1 Il contesto di riferimento
1.1 Introduzione
Il processo di sviluppo di un nuovo prodotto rappresenta l’insieme di attività che un’impresa pone in essere al fine di tradurre un’idea originale di prodotto in un bene che possa essere commercializzato. La generazione di un’innovazione consiste, pertanto – secondo le definizioni più condivise –, nell’utilizzo di nuova conoscenza o nell’utilizzo originale della competenza esistente al fine di offrire un prodotto (o servizio) le cui nuove caratteristiche o il cui miglioramento prestazionale siano capaci di soddisfare meglio le aspettative del cliente (Porter, 1991).
Rileggendo i contributi apportati dai differenti modelli esplicativi del processo di sviluppo del nuovo prodotto consolidati dagli studiosi della disciplina negli ultimi due decenni, si può osservare un’evoluzione storica dalle originarie logiche razionali di pianificazione delle variabili organizzative e strategiche del processo (Urban e Hauser, 1997; Tushman e O’Really, 1997) verso approcci più orientati alla dimensione cognitiva e alla costruzione di meccanismi di flessibilità e integrazione.
Tale percorso rispecchia inevitabilmente gli orientamenti e i comportamenti della prassi gestionale, che in questo processo è stata costretta, nel medesimo arco temporale, a subire profondi mutamenti, sotto la spinta dell’evoluzione tecnologica e dell’accentuazione delle strategie competitive basate proprio sull’innovazione di prodotto.
Le logiche di divisione scientifica del lavoro all’interno di grandi laboratori accentrati di R&S sono state progressivamente abbandonate perché non più adeguate al contesto ambientale e alle dinamiche competitive; a queste sono subentrate modalità di organizzazione e di gestione del processo di sviluppo del prodotto che premiano la flessibilità, la velocità e la capacità di integrare conoscenze e tecnologie spesso distanti o collaterali alla matrice tecnologica originaria del prodotto.
Il presente capitolo si propone due obiettivi: da un lato, sintetizzare i principali cambiamenti occorsi nelle forme organizzative e nelle prassi gestionali del processo di innovazione e sviluppo del prodotto; dall’altro circoscrivere il contesto di riferimento del presente lavoro, il cui obiettivo primario è sistematizzare le prassi emergenti dell’organizzazione e della gestione del processo di sviluppo del nuovo prodotto e la loro relazione con il fine generale dell’impresa, la creazione di valore.
1.2. Progresso tecnologico e innovazione
Il progresso tecnico-scientifico ha consentito di rendere i fenomeni produttivi autonomi dalle fonti di energia naturali e animali e successivamente di meccanizzarli e automatizzarli. Dal progresso scientifico sono nati nuovi modi di produrre l’energia e il lavoro, nuove modalità di trasmissione delle informazioni, nuovi modi di trasformare le materie prime e anche materiali non esistenti in natura. All’origine stessa dell’attuale e controversa rivoluzione digitale, ad esempio, si pone il progresso delle conoscenze nella scienza dell’informazione, per certi versi essa stessa una nuova forma di energia (Vicari, 2001).
Il progresso scientifico è, dunque, il fondamento dello sviluppo dell’economia dei sistemi nazionali evoluti e delle imprese stesse, ma manifesta i suoi benefici sotto il profilo economico attraverso un successivo fenomeno, l’innovazione appunto, che rappresenta il risultato di un processo di natura più economica che tecnologica.
La relazione tra sviluppo della conoscenza tecnico-scientifica e innovazione non è tuttavia di tipo meccanicistico. Non è possibile infatti asserire che il conseguimento di significativi progressi tecnologici consenta all’impresa di realizzare sempre un’innovazione apprezzata dal mercato e dunque di successo (Ferrata, 1989).
Per lungo tempo, tuttavia, i modelli interpretativi del processo di sviluppo del nuovo prodotto hanno identificato l’innovazione con il risultato della ricerca massiccia di nuove frontiere tecnologiche e ritenuto che l’investimento in attività di R&S fosse l’unica fonte possibile di novità di prodotto. L’imperativo classico delle unità di ricerca industriale è stato dunque per anni dimostrare la loro capacità di generare conoscenza originale e di scoprire nuove tecnologie, assumendo implicitamente che la generazione delle conoscenze consentisse in maniera deterministica l’introduzione sul mercato di innovazioni gradite alla domanda.
La conseguenza sotto il profilo organizzativo è stata ovviamente di creare e premiare percorsi di carriera dedicati alla ricerca, alla scoperta e all’invenzione, con l’implicito effetto di contribuire a diffondere all’interno delle imprese fenomeni tipici di sciovinismo scientifico (o sindrome del not invented here) e di rifiuto delle conoscenze e delle esperienze altrui (Ferrata, 1983).
In termini di assetto strutturale, tre sono state le principali conseguenze:
- le unità di R&S sono state costrette alla crescita dimensionale, fino a livelli di investimento tali da divenire insostenibili per le imprese di dimensioni minori;
- le unità di R&S si sono progressivamente isolate dal resto dell’azienda. La frattura maggiore si è verificata proprio con le funzioni di marketing, il cui linguaggio e le cui interpretazioni del fenomeno innovativo divergevano dall’orientamento tecnologico e meccanicistico;
- il modello di gestione dell’innovazione è stato improntato alla rigida sequenzialità tra le fasi che lo caratterizzano. In particolare, le funzioni tecniche e di R&S assumevano quale logica ispiratrice delle proprie attività la cosiddetta curva a S della tecnologia o curva logistica del progresso tecnologico (Foster, 1986; Ferrata, 1989).
La sequenzialità delle fasi del processo di innovazione e in particolare di sviluppo del nuovo prodotto può essere spiegata attraverso il modello della curva a S della tecnologia, che rappresenta un’interessante chiave di lettura dei fenomeni di generazione della conoscenza scientifica (vedi figura 1.1).
Il presupposto della curva a S è che esista una relazione, non lineare, tra l’entità dell’investimento in ricerca e il progresso registrato lungo la prestazione di una tecnologia (Ferrata, 2000).
Il modello della curva a S ipotizza inoltre – correttamente – che possa esistere un limite allo sviluppo di una tecnologia. Si può trattare di limiti “naturali”, impliciti nelle leggi della chimica e della fisica, o di limiti “esterni”, esogeni alla ricerca vera e propria, ma effetto di orientamenti e mode scientifiche divergenti o di mutamenti nelle politiche di ricerca del sistema industriale, che distolgono l’attenzione dai programmi scientifici e inducono un appiattimento delle prestazioni conseguibili.
Secondo questo modello, esiste una relazione molto precisa tra produttività della ricerca e investimenti di risorse. Nelle prime fasi, spesso esplorative e caratterizzate da elevata incertezza e ampiezza del raggio di azione, la quantità e la qualità delle risorse disponibili sono l’unico acceleratore possibile dei progressi tecnologici. L’investimento nella prima fase del ciclo di sviluppo di una tecnologia, comunemente definita “emergente” o infant, è però estremamente rischioso proprio per la variabilità dei fenomeni e l’incertezza associate alla ricerca, che non consentono stime e proiezioni di risultati affidabili. Nelle fasi successive, invece, il raggio d’azione dell’attività di ricerca è già stato circoscritto e pertanto non solo sono possibili previsioni più credibili sugli sviluppi prestazionali della tecnologia, ma in generale la produttività dell’investimento in ricerca cresce e bilancia i rischi comunque impliciti in queste attività. Ciò è particolarmente vero nella fase di “criticità” di una tecnologia (Ferrata, 1989), ossia in quella centrale del suo ciclo di sviluppo. Le relative attività di ricerca hanno, in questa situazione, superato i vincoli iniziali e hanno individuato la traiettoria scientifica più significativa in termini di risultati conseguibili. Sotto il profilo più strettamente economico, l’investimento in queste attività di ricerca è più conveniente rispetto alle situazioni precedenti: come si può osservare dalla pendenza della curva, i risultati conseguibili dalla tecnologia reagiscono a un incremento dell’investimento con un progresso più che proporzionale rispetto all’incremento di risorse dedicate. Sotto il profilo di mercato, in ultimo, questa tecnologia rappresenta un’interessante opportunità per chi vi investe o per chi la vuole acquisire, poiché non presenta più i livelli di incertezza tipici della fase emergente e, se ne è chiara l’applicazione industriale, può essere effettivamente una fonte di innovazione, incrementale o radicale, di prodotto o di processo produttivo (Ford e Ryan, 1981).
Infine, una tecnologia che registra prestazioni prossime al suo limite superiore, ossia in fase di “consolidamento” o “maturità”, sotto il profilo tecnico presenta relativamente pochi rischi, mentre il suo valore di mercato dovrà essere apprezzato in termini di potenzialità residue della tecnologia, che con buona probabilità è ormai ampiamente diffusa sul mercato delle conoscenze.
FIGURA 1.1 La curva a S della tecnologia
Come detto, il modello della curva a S del ciclo di sviluppo di una tecnologia è, in primo luogo, uno strumento eccellente per la misurazione della produttività delle funzioni di R&S, poiché consente di correlare le risorse economiche investite con i progressi conseguiti sotto il profilo tecnologico.
Proprio quest’ultima considerazione è tuttavia all’origine di molte delle critiche addotte nei confronti della gestione delle attività di R&S industriale secondo le logiche della curva a S.
In primo luogo, essa misura il progresso lungo una sola prestazione della tecnologia e non consente, quindi, di “fotografare” sinteticamente l’evoluzione prestazionale di un prodotto. All’interno di questo, infatti, confluiscono più tecnologie e l’innovazione potrebbe consistere non tanto nel trasferimento sul prodotto dello stato dell’arte di una tecnologia, ma nel mix e nella sinergia tra prestazioni “intermedie” di diverse tecnologie.
Ad esempio, nel campo delle fibre tessili sintetiche possono essere rappresentate differenti curve a S delle tecnologie, relative ad esempio alle caratteristiche del titolo, alla velocità di asciugatura, alla resistenza agli sfregamenti e all’assorbimento di umidità. L’innovazione percepita dal cliente è tuttavia la risultante di una combinazione tra tutte queste, che negli anni più recenti, ad esempio, si traduce in un concetto di fibra sempre più simile per qualità e prestazioni alle fibre naturali.
Non solo la curva a S è inadeguata a rappresentare idealmente il progresso delle prestazioni del “prodotto” se non per viste logiche parziali, ma non consente nemmeno di sintetizzare il ritardo temporale che frequentemente occorre tra il conseguimento della prestazione tecnologica e la traduzione di questa in nuovo prodotto, che è all’origine della riduzione del contributo della R&S alla creazione di valore per l’impresa.
Di fatto, le aziende e i centri di ricerca si ritrovano spesso, per ragioni diverse, a fare magazzino di “tecnologie” o a non poter rilasciare il contenuto tecnologico originale sui prodotti e sui modi di produzione. Il contributo delle attività di R&S alla creazione del valore si manifesta infatti in due fasi che possono essere distinte, sia nello spazio sia nel tempo sia, infine, nel soggetto che le esegue. La prima fase è detta di “produzione” (Gibbons,1994; Baglieri, 1997) o “generazione” delle conoscenze (Chiesa et al., 2000) e rappresenta l’insieme delle attività nelle quali l’output della spesa di R&S si manifesta sotto forma di progresso delle prestazioni delle tecnologie, come detto rappresentabili attraverso la curva a S. La seconda fase è detta di “transizione” (Baglieri, 1997; Chiesa et al., 2000) e si manifesta nel momento del trasferimento dello stato della conoscenza sul prodotto o sul processo produttivo. Essa rappresenta l’insieme delle attività attraverso le quali si realizza la vera e propria innovazione, sia essa radicale o incrementale (Ferrata, 1989). Ebbene, tra queste due macro-fasi si realizza frequentemente un ritardo, le cui spiegazioni possono essere sia di natura tecnologica, sia di volontà strategica, sia infine di asimmetria informativa.
In primo luogo, il ritrovato scientifico, ad esempio, potrebbe richiedere lo sviluppo di tecnologie complementari, senza le quali l’incorporazione nel prodotto della nuova tecnologia risulta complesso o inefficace. Si pensi allo sviluppo di una soluzione tecnologica originale come il cosiddetto space frame nella costruzione delle automobili, che consente di sostituire l’attuale carrozzeria portante con un telaio tubolare. Ciò permette di differenziare il prodotto sotto il profilo estetico e funzionale a costi molto più contenuti e di generare sul mercato una personalizzazione più spinta ed economicamente sostenibile anche per volumi molto ridotti, poiché viene meno l’esigenza dell’ammortamento degli investimenti per lo stampaggio e la lavorazione delle lamiere. Questa tecnologia oggi incontra ancora molti ostacoli legati alla piena conoscenza delle caratteristiche e dei limiti di sollecitazione meccanica e strutturale degli snodi, ossia dei punti di connessione tra i diversi elementi del frame, in particolare al variare del materiale utilizzato (acciaio o alluminio).
In secondo luogo, la nuova tecnologia, pur essendo superiore sotto il profilo delle prestazioni, potrebbe non essere percepita come interessante dal mercato o, determinando l’obsolescenza accelerata del prodotto precedente, rappresentare un rischio per l’impresa e non essere quindi allineata con i piani commerciali dell’azienda (Mowery e Rosenberg, 1978). L’impresa potrebbe, inoltre, decidere di non accelerare il processo di transizione della tecnologia sul prodotto per ragioni di “difendibilità” della nuova tecnologia (ad esempio in assenza delle opportune coperture brevettuali) o per incoerenza tra il prodotto e le strategie competitive e di marketing tipiche dell’impresa (ad esempio, perché la tecnologia costringerebbe l’azienda a una defocalizzazione rispetto al mercato tradizionalmente servito).
In ultimo, non si dimentichi che una causa frequente di mismatching tra “generazione” della conoscenza e “transizione” della stessa è che le fonti della tecnologia possono non coincidere con gli utilizzatori della stessa.
L’asimmetria informativa tra offerta di soluzioni tecnologiche e domanda di tecnologia può aver luogo paradossalmente anche all’interno della stessa azienda ed è tanto più frequente quanto più le unità di R&S risultano appunto isolate ed emarginate dagli altri processi aziendali.
Assumendo quale parametro di riferimento della produttività i progressi registrati lungo la curva a S delle tecnologie possedute, un’unità di R&S potrebbe registrare quindi performance estremamente interessanti, ma allo stesso tempo non contribuire affatto alla creazione del valore per l’impresa, generando cioè molta “tecnologia” che per fenomeni di incoerenza diversi si traduce in un eccesso di “giacenze” di soluzioni.
Il modello sinora descritto pone inoltre grande fiducia nel fenomeno della serendipity, ossia nella casualità della scoperta e dell’invenzione, dalla quale poi la genialità e l’intuito di manager e imprenditori sa cogliere le potenzialità di mercato offerte dalla tecnologia. L’approccio cosiddetto esplorativo all’innovazione, tuttavia, si presenta estremamente costoso, soggetto a una notevole mortalità dei progetti in fase av...