il Cayenna a Feltre, l’Aggro nel Trevigiano. E poi tutti gli altri sorti come funghi da Verona a Trieste, da Vicenza a Udine, da Venezia a Trento e Pordenone. In nessun’altra parte d’Italia il network dei centri sociali è così esteso come nel Triveneto. In nessun’altra parte d’Italia, del resto, esisteva una rete dell’Autonomia così diffusa, radicata e influente come in questa zona di frontiera.
Non è un caso. Perché proprio dalle ceneri della vecchia Autonomia, come un’araba fenice, la rete dei centri sociali si è riprodotta, a partire dalla fine degli anni Ottanta, nella lunga stagione delle occupazioni di sedi di proprietà pubblica dismesse. In questi luoghi autogestiti di «fabbricazione e di aggregazione politica dal basso», l’ideologia si è diffusa attraverso concerti, mostre e conferenze. Ma anche attraverso gli incontri con i vecchi leader e maestri ormai fuori dalla scena pubblica, ma mai scesi dalle loro cattedre, da dove hanno continuato a impartire il verbo rivoluzionario. Le attività promosse dai centri sociali sono state divulgate in tutto il Triveneto attraverso la loro emittente, Radio Sherwood, fondata negli anni Settanta da Emilio Vesce, uno dei leader dell’Autonomia padovana imputati con Toni Negri nel processo «7 aprile».
La radio nel corso degli anni ha ampliato ulteriomente il proprio raggio d’azione con l’apertura di nuovi studi a Marghera, Venezia e Vicenza. Oggi è uno dei pilastri del Global Project, la rete multimediale dei centri sociali del Nordest, un efficacissimo strumento di propaganda ma ancor più un insostituibile mezzo di finanziamento del movimento: sono sempre molto affollati i festival estivi che si organizzano da diversi anni a Padova, grazie ai quali l’emittente sostiene finanziariamente la campagna delle realtà antagoniste, oltre a fungere da cassa di risonanza delle loro azioni.
Un ruolo di una certa importanza nella storia recente dell’antagonismo triveneto l’ha rivestito anche il Cayenna di Feltre. Oggi è chiuso ma per molti anni è stato un laboratorio politico e culturale, in contatto con i Carc e Claudio Latino, e ha avuto tra i suoi animatori anche diversi brigatisti rossi del vecchio ceppo. Personaggi come Gianni Francescutti, Marco Cossu e Marina Bono, tutti e tre coinvolti nel sequestro e nell’assassinio di Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, la Bono anche nell’uccisione del commissario di Polizia Alfredo Albanese. I tre hanno occupato per qualche anno una casa isolata tra le montagne del Bellunese e, pur essendosi dissociati dalla lotta armata, hanno continuato a rinfocolare l’antagonismo sociale con la loro attività all’interno del Cayenna. Francescutti e la Bono oggi non vivono più a Feltre. Cossu invece sì. Lavora per il Comune e in più alterna l’attività di esperto informatico con quella di cogestore di un Internet cafè. E soprattutto mantiene un filo diretto con il Laboratorio biopolitico Desìr, nato dalle ceneri del Cayenna. Al Desìr tengono «lezioni» brigatisti storici come Renato Curcio e Antonio Savasta, e l’allievo di Toni Negri in Triveneto, Luca Casarini, uno dei leader del movimento No global. Lui invece, il «cattivo maestro» degli anni Settanta, si limita a inviare messaggi di solidarietà.
Se Negri osserva con interesse e partecipazione dall’esterno, i suoi ex compagni di Autonomia, come si è visto, sono dentro i centri sociali, li animano, li mettono tra loro in collegamento e li guidano. Autonomi della prima ora come Donato Tagliapietra, Francesco Zordan e la sua compagna Annalisa Maule, dopo vari passaggi allo Stella rossa di Bassano del Grappa e tra i gruppi informali di Thiene – serviti per aprire la strada dell’Alto Vicentino ai Carc e a Claudio Latino, con cui hanno intrattenuto rapporti assidui – ora sono tra i leader del presidio permanente No al Dal Molin, costituito per boicottare la costruzione della nuova base aerea Usa a Vicenza.
Un impegno «antimperialista» del presente che si sposa, diciamo così, con il «recupero della memoria», con la rivendicazione orgogliosa della tradizione delle radici storiche che in questa parte d’Italia ancora oggi evocano lutti e dolori, odii e rancori. La Maule e Zordan da tempo sono impegnati in una campagna di rivalutazione e rilettura di alcune importanti vicende partigiane, su tutte i massacri di Malga Zonta e di Schio.
Alla Malga Zonta, sull’altopiano di Folgaria, il 12 agosto del 1944, 15 partigiani e tre civili persero la vita durante un combattimento con i tedeschi o vennero fucilati subito dopo la cattura. Meno di un anno dopo, nel luglio 1945, a guerra appena conclusa, partigiani comunisti irruppero nel carcere di Schio e massacrarono 54 persone per vendetta. Due episodi che, letti e collegati ideologicamente tra di loro, finiscono immancabilmente, a ogni commemorazione dell’uno e dell’altro, per innescare tafferugli e disordini fra estremisti radicali di opposte fazioni, della sinistra e della destra. E persino l’intitolazione di un piazzale ai martiri delle foibe titine, com’è successo a Marghera, può riaccendere rancori mai del tutto sopiti.
Tra i centri sociali più strettamente collegati al No al Dal Molin e soprattutto al Gramigna di Padova, ce n’è uno, a Trieste, che ha scelto di chiamarsi Gruppo Primo Maggio 1945: è la data dell’ingresso in città del IX Korpus jugoslavo di Tito. E come il Maresciallo si chiama il suo leader, Tito Detoni: classe 1980, prima di fondare il centro sociale, è stato tra gli animatori di due associazioni dai nomi altrettanto evocativi, Promemoria e Gruppi partigiani. Il passato che non passa, che non diventa mai storia. E che anzi continua a fornire la linfa di cui il mostro ha bisogno per sopravvivere e riprodursi. Subito dopo l’Operazione Tramonto, striscioni di solidarietà con i «compagni arrestati» vengono appesi a Trieste dal Primo Maggio 1945, che organizza anche «presidi spontanei» in vari punti della città e marcia in prima fila, insieme al Gramigna, alla manifestazione organizzata a Milano da Soccorso Rosso Internazionale.
Ma il legame con la tradizione, qui nel Nordest, non ha soltanto valenze simboliche. È la terra stessa a ricordare quanto quel rapporto continui a essere terribilmente concreto. Di tanto in tanto, i boschi, gli argini dei fiumi e l’area delle vette restituiscono arsenali di armi appartenute ai partigiani comunisti e poi agli autonomi e ai brigatisti. Un filo rosso che non si è mai spezzato. E che parte da Porzus, la malga sopra Udine dove nel febbraio del 1945 partigiani comunisti dei Gap massacrarono partigiani anticomunisti della Brigata Osoppo, accusati di intelligenza con il nemico «fascista e borghese». Il responsabile di quella strage, il comandante Mario Toffanin detto Giacca, è più di un’icona per il movimento antagonista e le sue propaggini armate. Un Centro di documentazione proprio a lui intitolato è oggi il luogo in cui la memoria di quei tragici fatti, «infangata dalla propaganda revisionista e borghese», è il motore che continua ad alimentare le pulsioni rivoluzionarie. «Rivoluzione» si chiama il giornale di Padova collegato con il Gramigna. E Quaderni di storia del movimento comunista sono gli opuscoli che pubblica per l’indottrinamento ideologico delle giovani leve. Reati associativi: imparare a difendersi, è il titolo di uno dei primi materiali pubblicati. Poi la collana si è arricchita: Lenin, lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi, Contro il deviazionismo e l’opportunismo di «sinistra», per citarne altri due. E poi, tra quelli annunciati, Saggi sul Marxismo-Leninismo-Maoismo, Storia del movimento comunista e delle rivoluzioni socialiste, Lotte antimperialiste e di liberazione, Controrivoluzione e repressione... Ma la bibbia del movimento è un libretto giallo, in copertina la foto di un gruppo di partigiani con le armi ancora fumanti: è l’Intervista al comandante Giacca, realizzata verso la fine degli anni Novanta, poco prima della sua morte, e pubblicata nel 2005, in occasione del Sessantesimo della vittoria contro il fascismo. Sfogliarlo è molto istruttivo.
Qualche cenno biografico del «compagno Toffanin», padovano, classe 1912. Operaio di un’officina meccanica a Trieste, a diciassette anni si iscrive al Pci. Durante il fascismo, alla vigilia della guerra fugge in Croazia per evitare l’arruolamento. Milita nel Partito comunista jugoslavo, poi rientra in Italia per combattere nelle file della Resistenza. All’epoca della strage di Porzus, comanda sei brigate dei Gap. Per quel fatto, dopo la guerra finisce sotto inchiesta e fugge di nuovo in Jugoslavia. Ma quando Tito rompe con Stalin, anche lui deve scegliere da che parte stare: si schiera con l’Urss ed è costretto a fuggire di nuovo. Questa volta, nell’ottobre del 1949, si stabilisce in Cecoslovacchia, terra d’asilo per centinaia di ex partigiani comunisti italiani ricercati per le vendette consumate nell’immediato dopoguerra. Salvo un accenno alla sua professione di saldatore elettrico, nella biografia ufficiale non c’è alcun riferimento all’attività svolta dal comandante Giacca durante i suoi giorni di permanenza in Cecoslovacchia. Nel 1975 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli concede la grazia, e lui può finalmente rientrare in Italia. Ma quando, vent’anni dopo, si riapre il processo per la strage di Porzus, Toffanin scappa di nuovo all’estero, in Slovenia, dove muore.
Fin qui, la biografia ufficiale curata dal Collettivo propaganda di rivoluzione, la vita da fuggitivo inseguito dalla giustizia italiana e dai fantasmi di un passato rimosso dai libri di storia, ma non dalle coscienze ferite della gente del Nordest. Il credo politico-ideologico dell’uomo, invece, è lo stesso Toffanin a delinearlo nell’intervista, ripercorrendo proprio quel filo rosso che parte da Porzus e, attraverso il durissimo conflitto con le leadership «revisioniste e filoborghesi» del Pci di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, arriva sino alla lotta armata dei decenni successivi. Ecco un brano, tra i più illuminanti, di quell’intervista:
RIVOLUZIONE: Per molti partigiani comunisti la lotta di liberazione doveva arrivare a trasformare l’Italia in una repubblica socialista. Questo non è successo, però la Resistenza ha concesso alla classe operaia di ottenere le conquiste del dopoguerra. Che ne pensi?
GIACCA: La Resistenza ha sicuramente contribuito al miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia dopo la guerra. Proprio perché c’è stata la Resistenza, perché c’erano i comunisti a guidarla, è stato possibile ottenere quei miglioramenti [...] Ma la borghesia continua a sfruttare gli operai. Io sono per la rivoluzione, partirei subito, anche domani, per Udine che la conosco be...

Indice dei contenuti

  1. Terrore a nordest
  2. Copyright
  3. Introduzione
  4. 1. L’idra rossa
  5. 2. L’idra nera
  6. 3. Porzus
  7. 4. «A Trieste con il comandante Borghese»
  8. 5. Il comandante Carlos, il Soccorso Rosso Internazionale e l’Orizzontale Latina
  9. 6. Prove tecniche di «strategia della tensione»
  10. 7. Guerra di spie
  11. 8. La centrale cecoslovacca
  12. 9. L’Ufficio Zone di Confine
  13. 10. Il Soccorso Rosso contro il «Nuovo Ordine Mondiale»
  14. Cronologia
  15. protagonisti
  16. Bibliografia
  17. Sommario