Una donna per soldato
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Una donna per soldato

Diario di una tenente italiana in Libano

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Una donna per soldato

Diario di una tenente italiana in Libano

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Nell'estate del 2006, al termine della Guerra dei trentatré giorni, i caschi blu dell'Onu giungono nel Sud del Libano per vigilare sulla fragile pace tra Israele e il Paese dei cedri. All'Italia è affidato il comando della missione: un compito difficile, fatto di continue pattuglie, incontri con i leader locali, assistenza alla popolazione, attentati sventati. Tra i soldati che toccano il suolo libanese anche alcune soldatesse, come la tenente Marina Catena, che arriva alla base di Tibnin nel maggio del 2007. Ma che cosa ci fanno delle donne al fronte? Cosa c'entrano con la guerra e con la pace? Che differenza possono fare nell'esercito oggi? Sono solo alcune delle domande che si trovano in questo diario, nato dall'intensità della vita in prima linea e dall'esigenza di affidare alle parole non solo una quotidianità così speciale, ma anche pensieri, ricordi, segreti, racconti e immagini degli straordinari legami che nascono, durante le missioni, tra commilitoni e con la popolazione locale. Una testimonianza importante, che ci parla delle operazioni di peacekeeping e di un esercito che cambia. Un ritratto appassionato dei nostri militari, un reportage sul Libano, che del Paese ci fa assaporare i colori, le atmosfere, gli odori, la gente. Una storia personale, che è soprattutto una riflessione sulle motivazioni di una scelta coraggiosa, sulla sfida e la bellezza di una vita "senza frontiere".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858651810

Tutta colpa di Guglielmo Marconi

Picchetto d’onore per la sessantunesima festa della Repubblica. Siamo tutti schierati davanti alla bandiera italiana, a quella Onu e a quella libanese. Il sole picchia forte, in questa mattina di giugno, qui alla base Ficuciello di Tibnin. Il colonnello Maurizio Petriccione, con quella voce profonda che si impara per comandare, impartisce gli ordini allo schieramento pronto per la cerimonia: «Brigata Folgore, at-tenti!».
È strano vedere centinaia di paracadutisti con il basco blu. Tradizionalmente indossiamo quello amaranto simbolo dei paracadutisti, ma questa è una missione Onu e il basco azzurro è il nostro lasciapassare. Eppure alcuni di noi sono talmente affezionati a quel copricapo che, pur di averlo vicino, lo tengono di straforo anche qui, nascosto in una tasca della mimetica.
Brigata dalla storia leggendaria, la Folgore nacque nel 1941 ed ebbe il suo battesimo di fuoco in Africa Settentrionale, «consumata ma non vinta» nella terribile battaglia di El Alamein, dove gli inglesi le tributarono l’onore delle armi. Il 3 dicembre del 1942 la radio inglese annunciò: «Gli ultimi superstiti della Folgore sono stati raccolti, esanimi e con le armi in pugno. Nessuno si è arreso. Nessuno si è fatto disarmare». E lo stesso Winston Churchill, il 21 novembre 1942, nel suo discorso alla Camera dei comuni, affermò: «Dobbiamo inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore».
Per qualcuno, il Libano è un ritorno alla giovinezza. Alcuni erano già stati qui con l’operazione Italcon I (23 agosto – 11 settembre 1982) quando, su richiesta del governo libanese, il contingente composto da novecento bersaglieri assicurò l’incolumità fisica delle migliaia di profughi palestinesi in partenza da Beirut verso il confine con la Siria.
Nemmeno il tempo di rientrare e un evento drammatico scosse l’intero Paese. Il 16 settembre del 1982 un attacco compiuto dalle milizie cristiane libanesi contro i campi profughi di Sabra e Chatila provocò una strage di donne, uomini e bambini palestinesi. La comunità internazionale era sconvolta e l’Onu decise l’invio di una missione internazionale composta da contingenti di vari Paesi, tra cui l’Italia, al fine di ristabilire l’autorità del governo libanese in una Beirut insanguinata dall’eccidio. Partiva così l’operazione Italcon II (24 settembre 1982 – 6 marzo 1984), comandata dal generale di brigata Franco Angioni. Il 15 marzo, in un attentato contro una pattuglia italiana, morì Filippo Montesi, vent’anni, militare di leva del battaglione San Marco. Era il primo caduto italiano in guerra dopo quarant’anni di pace.
«Come Folgore dal cielo, come nembo di tempesta», è il nostro motto. La folgore gialla e due ali stilizzate in campo azzurro, lo stemma. Mentre i militari delle altre brigate portano sul lato sinistro lo strap con il cognome, noi ne portiamo uno uguale per tutti con su scritto «Folgore». I primi giorni, i militari degli altri contingenti ci volevano chiamare per nome e dicevano a tutti: «Buongiorno, tenente Folgore, come va capitano Folgore». Solo dopo un po’ hanno capito che quello non è il nostro cognome, ma il nome della brigata. «Pensavo che voi italiani foste tutti parenti», mi ha detto un sergente ghanese ieri a mensa.
Il mio posto nello schieramento è dietro al capitano Bernacca. Dobbiamo stare «allineati e coperti», come ci hanno insegnato durante l’addestramento. Con la coda dell’occhio mi «allineo» al tenente che ho di fianco e fisso la nuca del capitano Bernacca per stare ben «coperta» dietro di lui. Parte la musica dell’inno nazionale italiano e tutti noi intoniamo Fratelli d’Italia.
Che buffo sentire una voce squillante di donna in mezzo a queste voci profonde da baritono. Qualcuno stona, altri si accalorano. Come fai a non pensare a quando l’inno di Mameli lo cantano i calciatori e a quanto poco senso abbia per loro quell’elmo di Scipio? Prima festa della Repubblica da soldatessa. Prima volta in cui sento davvero il significato di questa ricorrenza. Mi torna in mente l’articolo 11 della Costituzione che abbiamo dovuto studiare alla Scuola durante il corso di regolamenti militari: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
La bandiera italiana che sventola sulla collina di Tibnin davanti a centinaia di paracadutisti con il basco blu mi fa venire i brividi. «Ri-poso», ordina il colonnello Petriccione. Prende la parola il generale comandante: «Avevamo organizzato grandi festeggiamenti per la festa della Repubblica, ma come sapete i soldati libanesi stanno combattendo nel campo di Nahr el Bared con ingenti perdite umane e, in segno di rispetto, abbiamo deciso di “spiantare” tutto». Poi dà lettura del messaggio del presidente Napolitano, che oggi verrà letto in tutte le missioni dove operano gli oltre 7000 militari delle forze armate italiane attualmente impiegati all’estero.
Il generale di brigata Maurizio Fioravanti comanda il settore ovest di Unifil e il contingente nazionale di circa 2400 soldati che costituisce la Joint task force italiana in Libano (Jtf-L) su base della brigata paracadutisti Folgore. Alle sue dipendenze operano due Battle group di manovra, un gruppo di supporto di aderenza che garantisce il sostegno logistico al contingente, unità specialistiche (Genio, Trasmissioni, Cimic, Nbc, Eod), assetti dell’aviazione dell’esercito, forze speciali e una componente di polizia militare dell’arma dei carabinieri. Il comando di tutto il contingente italiano si trova qui a Tibnin mentre le unità di manovra e i supporti sono suddivisi tra le basi di Marrakah, Zibqin, Al Bayyadah, Haris e Shama.
Giovanissimo, atletico, battuta pronta, sorriso da ragazzino e piglio di ferro, da oggi Fioravanti è il mio comandante, colui al quale «riporto» e che mi farà le famose «note caratteristiche», le valutazioni scritte che ogni militare riceve dal suo diretto superiore. Ha preso il comando del settore ovest di Unifil il 22 aprile 2007, quando la brigata Folgore ha dato il cambio alla brigata Pozzuolo del Friuli.
Il comandante chiama sul palco il luogotenente Giacomo Dessena, viso scolpito dal sole come un ulivo libanese, ma emozionato come un bambino, e gli conferisce la Medaglia mauriziana, onorificenza tutta d’oro che testimonia cinque lustri di vita militare. Poi prende la parola il senatore Marcello De Angelis, ex paracadutista abruzzese in visita al nostro contingente. Mentre il discorso va avanti, guardo questo picchetto di baschi blu e penso a tutta la strada che ho fatto per essere anch’io oggi uno di loro. Il nastro si riavvolge velocemente.
Tutto è cominciato un giorno di dicembre di tanti anni fa. Avevo sedici anni e una gonna troppo corta per l’occasione e per quel vento capriccioso che soffia sulla collina di Ortona a picco sul mare. A scuola ci avevano assegnato un tema sull’eroismo, così ero andata al Cimitero canadese, mi ero seduta su uno scalino di pietra con un quaderno a righe e per la prima volta avevo visto quella distesa bianca di marmo: uno, due, tre… 1615, tutti così belli, giovani, coraggiosi. Chi scegliere? Così usai il mio solito trucchetto: a occhi chiusi, contai diciotto passi – il mio numero fortunato – poi nell’erba bagnata persi l’equilibrio, riaprii gli occhi e c’era lui: Paul, trent’anni, capitano di fanteria. Leggevo la sua lapide bianca e immaginavo la sua storia: la casetta in riva al lago, i fratelli che lavoravano alla segheria, la chiamata alle armi, il viaggio verso l’Italia, lo sbarco a Taranto, e poi chilometri e chilometri di strada fino all’Adriatico, la prima volta che aveva dovuto sparare e la prima volta che aveva dovuto chiudere gli occhi a un suo compagno, la conquista della collina di San Donato, strappata palmo a palmo ai tedeschi, e le grida dei suoi commilitoni, il fango che gli entrava dentro le ossa e le arance selvatiche di San Vito, l’assedio dentro Casa Berardi e le vecchine che davano loro da mangiare, il pranzo di Natale nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli quando finivano il caffè e tornavano a combattere, le ragazze che sorridevano sulla porta e quella canzoncina che gli avevano insegnato in dialetto abruzzese che dice: «Vola vola vola e vola lu cardille».
E poi quello sparo, dritto, secco, inaspettato, quando tutto sembrava ormai tranquillo e invece il destino… E da quel giorno, questa collina a picco sul mare, per sempre. Il tema era piaciuto molto alla professoressa che lo aveva letto ad alta voce in classe e aveva aggiunto un po’ sarcastica: «Non ti sarai mica innamorata?». Sono passati tanti anni e non saprei ancora rispondere. So solo che da quel giorno quella lapide di marmo divenne una pietra miliare nella topografia della mia vita, la mia stella polare, il mio nord. Andavo a trovarlo il sabato pomeriggio dopo la scuola, mi sedevo su quello scalino e gli chiedevo di raccontarmi ancora una volta la sua storia, che in fondo era anche un po’ la mia.
Se oggi indosso questo basco blu e porto questa divisa credo sia per quel tema in classe e per quel soldato canadese che insieme agli altri 1614 è morto per liberare il mio Paese. Ma c’entra anche mio nonno Peppe, tenente dei bersaglieri, che combatté in Polonia, fu internato in un campo di concentramento e tornò miracolosamente a casa che pesava quaranta chili. Devono essere stati quei pomeriggi passati ad ascoltarlo raccontare di quando al fronte aveva mangiato uccelli «steneriti» sotto la neve, e i ricordi di quando di nascosto andava ad accarezzare la sua sciabola da ufficiale nascosta nell’armadio e gli si inumidivano gli occhi, e di quel giorno in cui lo sorpresi in cucina a strappare tutte le foto di guerra. Ne salvò solo una: c’è lui al fronte, in mezzo alla neve, che ride insieme ai suoi compagni. E qualcosa c’entra anche mia nonna Memena, che mettendo in ordine il baule del corredo mi raccontava di quando lavava le divise dei giovani soldati canadesi feriti in battaglia, le smacchiava dal sangue con la cenere, le stendeva al sole, e quelle strappate le tagliava e le cuciva per farne vestiti a mio padre e agli altri bambini.
Il mio desiderio di fare il soldato è nato in quel cimitero di guerra sulla collina del mio paese. Ma era il 1985 e la legge che avrebbe concesso alle donne di entrare nelle forze armate sarebbe stata approvata solo quindici anni dopo.
Nel frattempo avevo vinto la borsa di studio per il Collegio del mondo unito, una scuola di ragazzi e ragazze di oltre settanta nazioni diverse che studiano e vivono insieme nel castello di Duino: un misto tra Saranno famosi e la Scuola militare della Nunziatella. Il Collegio mi permise di avere il mondo intero sui banchi di scuola, mi aprì al dialogo tra le diverse culture e mi spinse a intraprendere una carriera internazionale. Dopo il progetto Erasmus all’Institut d’études politiques di Strasburgo e la laurea in Scienze politiche alla Luiss, diventai hostess di volo per l’Air France a Parigi e capii che la dimensione «senza frontiere» della vita era esattamente quello che volevo.
Ma portare i succhi di frutta e sorridere ai passeggeri non era fino in fondo la mia ambizione. Così smisi di volare e ottenni uno stage presso la Commissione europea: avrei dovuto rimanere a Bruxelles solo sei mesi e invece vi rimasi sette anni. Poi un giorno al Parlamento europeo, durante la discussione del regolamento sugli aiuti alimentari del quale ero responsabile come legal advisor, mentre rispondevo ad alcune domande della Commissione sviluppo, il presidente mi rivolse un saluto speciale davanti a tutto l’emiciclo mettendomi in un imbarazzo mortale. Terminata la seduta, mi fermò e mi chiese se volevo lavorare per lui. Solo dopo mi spiegarono che si trattava di Bernard Kouchner, già ministro degli aiuti umanitari sotto François Mitterrand, fondatore di Médecins sans frontières, soprannominato dai media «the French Doctor», colui che in difesa dei curdi-iracheni, nel 1991, aveva scardinato l’inviolabilità della supremazia nazionale con il concetto rivoluzionario del «dovere di ingerenza», secondo cui, in presenza di violazioni dei diritti umani, si è legittimati a intervenire all’interno di uno Stato che non protegge la sua gente.
Quell’incontro cambiò per sempre la mia vita. Iniziai a lavorare nel settore degli aiuti umanitari della Commissione europea proprio quando, a poche ore di volo dalla tranquilla Bruxelles, i Balcani si infiammavano nelle guerre fratricide e l’Europa, in particolare l’Echo (Ufficio umanitario della Commissione europea), veniva chiamata a intervenire per fermare il massacro e soccorrere le migliaia di rifugiati che il conflitto aveva partorito.
L’umanitario mi conquistò: mi appassionai ai progetti di ricostruzione a favore dei profughi; collaborai alla realizzazione di centri per le donne vittime di stupri etnici; mi dedicai a una campagna mondiale di sensibilizzazione per le donne afghane intitolata «Un fiore per le donne di Kabul», della quale Emma Bonino, allora commissaria europea agli aiuti umanitari, mi incaricò al suo rientro da Kabul; lavorai all’Echo Award, il primo concorso cinematografico dedicato all’umanitario grazie al quale conobbi Danis Tanovic´, un magrissimo e malinconico profugo bosniaco appena arrivato da Sarajevo che venne a consegnarmi L’alba, un cortometraggio «fatto in casa». Diventammo molto amici e quel concorso gli portò fortuna, visto che una decina di anni dopo avrebbe diretto il film No Man’s Land, con il quale vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 2002.
«L’umanitario inizia dove la politica ha fallito», mi diceva sempre il dottor Kouchner, e nelle guerre balcaniche così vicine a noi io scoprivo a poco a poco l’orrore della violenza etnica, la sofferenza dei bambini, l’urgenza di agire, di fare, di andare al di là delle frontiere.
Nel giugno del 1999, Kouchner fu nominato rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per la missione in Kosovo (Unmik) e mi portò con lui a Prishtina con l’incarico di suo special advisor responsabile delle relazioni con la popolazione civile locale. Lavorare al suo fianco mi permise di collaborare con i 45.000 militari di tutte le nazionalità che formavano la forza multinazionale di pace della Nato in Kosovo, la Kfor. Naturalmente fu con il contingente italiano che instaurai la collaborazione più profonda. Sui bersaglieri potevamo contare per garantire la protezione ai serbi rifugiati nel monastero di Decani; sui carabinieri del Gis potevamo contare per tutte le scorte alle autorità che venivano a visitare il Kosovo; sulla mensa dei carabinieri potevamo contare la notte di Natale, quando il cuoco riusciva a farci sentire a casa anche a venti gradi sotto zero. Con i militari italiani condivisi risate, arrabbiature, passioni, partite di calcio, compleanni, confidenze. E non smettevo di stupirmi di fronte al lavoro del capitano Centofanti e dei suoi uomini, che erano riusciti a installare Radio West, la prima radio multietnica del Kosovo, sotto una tenda da campo, e del capitano Postiglione, che col Genio ferrovieri aveva riabilitato il treno di Kosovo Polje, grazie al quale i pochi serbi rimasti potevano continuare a spostarsi in relativa sicurezza.
Nei due anni in Kosovo capii che senza la fondamentale cornice di sicurezza garantita giorno dopo giorno dai militari della Kfor nessun aiuto umanitario sarebbe arrivato a buon fine, nessun rimpatrio di serbi sarebbe stato possibile, nessuna ricostruzione politica avrebbe potuto ricominciare in quel Paese lacerato dall’odio fratricida. Ogni pomeriggio a Film City, quartier generale delle forze Nato e, prima della guerra del 1999, sede della «Cinecittà» kosovara, il dottor Kouchner incontrava il comandante della Kfor, il generale Carlo Cabigiosu, per confrontarsi su questioni di rilevanza geopolitica, a cavallo tra la strategia militare e la diplomazia. Si trattava all’epoca di riunioni senza precedenti. Fino ad allora, infatti, nelle missioni di mantenimento della pace, la componente civile e quella militare erano sempre state tenute separate con conseguenze spesso drammatiche, come dimostrò l’incapacità di disporre l’intervento tempestivo che avrebbe potuto evitare il massacro di Srebrenica.
Oggi questo può apparire scontato, ma il dialogo tra Onu e militari non è stato sempre facile. In passato, noi funzionari dell’Onu, «buoni per definizione» e protetti dalla bandiera blu, eravamo piuttosto scettici rispetto a questi militari le cui attività si «allargavano» a dismisura fino a sfiorare il regno ovattato della diplomazia e si addentravano nel mondo «sacro» degli aiuti umanitari. Dal canto loro, i militari, «cattivi per definizione» in quanto armati, guardavano a noi come a dei privilegiati con stipendi strabilianti, macchinoni Toyota, passaporto blu, sempre occupati in centinaia di meeting inconcludenti per decidere la data di un altro meeting inconcludente.
Ma fortunatamente i bisogni impellenti costrinsero diplomatici e militari a lavorare fianco a fianco. Il Kosovo divenne così un luogo emblematico della nostra complessa contemporaneità, dove diplomatici di tutto il mondo si trovarono a lavorare con i guerriglieri dell’Uck e i militari della Nato con gli operatori umanitari. Noi funzionari Onu avevamo bisogno dei militari perché garantissero la cornice di sicurezza indispensabile a distribuire efficacemente gli aiuti; del supporto logistico per il trasporto dei rifugiati serbi che volevano rientrare in Kosovo; dell’intelligence per valutare le minacce e il threat assessment; di ponti levatoi per raggiungere i paesini isolati dai bombardamenti e dalla neve. In cambio, la comunità internazionale poteva mettere a disposizione la formidabile macchina di aiuti umanitari nata dalla generosità senza precedenti che l’Occidente dimostrò nei confronti del Kosovo, forse a causa della «cattiva coscienza» per gli orrori già avvenuti in Bosnia, dove l’Europa era intervenuta troppo tardi.
Così, mentre i militari della Kfor garantivano la necessaria cornice di sicurezza, gli operatori umanitari fornivano gli aiuti per permettere alla gente di tornare a vivere. In uno sforzo logistico senza precedenti, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite riuscì a sfamare migliaia di kosovari prima nei campi di Kukes e poi nei villaggi sperduti del Kosovo; l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati fornì un tetto agli 800.000 sfollati e li aiutò a rientrare in quello che restava delle loro case; il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo finanziò progetti quick impact per la ricostruzione degli edifici distrutti; l’Oms garantì le cure mediche e l’assistenza sanitaria; l’Unicef riaprì le scuole a tempo di record per dare ai bambini kosovari un’apparenza di normalità. E oltre 5000 organizzazioni non governative si prodigarono per la popolazione kosovara con progetti concreti di ricostruzione.
Due anni in Kosovo, dall’estate del 1999 al marzo del 2001: erano tante le storie che mi avevano colpito come schegge impazzite di vita e che al mio rientro in Italia avrei sentito il bisogno di raccontare in un libro dedicato ai tanti protagonisti di quella missione. E quindi anche ai militari.
In una di queste storie ero inciampata per caso. I monaci serbi avevano informato il dottor Kouchner che il cimitero degli stranieri di Belo Polje era stato profanato dagli albanesi dell’Uck e così il rappresentante dell’Onu mi aveva chiesto di andare a vedere cosa stesse accadendo. Il piccolo cimitero raccoglieva una delle tante pagine tormentate della storia balcanica. Vi erano sepolti, insieme ai soldati francesi morti nel 1914 e ai soldati russi della Guardia Bianca venuti in Kosovo nel 1917, una cinquantina di soldati italiani della brigata Taurinense e della Garibaldi: dopo l’armistizio del 1943, gli albanesi del Fronte nazionale avevano attaccato la caserma ed era stato un massacro. I corpi, rimasti qualche giorno nella caserma, erano stati seppelliti nel Cimitero degli stranieri a Belo Polje.
Il mattino che arrivai a Belo Polje era appena nevicato, ma la neve non era riuscita a ricoprire le immondizie che deturpavano il cimitero. Sparite le croci, profanate le tombe, rubate le lapidi, il cimitero sembrava una discarica a cielo aperto. Accanto a un cumulo di macerie, c’era un soldato italiano che con la pala stava liberando una tomba dalle schifezze che la ricoprivano. Mi spiegò che il suo comandante aveva dato ordine alla squadra di pulire. Lo avevano fatto già due volte. «Ma poi vede, dottoressa» aveva aggiunto sconsolato «noi ce ne andiamo, e qui ci buttano un’altra volta materassi sfondati, tegole rotte, frigoriferi sgangherati.» Restammo un po’ a parlare, poi lui riprese la pala e si rimise a pulire, io lo salutai e tornai alla macchina. Quel gesto di rispetto verso soldati dimenticati in un cimitero sperduto del Kosovo mi conquistò. Vedere un soldato che ripuliva la tomba di un altro militare italiano, che quando fu ucciso avrà avuto più o meno la sua età, risvegliò in me il senso della memoria per chi ha combattuto anche per noi, il valore del ricordo per chi non è mai tornato a ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Un giorno all’alba
  6. In viaggio sul C 130 J
  7. Aeroporto Rafic Hariri
  8. Destinazione: Tibnin
  9. Stanza numero 11
  10. Tutta colpa di Guglielmo Marconi
  11. Giuro di essere fedele alla Repubblica!
  12. Libano: istruzioni per l’uso
  13. Insonnia libanese
  14. Ufficio del tenente Catena
  15. È arrivata la cartolina!
  16. Casus belli
  17. Le bambine di Al Bazouria
  18. L’anello del diavolo
  19. La recita di fine anno
  20. Insciallah!
  21. Jogging
  22. La canzone di Fayrouz
  23. I lampioni di Ayta ash Shaab
  24. Uno spot in tv
  25. Nomadi appassionate
  26. La sindrome di Elifelet
  27. Chi dice donna dice danno?
  28. Il sindaco poeta
  29. La muerte no es el final
  30. Soldati made in Italy
  31. Malati d’orizzonte
  32. Prezzemolina Prezzemolina
  33. Team Delta: tutte le donne del Libano
  34. Sensi di colpa
  35. Dora e Babouche
  36. Ultima notte a Tibnin
  37. Tutti a casa
  38. Ringraziamenti