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Niccolò infilò la mano nella fessura della parete, più in profondità che poteva, tastando in ogni direzione, ma gli unici pezzetti di pergamena consunti erano quelli che lui stesso vi aveva fatto scivolare nei giorni precedenti.
Dopo il primo incontro nel battistero sotterraneo, lui e Angelica erano tornati là ogni volta in cui erano sicuri che i maestri fossero occupati altrove. Avevano passato momenti meravigliosi, insieme, durante i quali avevano anche messo a punto il loro piano di fuga. Tutto era pronto. Ma da quattro giorni Angelica non ritirava i suoi messaggi né ne aveva lasciati di propri. E non l’aveva nemmeno più incrociata per caso nella cattedrale. Che si fosse pentita di avergli promesso di scappare con lui? O forse era semplicemente malata?
Niccolò non osava chiedere notizie, ma era ormai divorato dall’ansia e non riusciva a concentrarsi su nulla. Girava tutto il giorno come un’anima in pena, dalla casa alla biblioteca, dalla biblioteca al duomo, da Santa Tecla, dove erano iniziati i lavori di demolizione, ai vicoli della contrada San Raffaele fin sotto le finestre della casa della ragazza, che sembrava disabitata. I maestri lo rimproveravano per la sua distrazione, soprattutto Raffaele, che lo trattava in maniera più brusca e ostile del solito. Onorio, dal canto suo, lo osservava preoccupato con un velo di tristezza negli occhi.
Fu proprio al prelato che Niccolò, tornato in canonica dopo l’ennesimo inutile controllo del pertugio, domandò con la massima noncuranza: «Zio Onorio, ho notato che da un po’ di tempo Angelica non si vede più in giro. Per caso sapete se stia bene?».
L’arcidiacono tentò di dominare la pena che provava e fingendo una falsa allegria esclamò: «Eccome se sta bene! È partita tre giorni fa per raggiungere il suo promesso sposo, e a quest’ora sarà felicemente maritata!».
La notizia ebbe l’effetto di un fulmine a ciel sereno: Niccolò si rabbuiò all’istante, gli occhi fuori dalle orbite.
«Angelica non può essere felicemente sposata con nessuno, perché lei vuole me! E io voglio sposare lei! Fatela tornare subito a Milano!» aggredì il canonico.
La voce di Niccolò saliva di tono, mentre Onorio cercava di fargli capire che ormai era troppo tardi – il matrimonio era già stato celebrato – ed era giusto così: la ragazza doveva obbedire ai suoi genitori.
«Non avreste mai potuto unirvi in matrimonio, voi due. Lo capisci? Tu sei destinato ad altro. Angelica è una cara e bella ragazza, ma non è la persona adatta a te.»
«E chi lo ha deciso? Voi? Chi può sapere qual è la persona giusta per me se non io? Io la amo, e la desidero al mio fianco. E voi non potete decidere sempre per me. Vi odio! Mi avete rovinato la vita!»
Scosso dai singhiozzi, schiumante di rabbia, Niccolò si gettò sull’anziano arcidiacono, strattonandolo. Sconvolto da quelle parole, il prelato opponeva una debole difesa, incapace di tranquillizzare il suo pupillo o almeno contenere la sua furia. Ben presto il trambusto fece accorrere un gruppetto di religiosi: «Calmati, Niccolò! Perché te la prendi con Onorio? Lascialo!».
Si avvicinò di corsa Tommaso Capra, il più giovane della Confraternita, l’unico in grado di fronteggiare fisicamente un ragazzo di quindici anni e, separatolo dall’arcidiacono, gli assestò uno schiaffone e poi un altro quando Niccolò cercò di assalirlo. Un attimo dopo si era scatenato un putiferio generale, con gente che urlava, si insultava, tentava di mettere pace. Le grida di Niccolò sovrastavano quelle di chiunque altro e il povero Onorio con la voce incrinata lo supplicava: «Niccolò! Per amor del cielo, ascoltami!».
Raffaele, in un angolo, scuoteva la testa, bofonchiando: «Lo sapevo, stregato anche lui! Al rogo bisogna metterle! Al rogo!».
Chiamato da qualcuno, giunse di corsa anche il padre di Angelica, appena rientrato a Milano, che si gettò subito nella mischia puntando su Niccolò. Il ragazzo, non appena lo vide, gli saltò addosso urlando: «Non ne avevate il diritto!».
Giacomo era ancora più furibondo di lui.
«Razza di furfante, traditore! Io non avrei il diritto di maritare mia figlia? Tu non avevi il diritto di ronzarle attorno come una mosca! Ma io te la faccio pagare, piccolo bastardo che non sei altro. Io non so e non voglio sapere cosa sia successo tra di voi, ma tu spera solo che suo marito non me la rimandi indietro, sennò ti ammazzo io stesso con le mie mani, quant’è vero Iddio!»
L’improperio attirò su Giacomo le proteste degli altri e Niccolò ne approfittò per fuggire dal centro della mischia. Di corsa raggiunse casa e, sotto gli occhi allibiti di Caterina, si precipitò in camera. Gettatosi sul pagliericcio, affondò la testa nel cuscino e prese a piangere disperato.
Quando Onorio lo raggiunse, parecchie ore più tardi, stava ancora singhiozzando. Si sedette al suo fianco e gli rivolse qualche parola di conforto, ma il ragazzo lo azzittì, dicendogli: «Vattene, non ti voglio vedere mai più! Ti odio!».
«Voi siete Lorenzo, vero?»
Il giovane ebbe un soprassalto e, per riflesso condizionato, portò svelto la mano destra al coltello appeso alla cintura, mentre girava su se stesso. Ma non appena constatò chi era stato a interpellarlo, si rilassò.
«Sì, perché? Cosa volete da me?» chiese stupito a Onorio. Era la prima volta che il tutore di Niccolò gli rivolgeva la parola. Sapeva da lui che i canonici non vedevano di buon occhio la loro amicizia e avevano spesso provato a dissuadere il discepolo dall’incontrarlo. Ma nessuno lo aveva mai affrontato direttamente.
«Non so più cosa fare» proruppe Onorio, afflitto. «Forse voi mi potete aiutare.» Allo sguardo interrogativo del giovane, gli riportò tutto quello che era accaduto nelle ultime due settimane. Dal giorno della lite Niccolò non aveva più messo piede fuori di casa. Passava la giornata a letto a piangere o a fissare il soffitto, mangiava poco o niente, non si lavava, non si curava. Avevano provato a convincerlo con le buone, con le cattive, minacciandolo e perfino sollevandolo di peso, ma lui aveva iniziato a gridare che voleva essere lasciato in pace e che se lo avessero seccato ancora si sarebbe ammazzato. E Onorio temeva che facesse sul serio.
«Non mi vuole dar retta» concluse. «Purtroppo io non sono in grado di consolarlo. Forse, in questo momento, l’unico che ci può riuscire è un amico. E io so che a voi è molto affezionato.»
Lorenzo, pur provando una punta di invidia – nessuno si era mai preoccupato così per lui – annuì pensieroso. Non era sicuro di riuscirci, ma ci avrebbe provato.
«Che odore tremendo! Apri subito la finestra!» esclamò Lorenzo entrando nella stanza di Niccolò. L’amico dormicchiava sul letto a pancia in giù. Nel sentire la voce familiare, schiuse un occhio.
«Cosa vuoi?» mugugnò, senza muoversi.
«Mi hanno detto che soffri per amore» lo canzonò l’altro, lasciandosi cadere su una sedia a fianco del giaciglio.
«E allora? Cosa c’è da ridere? Il fatto che tu non sappia cosa vuol dire questa parola non significa che gli altri ne debbano essere immuni.»
«Ah, siamo in vena di cattiverie. Secondo me nemmeno tu ne conosci bene il significato.»
«E tu cosa ne sai?» rispose Niccolò stizzito.
«Perché gli altri innamorati che ho conosciuto, quelli veri, si sforzavano di fare qualcosa per il loro amore, non stavano a disperarsi in branda.»
«Me l’hanno portata via a tradimento, prima che potessimo scappare. E ora è sposata con un altro. Non mi pare che io possa più fare molto.»
«Certo che puoi fare qualcosa. La puoi cercare, le puoi parlare. La puoi rapire. Ci sono mille cose più utili che piagnucolare come una femminuccia. Scommetto che lei, che è più tosta di te, si sta già organizzando per quando la andrai a prendere. Peccato che quel giorno non arriverà mai, perché ti stai dimostrando uno smidollato.»
Niccolò si mise a sedere. Aveva l’aria un po’ più sveglia, ora, nonostante gli occhi gonfi e arrossati.
«Ma se non so neppure con certezza dove l’hanno portata! Può essere ovunque. Come faccio a trovarla? E soprattutto: come faccio a portarla via?»
«Dimentichi che il qui presente può contare su una rete di informatori niente male… E, una volta che sappiamo dov’è, si può ragionare sul da farsi.»
«Davvero puoi scoprire dove sta?»
«Ci posso provare.»
«L’anno scorso si parlava di Lodi. Forse è lì che l’hanno portata.»
«Vedi che se ti impegni una soluzione si trova?»
«Lorenzo, aiutami a trovarla, e ti sarò per sempre debitore!»
«Io ti aiuto, ma solo a patto che ti alzi da quel letto, ti ripulisci come si deve e rimetti il naso fuori di casa. E vedi di parlare con quel brav’uomo di Onorio: lo stai facendo morire di crepacuore!»
Niccolò si lasciò cadere all’indietro sbuffando e, dopo un breve silenzio, sussurrò: «Va bene, ci proverò».
«Così mi piaci. Dài, tirati su. Vedrò di mettermi subito al lavoro.»
«Grazie, Lorenzo. Sei un vero amico.»
«Puoi ben dirlo, compare. Non so nemmeno io perché mi do tanto da fare per una checca come te…»
Non fu facile mantenere la promessa. Se Angelica fosse stata una nobile, qualche traccia in più se la sarebbe lasciata dietro, ma di una quindicenne, figlia di una fornaia e un maestro lapicida, portata via da Milano in fretta e furia due settimane prima, non se ne sapeva molto in giro. A forza di chiedere, però, qualche informazione era saltata fuori. I soldati di guardia a Porta Romana ricordavano vagamente di aver fatto passare in quei giorni un carro su cui viaggiava una famiglia composta da padre, madre e una fanciulla dai capelli castani, lisci e lunghissimi. L’avevano notata perché era molto carina, e perché litigava in continuazione con i genitori. Ma non erano sicuri né del giorno esatto né dell’identità della ragazza. Tuttavia, anche quello era un indizio a sostegno della tesi che Angelica fosse stata portata proprio a Lodi. Forse lì sarebbe stato possibile scoprire qualcosa in più.
Così, saputo che c’era un dispaccio urgente da consegnare al vescovo di Lodi, monsignor Carlo Pallavicino, Lorenzo si propose come volontario.
La mattinata non era ancora conclusa quando, superate le sedici miglia che dividevano Lodi da Milano, Lorenzo passò al trotto sotto la Pusterla di San Vincenzo senza che le guardie affacciate alla Specola, la torre di osservazione, una volta viste le insegne sforzesche, lo degnassero quasi di uno sguardo. Si diresse verso piazza Maggiore, in parte ancora in costruzione ma già splendida con i suoi portici, la bella facciata a salienti della cattedrale e gli eleganti palazzetti.
Dopo le molteplici distruzioni e i saccheggi che pochi decenni prima avevano flagellato la città, vicina al fronte bellico durante la guerra tra Milano e Venezia, in seguito al trattato proprio là siglato, Lodi stava vivendo un periodo di pace e di crescita economica e urbanistica, di cui si vedevano ovunque i segni.
Dalla piazza della cattedrale, attraverso una volta, Lorenzo si spostò a quella del mercato dove una folla animata si affaccendava intorno ai banchi dei venditori. Fattosi strada in mezzo alla calca, entrò nell’atrio del palazzo vescovile che qui si affacciava. Dopo aver affidato agli stallieri il cavallo e portato a termine il proprio compito di ambasciatore, iniziò a tempestare di domande chiunque avesse l’aria di sapere quanto avveniva in città. Nessuno però, tra i prelati e i servitori della curia, sembrava in grado di aiutarlo, perciò Lorenzo prese a interrogare i commercianti e i clienti assiepati in piazza.
Al suo domandare se conoscevano una giovane e bella milanese che si era sposata lì in città il mese precedente, otteneva invariabilmente in risposta un’alzata di spalle o uno scrollo di testa. Ma Lorenzo proseguì imperterrito nella sua indagine, finché a un tratto qualcuno gli tirò una manica.
Il ragazzo osservò perplesso la donna che si era gettata ai suoi piedi e gli baciava le mani, piangendo.
Quel volto gli pareva vagamente noto, ma non riusciva a collocarlo. Solo quando sopraggiunse anche il marito, si ripresentò alla sua mente una sequenza di immagini terribili. Quelli che aveva di fronte erano i contadini della cascina lodigiana! Ma perché quella donna, che era stata violentata dai suoi compagni, gli baciava le mani, invece di denunciare le malefatte subite e farlo linciare dalla folla?
Cercò di levarsi di dosso la vecchia ma quella continuava, mentre il marito, indirizzandogli un sorriso sdentato, gli diceva: «Abbiamo tanto sperato di rincontrarvi, Eccellenza. Abbiamo cercato di scoprire il vostro nome, per potervi ringraziare di averci aiutato. Vi dobbiamo tutto!».
Notando la sua espressione perplessa, la donna lo prese per una mano e lo trascinò fino a un piccolo carretto...