I giorni della gloria
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I giorni della gloria

  1. 944 pagine
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I giorni della gloria

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Informazioni sul libro

Anche in questo romanzo capeggiano le indimenticabili figure di Caio Mario e Lucio Cornelio Silla. Intorno a loro l'autrice innalza e anima un'intera città, faro di civiltà e al tempo stesso ricettacolo di corruzione. Una Roma in espansione, qui magistralmente e fedelmente descritta, è lo sfondo di questa avvincente epopea di amore e infedeltà, di avvelenamenti e tradimenti.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858651223

II

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LIVIA DRUSA
LIVIA DRUSA
«Andrò a Smirne a riprendere la mia fortuna» disse Quinto Servilio Cepione a suo cognato, Marco Livio Druso, mentre tornavano a casa dal Foro Romano.
Druso si fermò, una delle nere sopracciglia appuntite era rivolta verso l’alto. «Oh! Pensi che sia saggio?» chiese, e subito dopo avrebbe voluto staccarsi con un morso la lingua, ignara di cosa fosse il tatto.
«Cosa intendi con “saggio”?» domandò Cepione, con uno sguardo combattivo.
La mano di Druso fermò il braccio destro di Cepione. «Esattamente quello che ho detto, Quinto. Io non sto sostenendo che la tua fortuna a Smirne è l’Oro di Tolosa, né, del resto, che tuo padre abbia rubato l’Oro di Tolosa! Ma resta il fatto che quasi tutta Roma crede alla colpevolezza di tuo padre e crede anche che la fortuna a tuo nome a Smirne sia davvero l’Oro di Tolosa. Ai vecchi tempi, riportarla indietro non ti avrebbe procurato nient’altro che occhiatacce e un odio tale da procurarti qualche difficoltà nella carriera politica. Ma oggi sulle tavolette vi è una lex Servilia Glaucia de repetundis, non dimenticarlo. Il tempo in cui un governatore poteva commettere peculato o perpetrare estorsioni e vedere al sicuro il bottino ottenuto perché registrava tutto con il nome di un altro è ormai lontano. La legge di Glaucia tratta specificamente del recupero di denaro acquisito illegalmente tanto dai loro possessori finali quanto dalla parte colpevole. Utilizzare lo zio Lucio Faccia da ubriaco non funziona più.»
«Ti ricordo che la legge di Glaucia non è retroattiva» ribatté Cepione con fermezza.
«Basterà un tribuno della plebe con desideri di vendetta, un appello all’Assemblea della Plebe per rendere nulla quella particolare scappatoia, e scoprirai che la lex Servilia Glaucia è retroattiva» disse Druso con altrettanta sicurezza. «È così, cognato Quinto, pensaci! Non voglio vedere mia sorella e i suoi figli privati sia del paterfamilias sia della fortuna, né desidero vederti invecchiare in esilio a Smirne.»
«Perché è proprio mio padre che hanno scelto?» domandò Cepione irritato. «Guarda Metello Numidico! Ritornato a Roma è stato coperto di gloria, mentre mio padre è morto in esilio!»
«Sappiamo entrambi perché» rispose Druso pazientemente, desiderando, per la millesima volta almeno, che Cepione fosse più intelligente. «Gli uomini che guidano l’Assemblea della Plebe possono perdonare qualsiasi cosa a un nobile di livello elevato, specialmente dopo che è trascorso un po’ di tempo. Ma l’Oro di Tolosa era unico. E per giunta è scomparso mentre era sotto la custodia di tuo padre. Più oro di quanto ve ne sia nell’Erario di Roma! Una volta che tutti si sono messi in testa che è stato tuo padre a prenderlo, hanno provato per lui un odio che non ha nulla a che fare con il diritto, la giustizia o il patriottismo.» Druso ricominciò a camminare e Cepione lo seguì. «Pensaci bene, Quinto, te ne prego! Se le somme di denaro che porti a casa saranno anche solo il dieci per cento dell’Oro di Tolosa, l’intera Roma dirà che tuo padre l’ha preso, e che tu l’hai ereditato.»
Cepione cominciò ridere. «Non lo faranno» disse con sicurezza. «Ho già pensato a tutto, Marco. Mi ci sono voluti tutti questi anni per risolvere il problema, ma ci sono riuscito. Davvero!»
«Come?» chiese Druso in tono scettico.
«Prima di tutto, nessuno tranne te sa dove sono diretto veramente e che cosa sto realmente facendo. Tutto quello che Roma saprà – e tutto quello che Livia Drusa e Servilia Cepionide sapranno – è che mi trovo nella Gallia Transpadana, a compiere approfonditi studi sulle proprietà. Parlo di questo da mesi e nessuno ne sarà sorpreso, né si prenderà la briga di fare indagini. Perché dovrebbero, quando io ho deliberatamente arringato il popolo con i miei piani per la costruzione di intere città piene di fonderie in grado di produrre qualsiasi cosa, dai vomeri alle corazze a maglia? Ed essendo questo l’aspetto che più mi interessa del progetto, nessuno può criticare la mia integrità senatoriale. Lasciamo ad altri la gestione delle fonderie, a me basta possedere le città!»
Cepione sembrava così entusiasta che Druso (che non aveva quasi mai sentito il cognato esprimersi sull’argomento, poiché quasi mai aveva ascoltato) lo fissò sorpreso.
«Lo dici come se volessi davvero farlo» esclamò Druso.
«Oh, è così. Le città-fonderia non rappresentano che una delle molte cose in cui intendo investire il mio denaro da Smirne. Poiché terrò i miei investimenti in territori italici anziché nella stessa Roma, non ci sarà nessuna nuova somma di denaro che entra nei traffici della città. Né penso che l’Erario sarà così intelligente – oppure non avrà il tempo – da scoprire cosa e quanto io investirò in imprese commerciali lontano dalla città di Roma» esclamò Cepione.
L’espressione di Druso si era mutata in stupore. «Quinto Servilio, sono sbalordito! Non pensavo tu nascondessi tanta astuzia in te» disse.
«Sapevo che ti avrei stupito...» ribatté Cepione con compiacimento, rovinando poi l’effetto aggiungendo: «sebbene devo ammettere di avere ricevuto una lettera da mio padre non molto tempo prima che morisse, nella quale mi diceva cosa dovevo fare. C’è un’enorme quantità di denaro a Smirne.»
«Sì, lo immagino» replicò seccamente Druso.
«No, non è l’Oro di Tolosa!» gridò Cepione, protendendo le mani. «È la fortuna di mia madre e di mio padre! È stato abbastanza furbo da trasferire i suoi soldi prima che gli intentassero giudizio, nonostante le misure attuate da quel presuntuoso cunnus di Norbanus per impedirgli di farlo, come schiaffare mio padre in prigione fra il processo e l’esilio. Parte del denaro è stato restituito a Roma, nel corso degli anni, ma non abbastanza perché se ne parlasse. E per questo motivo – come tu stesso saprai! – che conduco una vita modesta.»
«Certo, lo so» disse Druso, che ospitava il cognato e la sua famiglia da quando Cepione il Vecchio era stato giudicato colpevole. «Però c’è una cosa che non mi è chiara. Perché non lasciare semplicemente la tua fortuna a Smirne?»
«Non posso» rispose subito Cepione. «Mio padre diceva che non sarebbe stata sicura per sempre a Smirne, né in qualsiasi altra città della Provincia d’Asia dove esistessero attività bancarie adeguate, come Coo, o anche Rodi. E poi sosteneva che la Provincia d’Asia si sarebbe ribellata a Roma. Diceva che gli appaltatori dei tributi in quella Provincia avevano fatto odiare Roma a tutti. Diceva che prima o poi l’intera Provincia sarebbe insorta.»
«Se lo farà, la reprimeremo in poco tempo» disse Druso.
«Sì, lo so! Ma, nel frattempo, pensi che tutto l’oro e l’argento e le monete e i tesori che si trovano in deposito in quella Provincia d’Asia se ne staranno là protetti e sicuri? Mio padre diceva che la prima cosa che i ribelli avrebbero fatto sarebbe stata quella di saccheggiare i templi e le banche» ribatté Cepione.
Druso annuì. «Probabilmente è vero. Così sposterai il tuo denaro. Ma nella Gallia italica
«Solo una parte, solo una parte. Una fetta andrà in Campania, una in Umbria e una in Etruria. Poi ci sono luoghi come Massilia, Utica e Cadice... una parte andrà anche lì. Su fino all’estremità occidentale del Mediterraneo.»
«Perché non ammetti la verità, Quinto, almeno con me, tuo cognato?» domandò Druso leggermente seccato. «Tua sorella è mia moglie e mia sorella è tua moglie. Siamo così legati che non ci libereremo mai l’uno dall’altro. Allora ammettilo, almeno con me! È l’Oro di Tolosa?»
«Non è l’Oro di Tolosa» rispose Quinto Servilio Cepione, ostinatamente.
“È duro di comprendonio...” pensò Marco Livio Druso, precedendo il cognato nel peristilio della sua casa, la più bella dimora di Roma “duro come la farinata quando è rimasta troppo a bollire. Eppure... Eccolo lì, seduto su quindicimila talenti d’oro che suo padre ha trafugato dalla Spagna a Smirne otto anni fa, fingendo che fossero stati rubati durante il viaggio da Tolosa a Narbona. Una coorte di valenti soldati romani è morta mentre era a guardia del trasporto di carri pieni d’oro, ma che gli importa? Importava forse qualcosa a suo padre, che deve avere organizzato l’intero massacro? Naturalmente no! Tutto ciò che gli interessa è il loro prezioso oro. Sono dei Servilii Cepioni, i re Mida di Roma, non li si può scuotere dalla loro apatia intellettuale, a meno che qualcuno non bisbigli loro all’orecchio la parola oro.”
Era il gennaio dell’anno in cui Gneo Cornelio Lentulo e Publio Licinio Crasso erano consoli, e i cespugli del loto nel giardino di Livio Druso erano spogli, sebbene la bellissima vasca e le sue statue e fontane di Mirone fossero ancora in funzione, grazie all’acqua calda convogliata lungo le tubature. I dipinti di Apelle, Zeusi, Timante e altri erano stati spostati dalle pareti posteriori del colonnato e messi in magazzino un paio di settimane prima, dopo che le due figlie di Cepione erano state sorprese a ricoprirli di pigmenti presi dall’attrezzatura di due artisti che allora stavano restaurando gli affreschi dell’atrio. Le due piccole pesti erano state picchiate a dovere, ma Druso aveva ritenuto più prudente eliminare la tentazione. Le opere d’arte di valore inestimabile come quelle si trovavano più al sicuro se non erano esposte in case dove c’erano dei bambini. Non pensava che Servilia e Servililla avrebbero mai più fatto una cosa simile, ma ci sarebbero stati altri figli.
Finalmente aveva una famiglia, sebbene non come avrebbe sperato. Per un qualche motivo Servilia Cepionide e lui sembravano non potere avere bambini. Due anni prima avevano adottato il figlio minore di Tiberio Claudio Nerone, un uomo impoverito quanto la maggior parte dei Claudi e felicissimo di affidare il suo ultimo nato perché divenisse l’erede della fortuna di Livio Druso. L’usanza più consueta era di adottare un primogenito, in modo che la famiglia che accoglieva il piccolo fosse sicura che questi era in buona salute, mentale e fisica, di indole buona e ragionevolmente intelligente; ma Servilia Cepionide, che moriva dal desiderio di avere un bambino, aveva insistito perché adottassero un neonato. E Marco Livio Druso – che aveva imparato ad amare affettuosamente la moglie – decise di accontentarla. Per placare i propri dubbi fece una generosa offerta a Mater Matuta, ottenendo l’appoggio della dea perché gli assicurasse che il bambino si dimostrasse una scelta soddisfacente quando fosse cresciuto.
Le donne erano assieme nella stanza di soggiorno che confinava con la stanza dei bambini e vennero a salutare i loro uomini con grande gioia. Sebbene fossero solo cognate, sembravano piuttosto sorelle, essendo entrambe di bassa statura, di capelli e occhi scurissimi e di lineamenti minuti e regolari. Livia Drusa – la moglie di Copione – era la più bella fra le due, essendo sfuggita al difetto, comune alla sua famiglia, delle gambe corte; inoltre rispondeva a tutti i criteri di bellezza femminile poiché i suoi occhi erano molto grandi, ben distanziati e franchi, mentre la bocca era minuta, racchiusa come un fiore. Il naso era un po’ piccolo, come piaceva agli intenditori, e non era perfettamente diritto, ma terminava con un piccolo rigonfiamento. Aveva una pelle compatta e morbida, vita sottile, seno e fianchi ampi e ben torniti. Servilia Cepionide – la moglie di Druso – era una versione più minuta di Livia Drusa; aveva però il viso foruncoloso e le gambe corte rispetto al tronco, così come il collo.
Ciononostante, era Marco Livio Druso che amava la propria moglie, meno bella, mentre Quinto Servilio Cepione non amava la propria, più graziosa. All’epoca dei due matrimoni, otto anni prima, la situazione era capovolta. Sebbene nessuno dei due uomini l’avesse notato, la differenza era dovuta alle due donne: Livia Drusa aveva provato una profonda avversione per Cepione ed era stata obbligata a sposarlo, mentre Servilia Cepionide era innamorata di Druso fin dall’infanzia. Appartenenti alla più elevata nobiltà di Roma, entrambe erano mogli modello di vecchio stile: obbedienti, sottomesse, miti, rispettose in ogni occasione. Poi, a mano a mano che gli anni passavano e in ciascuna era subentrato un certo grado di conoscenza e familiarità, l’indifferenza di Marco Livio Druso era venuta sciogliendosi a contatto con la costante fiamma dell’affetto della moglie, con l’ardore crescente che lei dimostrava nel letto coniugale, ed entrambi ora soffrivano per la mancanza di bambini; al contrario, l’adorazione inespressa di Quinto Servilio Cepione fu soffocata dalla tacita avversione della moglie, dalla crescente freddezza che dimostrava a letto e dal risentimento dovuto al fatto che i figli fossero due femmine e non ne fossero seguiti altri.
Una visita alla stanza dei bambini era obbligatoria, naturalmente. Druso salutò con grandi effusioni il suo paffuto bambino dal viso scuro, Druso Nerone, che aveva quasi due anni. Cepione, invece, fece solo un cenno di saluto alle sue figlie, che si appiattirono timorose contro la parete senza fiatare. Erano due copie in miniatura della madre – stessa carnagione scura, stessi occhi grandi, stessa bocca a bocciolo – e avevano tutto il fascino delle ragazzine, se solo il padre si fosse degnato di guardarle. Servilia aveva quasi sette anni e aveva appreso molto dalle botte che si era buscata per aver deciso di migliorare il cavallo di Apelle e il grappolo d’uva di Zeusi. Prima d’allora non le aveva mai prese e aveva trovato quell’esperienza più umiliante che dolorosa, più irritante che istruttiva. Lilla, d’altro canto, era un vero e proprio monellaccio: irrefrenabile, risoluta, aggressiva e impulsiva. Lei, le busse che aveva preso, le aveva prontamente dimenticate, ma le erano servite a farle nascere un salutare rispetto per il padre.
I quattro adulti si spostarono nel triclinium per cenarvi.
«Quinto Poppedio non viene, Cratippo?» chiese Druso al suo servitore.
«Non ho ricevuto alcun messaggio che dica che non verrà, domine.»
«In tal caso aspetteremo» disse Druso, ignorando deliberatamente lo sguardo ostile lanciatogli da Cepione.
Questi, però, non voleva essere ignorato. «Perché sopporti quell’essere spaventoso, Marco Livio?» chiese.
Gli occhi che Druso volse verso il cognato erano di pietra. «Alcuni, Quinto Servilio, mi chiedono la stessa cosa di te» ribatté con un tono di voce piatto.
Livia Drusa rimase senza fiato e trattenne a stento una risatina nervosa; tuttavia, come Druso si era aspettato, la frase passò sopra la testa di Cepione. «Perché lo sopporti?»
«Perché è mio amico.»
«La tua sanguisuga, dovresti dire!» grugnì Cepione. «Davvero, Marco Livio, prospera a tue spese. Arriva sempre senza avvisare, è sempre lì a chiedere dei favori, sempre a lamentarsi di noi Romani. Chi crede di essere?»
«Pensa di essere un italico dei Marsi» rispose una voce allegra. «Scusa il ritardo, Marco Livio, ma dovevate cominciare senza di me, come ho detto altre volte. La mia scusa per il ritardo è ineccepibile: sono stato in piedi immobile mentre Catulo Cesare mi sottoponeva a una lunga lettura delle perfidie degli Italici.»
Silone si sedette sull’orlo posteriore del divano su cui Druso stava disteso e uno degli schiavi gli tolse i calzari e gli lavò i piedi; quindi gli infilò un paio di socchi. Quando si girò flessuosamente per accomodarsi sul divano occupò il locus consularis, il posto d’onore alla sinistra di Druso; Cepione era disteso sul giaciglio ad angolo retto rispetto a quello di Druso, una posizione meno onorevole, poiché faceva parte della famiglia e non era un ospite di Druso.
«Ci lamentiamo di nuovo di me, Quinto Servilio?» chiese Silone, per nulla preoccupato, sollevando un sottile sopracciglio verso Druso e ammiccando.
Druso fece un largo sorriso, gli occhi fissi su Quinto Poppedio Silone colmi di affetto. «Mio cognato si lamenta sempre di qualcosa, Quinto Poppedio. Non badarci.»
«Non ci bado» disse Silone, chinando la testa in un saluto alle due donne che occupavano due sedie di fronte ai divani dei mariti.


Si erano incontrati sul campo di battaglia di Arausio, Druso e Silone, dopo che la battaglia era terminata e ottantamila sold...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NOTA DELL’AUTORE
  4. Dedica
  5. PERSONAGGI PRINCIPALI
  6. I
  7. II
  8. III
  9. IV
  10. V
  11. VI
  12. VII
  13. VIII
  14. IX
  15. X