Il mistero Caravaggio
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Il mistero Caravaggio

  1. 224 pagine
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Qual è il mistero che si cela dietro la morte di Caravaggio? E dov'è finito il suo corpo? Da chi scappava quando nel luglio 1610, dopo mesi di fughe avventurose, sbarcò sulla spiaggia toscana di Porto Ercole? Era davvero un assassino? Ricercato dalle autorità dello Stato pontificio, condannato alla pena capitale, provato dal lungo viaggio, nei suoi ultimi giorni di vita Caravaggio è un uomo solo, che sa di non potersi più fidare di nessuno, nemmeno dei suoi protettori di un tempo. Secondo alcuni sta tentando di sfuggire a un misterioso cavaliere deciso a vendicare con il sangue un'offesa subita, mentre il cardinale Borghese e il viceré di Napoli attendono nell'ombra la morte del pittore per impadronirsi delle sue opere. Nel corso dei secoli si sono susseguite ipotesi fantasiose e verità parziali, ed è in questa foresta di supposizioni che si nasconde Il mistero Caravaggio. Coniugando ricerca storica, scienze forensi e moderne tecniche di investigazione scientifica, questo appassionante viaggio nella memoria fa luce su uno dei gialli più affascinanti della storia dell'arte, nell'ambizioso tentativo di identificare le spoglie del maestro del chiaroscuro. Attraverso documenti originali, Il mistero Caravaggio ricostruisce la biografia dell'artista, ne delinea un nuovo profilo e offre una prospettiva inedita sui fatti di sangue che lo videro protagonista: la Roma delle feroci lotte politiche e delle gelosie artistiche, l'omicidio che portò alla messa al bando del pittore e gli oscuri eventi legati alla sua ultima, disperata fuga. Una scia di intrighi e falsi indizi che racchiude un enigma lungo quattrocento anni.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858653241
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

Una morte misteriosa

«Partitosi con speranza di rimettersi, viene a Portercole dove, soprapreso da febre maligna, in colmo di sua gloria, che era d’età di 35 in 40 anni, morse di stento e senza cura et in un luogo ivi vicino fu sepelito.»
Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura
Affrontare il mistero che avvolge le ultime ore del Caravaggio vuol dire addentrarsi in un ginepraio di ipotesi, ricostruzioni (più o meno avventurose, più o meno suffragate da prove), contraddizioni insanabili e inspiegabili omissioni.
Non ci sono, in effetti, certezze – nonostante alcune scoperte degli ultimi anni, non accettate da tutti gli studiosi, paiano stabilire notizie sicure – per quel che riguarda il periodo più cupo e buio della vita del pittore. Se non per l’anno della morte, il 1610 (la vecchia datazione, che faceva risalire il decesso al 1609, è stata da tempo smentita e attribuita alla volontà dei primi storici di farla coincidere con la morte del suo grande rivale, Annibale Carracci), tutto quanto sappiamo del lasso di tempo che va dall’incarcerazione alla Guva (la «fossa») di Forte Sant’Angelo, alla Valletta, fino al giorno del decesso è passibile di smentita. Anche per questa malleabilità della materia gli storici si sono spesso sbizzarriti nel proporre le loro ipotesi e argomentazioni: provare a gettare una luce chiarificatrice su un frammento così torbido e oscuro era una tentazione troppo forte.
Quello che sappiamo per certo, su cui tutti gli storici sono concordi e che si può facilmente desumere dalle fonti coeve, è che l’ultimo periodo della vita di Caravaggio è stato anche il più difficile e doloroso. Caravaggio vive come un fuggiasco, un bandito. Si sente minacciato, forse tradito. Il suo sogno di rifarsi una vita rispettabile all’ombra della croce di Malta fallisce miseramente. A Napoli subisce un’aggressione violenta, che lo riduce in pessime condizioni. I luoghi che riteneva più sicuri, nei quali aveva, seppure per breve tempo, trovato un po’ di sicurezza e rispetto – quel rispetto e quella sicurezza perduti con l’omicidio di Ranuccio – si rivelano infidi, malsicuri. Le stesse amicizie su cui aveva sempre potuto contare – come quella dei Colonna, quasi certamente responsabili della sua fuga da Malta – si dimostrano meno efficaci di quanto pensasse. Il suo stesso talento, quel talento che Caravaggio aveva imparato a usare per trarsi d’impaccio (come ai tempi della faccenda con Pasqualone), ingraziandosi, con il dono della propria arte, i potenti, si rivela all’improvviso incapace di aprirgli le porte della salvezza. Una magia esaurita, sebbene Caravaggio vi ricorra fino all’ultimo, come a una sorta di feticcio.
Giorni di paura e dolore, dunque, fin nella carne, segnata dallo scontro con Tomassoni. Se fino ad allora la sua vita, come i suoi quadri maggiori, era stata un connubio di ombre e luci, gli ultimi anni di Caravaggio sono perfettamente incarnati nella sua opera più grande di quel periodo (e, forse, la sua ultima opera in assoluto): quel Davide con la testa di Golia, oggi alla Galleria Borghese, destinato a Scipione. Qui la luce non è più metafora di grazia ma sguardo impietoso, che disvela i segni della carne martoriata, piagata, la stanchezza e la prostrazione su quella testa spiccata dal collo che è, certamente, un autoritratto. L’autoritratto di un uomo sconfitto, che sapeva di rischiare proprio quella fine e che – ecco l’unico sussulto – ha solo la forza di dipingere da sé quella «pittura esposta in luogo pubblico [in cui] l’imagine di quel bandito si mette in figura di appicato alle forche per il collo, overo per un piede; essendo ciò solito farsi, così per l’ignominia, e per la mortificazione de’ parenti, e per esempio e terrore degli altri».
Violenza, paura e sofferenza sembrano segnare gli ultimi giorni di Caravaggio, prigioniero di un percorso che non può che portarlo a una morte troppo precoce (e amara). Ma quale morte? E dove? Come vedremo nelle pagine successive, nel tentativo di recuperare i resti del grande pittore, gli sforzi di ricerca di Silvano Vinceti si sono concentrati su Porto Ercole. Ma, in effetti, neppure il luogo della morte sembra mettere d’accordo tutti gli storici che hanno affrontato la materia. Tanto meno le cause o le modalità del decesso.
Eppure, i biografi più antichi non sembrano aver dubbi. Per il Mancini Caravaggio muore su una spiaggia, sorpreso da «febre maligna». Quasi le stesse parole usa il Baglione (che però non cita Porto Ercole come luogo della morte ma parla di una generica spiaggia). A questi primi cronisti contemporanei si accoda, pedissequamente, Bellori che scrive molti anni dopo i fatti e usa il Baglione come fonte primaria. Dunque, Porto Ercole come luogo della morte e «febre maligna» come causa. Il termine, vago, generico, è stato letto – quasi all’unanimità – come «malaria». Questo perché Porto Ercole e il Grossetano, in quei tempi, erano zone paludose, malariche e, stando a quanto affermato da Mancini e Baglione, Caravaggio avrebbe vagato a piedi in quei luoghi, forse per giorni. Inoltre, come abbiamo già ricordato, la malaria è stata spesso associata a Caravaggio, a partire da Roberto Longhi e dalla sua lettura del Bacchino malato. Che si sia ammalato durante il suo soggiorno, più o meno volontario, a Porto Ercole o che sia stato colpito da un’ennesima recrudescenza del male che lo perseguitava da anni in forma cronica (e dunque ricorrente), magari mentre era debilitato dagli ultimi avvenimenti (tra cui l’aggressione molto violenta a Napoli), Caravaggio sarebbe morto di malaria, e dunque, in ultima analisi, di malattia. Vedremo, in seguito, come la malaria possa non essere l’unica patologia a cui imputare il decesso del pittore.
Ma non tutti gli storici si sono accontentati, per vari motivi, di una causa così prosaica. Appigliandosi alle tante incongruenze, evidenti, che costellano i primi racconti della morte, tessendo una rete complessa che tiene insieme la fuga da Malta, l’aggressione al Cerriglio, la stranezza dell’itinerario seguito da Caravaggio (da Napoli a Porto Ercole, in Toscana, per andare, in teoria, a Roma), hanno ipotizzato ragioni più oscure e veri e propri delitti dietro la morte del pittore che sarebbe stato, dicono, assassinato.
Il più deciso, tra gli storici contemporanei, su questa strada è Vincenzo Pacelli il quale arriva a ipotizzare che Merisi sia stato vittima di un complotto in cui erano coinvolti i cavalieri di Malta, gli spagnoli che governavano a Napoli e a Porto Ercole (ai tempi parte del cosiddetto Stato dei Presidi, una sorta di stato-cuscinetto tra quello pontificio e la Toscana dei Medici) e le massime autorità vaticane. Che cosa conforta Pacelli in questa sua ipotesi piuttosto ardita? Molti elementi, in effetti. Ma, in particolare, le reticenze, le ambiguità, i veri e propri silenzi che costellano le ricostruzioni del tempo degli ultimi giorni del pittore, avvolgendole – e qui non possiamo che dargli ragione – in una sorta di velo «omertoso».
Ma sarà bene, per completezza di esposizione, riportare per intero il brano di Baglione dedicato agli ultimi giorni del Caravaggio.
Poscia andossene a Malta, et introdotto a far riverenza al gran Maestro, fecegli il ritratto; onde quel Principe in segno di merito, dell’habito di s. Giovanni il regalò, e creollo Cavaliere di gratia. E quivi havendo non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelagnolo gli fece non so che affronto, e però ne fu posto in prigione, ma di notte tempo scalò le carceri, e se ne fuggì et arrivato all’isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo; ma per essere perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare alla Città di Napoli; e quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso così fattamente ferito che per li colpi quasi pùr non si riconosceva, e disperatosi della vendetta, con tutto che gli vi si provasse, misesi in una felluca con alcune poche robe, per venirsene a Roma, tornando sotto la parola del Cardinal Gonzaga, che co’l Pontefice Paolo V, la sua remissione trattava. Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione, e posto dentro le carceri, ove per due giorni ritenuto, e poi rilassato, più la felluca non trovava sì, che postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol Leone a veder se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robe portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febre maligna; e senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente, come appunto male havea vivuto.
Secondo Pacelli, lo scritto è pieno di buchi e di errori logici. In più evita di nominare il luogo di decesso del pittore. La fonte del pittore-storico sarebbe stata una lettera, spedita dal nunzio apostolico presso il Regno di Napoli, Deodato Gentile, al cardinale Scipione Borghese.
Caravaggio non è morto in Procida, ma a port’hercole, perché esendo capitato con la felluca, in q(u)ale andava: à palo, ivi da q(u)el Capitano fu carcerato, e la felluca in q(u)el romore tiratasi in alto mare se ne ritornò a Napoli, il Caravaggio restato in pregione, si liberò con un esborso grosso di denari, e per la terra e forse à piedi si ridusse sino à port’hercole. ove ammalatosi ha lasciato la vita: la felluca ritornata riportò le robbe restateli in casa della S.ra Marchese di Caravaggio, che habita a Chiaia, e di dove si era partito il Caravaggio: ho fatto subito vedere se vi sono li quadri, e ritrovo che non ne sono più in essere, eccetto. tre, li doi S. Gio(v)anni. e la Maddalena, e sono in sud.ta casa della S.ra Marchese, q(u)ale ho mandato subito à pregare. che vogli tenerli ben custoditi, che non si guastino senza lasciarli vedere, o andar in mano di alcuno, poiché erano destinati, e si hanno da trattener per V.S. Ill.ma ma sin’tanto. che si tratterà con gli heredi, è creditori di d.o Caravaggio per darli honesta sodisfatione a (qu)esto segno ne sono arrivati sin’hora. anderò vedendo, et intendendo q(u)ello si potrà fare, e procurerò che in ogni modo li quadri si conservino, e venghino in mano di V.S. Ill.ma, a’ quale per fine umilmente mi inchino. D. Napoli lì 29 luglio 1610.
La lettera del vescovo sarebbe interessante per quell’accenno alla presunta morte a Procida (forse una notizia inesatta diffusasi a pochi giorni dalla morte). Soprattutto, la lettera del presule sarebbe la prima a nominare Porto Ercole come luogo della morte. In più Pacelli fa notare come Mancini – come scritto più volte, il biografo antico più accurato e meno «prevenuto» nei confronti del nostro – nella prima versione della sua biografia, avesse indicato in Civitavecchia il luogo del decesso, per poi cancellare e correggere il toponimo con il canonico Porto Ercole. Secondo Pacelli, questi sono tra i tanti segni che qualcosa di non chiaro è successo a Caravaggio dal momento della sua fuga da Malta. Ma già al momento del suo arrivo e della sua ammissione all’ordine, Pacelli vede nelle carte che trattano della vita di Caravaggio una sorta di codice fatto di allusioni, di omissioni, di cancellature. Pacelli, infatti, segue la linea di monsignor Azzopardi nel ritenere che sia Caravaggio la «persona virtusissima e di honoratissime qualità e costumi» per la quale il Gran maestro Alof de Wignacourt impetra il permesso di accedere all’ordine senza «obbligo di prove» e nonostante «l’aver in rissa commesso omicidio» (agli assassini era infatti vietato l’accesso all’ordine di Malta). In effetti è difficile credere che in quei giorni (siamo nel dicembre del 1607) vi fossero molte persone che rispondessero a questa descrizione. Da ciò Pacelli ne deduce che Paolo V e de Wignacourt preferissero tacere un nome fin troppo noto. Che cosa accadde, in seguito, si chiede Pacelli, che cosa ha fatto sì che Caravaggio perdesse l’appoggio del Gran maestro e conoscesse la prigione, durissima, della Guva? Pacelli non ha una risposta certa e non si azzarda, per scrupolo di storico, a ipotizzarlo, sebbene supponga che, vista la durezza della formula della «privatio habitus» e del marchio di «putridum et foetidus» si tratti di una gravissima offesa a un cavaliere di Diritto, probabilmente Gerolamo Varays. Caravaggio avrebbe conosciuto dunque la durezza della prigione maltese a causa di questo «affronto» che gli sarebbe costato anche l’odio – mortale – di tutto l’ordine, avendo infranto la severa gerarchia e avendo sfidato le regole su cui l’ordine stesso si reggeva. Per evitare, però, di dover tenere prigioniero un personaggio scomodo perché troppo celebre e celebrato come Caravaggio, de Wignacourt l’avrebbe «aiutato a fuggire» a Messina, dove si trovava una delle basi più importanti dei gerosolimitani in Italia. Sentendosi braccato, temendo la vendetta, Caravaggio avrebbe continuato a fuggire, fino a tornare a Napoli. Qui, alla locanda del Cerriglio, si sarebbe consumato il primo tentativo di vendetta da parte del cavaliere offeso (e dell’ordine tutto). Gli uomini sconosciuti che, nei pressi dell’osteria l’avrebbero «preso in mezzo», ferendolo gravemente, al punto che i menanti avevano messo in giro la voce della sua morte, sarebbero stati dei sicari al soldo di Varays. Ma, fallito questo attentato, l’ordine non si sarebbe arreso. Avrebbe coinvolto nel suo complotto ai danni di Caravaggio le autorità spagnole (che lo arrestano, poco importa se a Civitavecchia o a Palo) e, soprattutto, avrebbe avuto il consenso, tacito, del papa e del suo plenipotenziario Scipione che, nel momento in cui fingeva di prestare ascolto alle richieste di grazia avanzate da Vincenzo Gonzaga, avrebbe pensato di eliminare un pittore talentuosissimo ma turbolento, politicamente avverso e troppo vicino agli ambienti popolari. Così Caravaggio, in viaggio per Roma, sceso a Civitavecchia (l’approdo più naturale per l’Urbe) sarebbe stato arrestato e ucciso. In seguito, per confondere le acque, in una sorta di «tragica farsa», il corpo sarebbe stato caricato su un’imbarcazione e portato a Porto Ercole (da qui, la versione ufficiale). Così si spiegherebbe l’assurdità di un Caravaggio che – come proverebbe la lettera di Deodato Gentile – rilasciato dopo un «esborso» si sarebbe diretto «a piedi» da Palo a Porto Ercole per provare a recuperare la propria «robba».
Il suo corpo, martirizzato – sul quale, alle vecchie cicatrici di Roma e di Napoli, si sovrapponevano, come in un palinsesto di violenza e dolore, le nuove, fatali, ferite – sarebbe stato seppellito dagli spagnoli in fretta e furia, senza cerimonie e senza avvertire il fratello Giovan Battista, sacerdote e personaggio di un certo peso in curia. Questo perché chiunque, vedendo il corpo dell’artista, avrebbe capito quanto fosse assurdo credere che fosse morto di malattia.
L’ipotesi di Pacelli, per quanto affascinante e ben argomentata (e non priva di pezze d’appoggio), è però per molti motivi insostenibile. Proviamo a vedere perché.
In primo luogo, sembra attribuire all’opinione pubblica un peso eccessivo per l’epoca, fino a sfiorare l’anacronismo. De Wignacourt avrebbe aiutato Michelangelo a fuggire perché condizionato dalla celebrità del pittore. E lo stesso papa Borghese avrebbe organizzato (non importa se nelle vesti di burattinaio o semplice congiurato) un complotto così articolato per eliminare, in silenzio, un personaggio scomodo, mentre fingeva di volergli concedere una grazia. È evidente che si tratta di una forzatura. Siamo nel 1610, vogliamo ricordarlo. Solo pochi anni prima, nel 1600, il più famoso filosofo del tempo, Giordano Bruno, era stato condannato al rogo: non sembra che i potenti dell’epoca si facessero molti scrupoli quando si trattava di eliminare personaggi che ritenevano fastidiosi. Caravaggio era condannato alla pena capitale, per toglierlo di mezzo sarebbe bastato dar seguito alla condanna, rifiutandogli la grazia. Niente di più. Immaginare complotti, timori per le reazioni di un’opinione pubblica pressoché inesistente all’epoca o del popolo stesso (per la morte di un suo «presunto» campione) è anacronistico oltre a infrangere la regola epistemologica aurea del Rasoio di Occam: «Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem», non moltiplicare gli elementi più del necessario.
Inoltre, Pacelli non tiene conto di due documenti che smentirebbero in maniera decisa la sua ricostruzione. Un appunto, segnato su un foglietto volante, ritrovato nel 2001 nell’archivio di Porto Ercole che parla della morte «per malattia» del pittore (su cui torneremo) e il documento giudiziario, ritrovato dallo storico maltese Keith Sciberras negli archivi dell’isola, che dimostrerebbe come Caravaggio sia stato allontanato dall’ordine dei cavalieri di Malta per uno scherzo. Una semplice ragazzata, certamente grave e meritevole di una punizione, per i severi standard dell’orgoglio di casta di quel tempo, ma certamente non così grave da provocare un odio così feroce e senza tregua. Va detto, per correttezza, che il documento di Sciberras è stato pubblicato nel 2006 e, dunque, non poteva essere tenuto in conto da Pacelli che scrive nel 2002. Più complesso, invece, il discorso per quel che riguarda il presunto «certificato di morte» ritrovato nel 2001 a Porto Ercole da uno storico locale, l’architetto Giuseppe La Fauci, e dall’archeologa Giovanna Anastasia. Nonostante l’autorevole certificazione di monsignor Corradini, che da oltre un decennio è impegnato in indagini d’archivio sul profilo documentale del Merisi, e di Maurizio Marini (uno dei massimi esperti di Caravaggio), il documento, che proverebbe senza ombra di dubbio che la morte è avvenuta a Porto Ercole, lascia ancora perplessi molti studiosi.
Il motivo è semplice. Il documento recita: «A dì 18 luglio 1609 nel ospitale di S. Maria Ausiliatrice morse Michel Angelo Merisi da Caravaggio, dipintore, per malattia». Non sembra lasciare molto spazio ai dubbi. Eppure, in molti ne hanno messo in discussione la credibilità. Il fatto è che la morte di Caravaggio non è stata trascritta nel Libro dei morti della parrocchia. Il documento, un foglio volante, che sull’altro lato riporta il decesso di un certo alfiere Montero, è stato ritrovato in mezzo ai Capitolari (documenti finanziari) della parrocchia di Porto Ercole. Eppure, il parroco di allora, Jacopo de Ventura, era – lo dimostrano le sue annotazioni – molto scrupoloso nell’ottemperare ai dettami tridentini che prevedevano di tenere nota di tutte le morti, le nascite e dello Stato delle anime della sua cura. Nel periodo a cui risalirebbe la morte di Caravaggio (1610), de Ventura era assente, a servizio di un cardinale romano. Il suo sostituto era un tale don Guglielmo Guglielmi. Una volta tornato, de Ventura si era preoccupato di trascrivere sul Libro dei morti tutti i decessi eventualmente dimenticati dal suo collaboratore, come dimostra la seguente annotazione: «A dì 31 di luglio 1610 essendo io in Roma morse Alfier Gaspar Montero, e per errore non si scrisse da prete Guglielmo che restò alla cura e però se ne fa la presente annotazione». Da notare che Montero è la stessa persona ricordata nel verso del foglio volante dedicato a Caravaggio. Eppure, de Ventura non trascrive la notizia della morte del pittore, di cui pure doveva essere informato, sia perché doveva aver fatto rumore in paese sia perché se ne era parlato di certo in quegli ambienti romani che frequentava. Non conta neppure l’ipotesi che il defunto non avesse i mezzi per pagarsi il rito funebre. Anche in questo caso, infatti, i sacerdoti erano obbligati a prestare comunque la loro opera e ad annotare il decesso. C’è poi quella data, 1609, piuttosto incongrua e che si è provato a spiegare attribuendola a una confusione del sacerdote tra calendario attuale (introdotto in zona da una ventina d’anni) e senese (che, però, faceva iniziare l’anno il 25 marzo). E, ancora, tanto per rendere il documento più ambiguo, ecco il riferimento all’ospedale di Santa Maria Ausiliatrice, ospedale di cui nei documenti dell’epoca non c’è traccia, essendo quello della confraternita di Santa Croce l’unico operante in zona oltre a quello riservato al contingente spagnolo.
Altri fatti, desunti da documenti ritrovati negli archivi della parrocchia grazie all’alacrità di Antonio Ferrini – un profondo conoscitore della storia di Porto Ercole –, ci vengono in aiuto. Sembra ipotizzabile con buona certezza che Jacopo de Ventura non abbia mai avuto in mano il «foglietto» che certificherebbe la morte di Caravaggio e che, nonostante la sua assenza, abbia saputo della morte di Montero da altre fonti. Montero, infatti, era molto legato a de Ventura, al punto da lasciargli una cospicua eredità. Anche per questo motivo, cioè per poter ereditare, il parroco, tornato dopo aver lasciato la sede in mano a don Guglielmo Guglielmi, si premura di ufficializzare il decesso dell’alfiere, che Guglielmi non aveva registrato, con tutta probabilità per danneggiarlo. È probabile che se de Ventura avesse letto l’appunto di Guglielmi (con cui i rapporti erano piuttosto conflittuali, al punto che Guglielmi aveva capeggiato una congiura contro di lui che gli era costata l’incarcerazione), si sarebbe peritato di trascrivere anche la morte di Caravaggio e non solo quella di Montero. Non è così, come sappiamo. Pertanto dobbiamo desumere che de Ventura non sapesse nulla del foglietto, cosa che getta ulteriori dubbi sull’autenticità del documento.
Ma il Pacelli non è il solo a credere all’omicidio di Caravaggio. Anche Carmen Scano sembra propendere per l’omicidio su commissione, arrivando a identificare il mandante nel cavaliere Gerolamo Varays. Anche la Scano ritiene che l’aggressione al Cerriglio – i cui postumi avrebbero provocato la morte del pittore più di un anno dopo, sulla spiaggia di Porto Ercole – fosse opera di sicari al soldo del cavaliere di Malta, deciso a vendicarsi. Dopo un anno di convalescenza, necessaria per riprendersi dal colpo, Caravaggio si sarebbe imbarcato su una feluca. Sarebbe arrivato a Porto Ercole. Qui, gli spagnoli del presidio l’avrebbero scambiato per un cavaliere, non meglio identificato, che gli si doveva consegnare, e l’avrebbero arrestato. Accortisi dell’errore di persona, l’avrebbero liberato. A quel punto, Caravaggio si sarebbe diretto alla spiaggia, all’inseguimento della...

Indice dei contenuti

  1. Il mistero Caravaggio
  2. Copyright
  3. Introduzione
  4. Nascita di un artista
  5. L’omicidio e la fuga
  6. Caravaggio e il suo tempo
  7. Una duplice modernità
  8. Una morte misteriosa
  9. Il corpo scomparso
  10. L’identikit del ricercato
  11. Il gene Merisi
  12. Le risposte della scienza
  13. Conclusioni
  14. Bibliografia
  15. Ringraziamenti
  16. Indice