II
L’eroe omerico e l’altro da sé
2.1 L’unità dell’Iliade
Iliade, non Achilleide: mentre i titoli degli altri due poemi proclamano un’identità personale esclusiva, quello dell’Iliade sembra entrare in conflitto con la forza categorica del proemio, e in particolare dell’incipit (“Canta, Musa divina, l’ira di Achille, figlio di Peleo”),100 per suggerire possibili dubbi su un protagonista che è fuori del discorso narrativo per larghi tratti del poema: nella fattispecie nei libri dal secondo all’ottavo, incorniciati dalle due grandi evenienze della menis, il compiersi dell’offesa nel primo e il fallimento della riparazione nel nono; e poi ancora nei libri dal decimo al quindicesimo, che raccontano il precipitare della crisi militare dei Greci, con l’aggiunta del diciassettesimo, dove i Greci combattono, senza successo, per restituire ad Achille il corpo dell’amico.
Ma l’unità del poema epico non è la vertiginosa e feroce concentrazione della tragedia, che per queste caratteristiche Aristotele infatti le preferiva; è piuttosto la trama vasta, diffusa e articolata che Hegel definisce “totalità degli oggetti”, sempre in opposizione all’universo drammatico, definito come “totalità del movimento”.
In questo quadro, più che attuarsi quel piacere della narrazione infinita di cui si è favoleggiato, si attua una dialettica tra ridondanza e significazione, dove le relazioni delle parti col tutto o col centro della vicenda sono discrete o addirittura implicite; ma si attua anche uno splendido paradosso, per cui se è vero che l’assenza di Achille dalla battaglia ne determina, prima ancora che l’esito sfavorevole per i Greci, la riproposizione in termini inusitati, anche la sua correlativa assenza dal testo è a sua volta una funzione del testo: la mancanza dell’eroe, il vuoto, il rimpianto (la parola greca è pothos) non contano meno dell’affollarsi di movimenti e fatti di sangue, all’interno di una rappresentazione che è ancora in qualche modo ex silentio la rappresentazione della menis – vale a dire della diversità di Achille e del suo impatto col mondo degli uomini comuni.
La presenza dell’assente è letterale nel catalogo delle navi, dove i suoi Mirmidoni figurano al posto che compete loro nell’ordine geografico (II 681-694), ma vengono coinvolti nel ritiro dal combattimento, appena temperato dalla fiducia che esso possa essere temporaneo. Ma concluso il catalogo, la gerarchia che lo riassume, e che individua il migliore guerriero e i migliori cavalli in attività, li indica rispettivamente in Aiace Telamonio e nelle cavalle di Eumelo, precisando però che in entrambi i casi è indiscutibile la superiorità di Achille e dei suoi cavalli immortali (II 760-770); un terzo primato era stato ribadito in precedenza quando dell’oscuro Nireo, capo dell’altrettanto oscuro contingente di Sime, era stato detto che era il più bello dei Greci dopo Achille (II 673-674).
Appena prima, peraltro, Agamennone, complimentando Nestore che gli ha fornito buoni consigli di organizzazione militare e di schieramento, esprime la speranza di una riconciliazione con Achille, alla quale soltanto vede legata la vittoria definitiva su Troia, e si assume in sostanza la responsabilità di quanto è avvenuto (“sono stato il primo alla collera”101, II 378).
Il terzo libro è il solo di tutto il poema in cui Achille non viene mai nominato; e si capisce, perché con il duello tra Paride e Menelao, a cui viene affidata, in base a patti solenni, la soluzione e cioè la fine della guerra, i caratteri della guerra stessa sono profondamente alterati, perdendo quelli in cui si esplica l’attività di Achille, la conquista della gloria e del bottino, e riducendo il conflitto a controversia privata. È in realtà una diversione narrativa, perché il destino di Troia, marcato dalla implacabilità delle dee nemiche, non permette una soluzione pacifica: la trama divina porta dunque a ferire Menelao, invano vincitore del duello, e a restaurare la battaglia campale. A quel punto l’assenza di Achille è il principale argomento con cui Apollo esorta i Troiani a non cedere a un primo successo greco (IV 512-513); nel campo opposto sempre Era, scesa a soccorrere i suoi, prende a prestito la voce di Stentore per rimproverare loro il mutamento di fronte avvenuto col ritiro di Achille, per cui i Greci sono ridotti sulla difensiva (V 788-789). Lo stesso farà Poseidone, travestito da Calcante, intervenendo a sostenere i Greci quando già i Troiani hanno dato l’assalto alle loro fortificazioni difensive (XIII 99-107), e una seconda volta, dopo che il Sonno ha addormentato Zeus consentendo l’azione degli dèi filogreci, intervenendo per esortare i soldati – apparentemente in prima persona, senza bisogno di travestimenti – a combattere in modo da non dover troppo rimpiangere Achille (XIV 366-369).
Il silenzio con cui i Greci accolgono la sfida cavalleresca di Ettore nel VII libro, 91-94, è anch’esso gravido della grande assenza, anche se il nome di Achille è adoperato solo da Agamennone per distogliere Menelao dall’affrontare la sfida, con l’osservazione strumentale e infondata che di Ettore anche Achille ha paura (VII 113-114); potrà essere invece fatto alto e forte da Aiace, una volta che la rampogna di Nestore ha ottenuto l’effetto di risvegliare l’onore dei capi greci (VII 226-228).
Dopo il fallimento dell’ambasciata, nella stessa agitatissima notte in cui i maggiorenti tornano a riunirsi, e in cui di nuovo Nestore condiziona le speranze greche alla conciliazione con Achille (X 105-107), si svolge la missione esplorativa di Odisseo e Diomede, in cui Achille è evocato col massimo di incongruità ironica: la spia troiana Dolone, intercettata e uccisa dai Greci, ha chiesto infatti per compenso della sua missione i suoi cavalli divini: un desiderio cieco per la grottesca sproporzione di merito (sottolineata con ironia da Odisseo a X 401-404), ma anche perché sembra ignorare la lite fra i capi greci.
Il giorno dopo si apre la battaglia più grande e definitiva: una successione di scontri senza respiro rispetto ai quali ha effetto di sorpresa l’apparire di Achille, spettatore interessato, che chiede a Patroclo di informarsi sull’identità di un ferito in cui ha riconosciuto, senza esserne certo, il medico Macaone (XI 599-615). Qui incongruità e straniamento risultano dal capovolgimento delle rappresentazioni ormai consolidate, per cui Achille, assente ed emotivamente lontano, aveva funzione di icona dell’angoscia o della speranza; all’improvviso invece riemerge la sua vicinanza fisica, suggerendo di nuovo e di nuovo allontanando il miraggio della riconciliazione: Achille infatti si limita a dire che nel peggioramento della situazione si aspetta che i Greci verranno a supplicarlo (XI 609-610).
Ma il suo interessamento avvia il processo decisivo degli eventi; la missione informativa di Patroclo si trasforma infatti in un dialogo con Nestore dal quale emerge il compromesso che Achille potrà accettare: che non lui, ma Patroclo vestito delle sue armi, e inducendo quindi l’equivoco di persona nei Troiani, intervenga in battaglia per allentare la pressione cui i Greci sono sottoposti.
Nella descrizione in apparenza neutra dell’ambiente cordiale in cui si svolge l’incontro tra Nestore e Patroclo, il narratore introduce con coperta sapienza l’informazione che l’ancella di Nestore, che serve loro da bere con una perizia analiticamente descritta, è stata catturata nella conquista di Tenedo, opera di Achille (XI 625): l’assente è onnipresente nelle conseguenze e nei frutti della sua attività, e la sua accusa di ingratitudine ai capi greci che lo hanno lasciato solo nella disputa con Agamennone ne viene avvalorata.
Si può concludere questa rapida e non esaustiva rassegna con l’elemento anomalo che contribuisce a definire per via contrastiva la compattezza del quadro: c’è nell’esercito greco qualcuno che non si sente orfano di Achille, e questo qualcuno è Diomede, che addirittura disapprova l’ambasciata, sia pure a posteriori, vale a dire dopo il suo fallimento, prendendo la parola nell’accresciuto sgomento dei Greci (IX 697-700):
Gloriosissimo figlio di Atreo, Agamennone capo d’eserciti,
non avessi tu mai supplicato il grande figlio di Peleo
offrendogli infiniti doni; già è fin troppo superbo,
e ora gli hai dato ancor più ragione d’orgoglio.102
Diomede ritiene di non aver bisogno di Achille perché, come Achille, ritiene di non aver bisogno di nessuno: non a caso, quando Agamennone, sfiduciato per il successo nemico, propone la fuga, Diomede reagisce irosamente, ribadendo la sua intenzione di restare a combattere, anche se tutti gli altri fossero partiti (IX 48-49):
Ma noi, io e Stenelo, resteremo a combattere
finché otterremo la fine di Troia. Siamo venuti col favore
[di un dio.103
Si ricorderà l’analogo gesto di Achille a XVI 97-100, con P...