Ho visto cose...
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Racconti dalla patria del design: dieci scrittori per dieci oggetti di culto

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Racconti dalla patria del design: dieci scrittori per dieci oggetti di culto

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'Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi…' dice in Blade Runner il replicante Roy Batty, interpretato da Rutger Hauer, in una tra le scene più famose della storia del cinema. Immaginate, invece, e poi progettate e realizzate, sono le 'cose' che il design italiano ha saputo produrre in cinquant'anni, dai tempi della mitica Vespa, nell'immediato dopoguerra, fino alle fiammeggianti sperimentazioni pop degli anni Novanta, passando per i decenni gloriosi dei Sessanta e Settanta, quando grandi architetti e ingegneri hanno messo la propria creatività al servizio dell'industria. Oggetti e stili, cioè modi di guardare il mondo e di condensarlo in una forma. O in un racconto, come accade in questa antologia. Dieci oggetti di design italiano, ognuno dei quali ha saputo segnare un'epoca, e dieci scrittori italiani, dieci sguardi e dieci stili. Nelle loro storie – ironiche, intense, drammatiche o divertenti – questi oggetti rivivono, facendoci sentire la qualità del tempo trascorso, il modo in cui siamo cambiati, come l'Italia è diventato un Paese diverso. A cura di Giorgio Vasta

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858651490
Argomento
Design
Ho visto cose…

Non ci sono più le Vespe di una volta

Andrea Bajani

Non so dire il perché, ma quando vedo una Vespa non riesco a non pensare a quegli uomini e quelle donne che una volta dicevano di essere comunisti e poi all’improvviso hanno cominciato a dire Non lo sono mai stato. Mi succede ogni volta così, è un riflesso condizionato. Di fronte alla Vespa mi nasce un pensiero politico, che parte dalla mia prima Vespa PK 50 e arriva fino a oggi. Mi viene anche da pensare ai cortei di questi ultimi anni, che sembrano le insegne tristi delle pizzerie di quart’ordine, di quelle che hanno sempre almeno una lettera fulminata. E mi viene da pensare a un incontro di qualche tempo fa. Un signore che mi diceva che la Vespa non era più quella di una volta, che secondo me era un’affermazione politica. Era il 4 luglio del 2007, lo ricordo bene. Un corteo immenso invadeva il centro di Torino. Era un corteo che non sembrava un’insegna difettosa di una pizzeria qualsiasi. Tutt’altro. Sembrava un corteo in piena regola, un corteo di quelli di un tempo. Quando l’ho visto ho avuto un tuffo al cuore. Era sera, ero vicino a piazza Vittorio, in bicicletta, e quando ho visto tutta quella gente ho pensato È scoppiata la rivoluzione. A posteriori, quel giorno lo ricordo come un giorno di demenza collettiva.
I cortei mi hanno sempre colpito. Negli ultimi anni sono diventati un’occupazione per gente distratta. A vederli, così limacciosi e lenti, stringono il cuore, viene voglia di spingerli, di fargli coraggio. Si scende in piazza senza strepiti, come anziani a prendere un po’ d’aria, respirare bene. Si manifesta con calma, un po’ accidiosamente, trascinandosi dalla partenza fino all’arrivo sotto il palco. Poi si finisce con qualche applauso senza pretese, le mani che si infilano in tasca, e poi tutti a tavola. I cortei degli ultimi anni sono sfilate un po’ tristi, marce che sembrano ritirate. Persone che prima di guardarle in faccia ti sembrano gente che va all’attacco, poi quando le guardi sembra che non lo sappiano nemmeno loro, dove stanno andando.
Dentro i cortei degli ultimi anni ci sono quelli che stanno mollemente in riga dietro striscioni portati male. Parlano sorridono e salutano, e non si accorgono che lo striscione va giù, che si sgonfia come un canotto bucato, con le lettere che si accavallano e non si capisce più cosa c’è scritto. Ad esempio VERGOGNA diventa ERGO, se i primi e gli ultimi della riga mollano la presa. Poi ci sono quelli che se è in corso una ripresa televisiva parlano al telefonino e ripetono Mi vedi? Mi vedi? Mi vedi? guardando in camera. Infine ci sono quelli che si fermano a parlare con gli spettatori, che stanno sul bordo come tifosi di una corsa ciclistica. Stanno lì e guardano la moltitudine parlare, ridere e mangiare focacce, e in mezzo a quella moltitudine cercano di individuare qualcuno che conoscono. Quando lo intercettano, il manifestante si stacca dal corteo e va a mangiare la focaccia insieme a loro, per poi tornare a incolonnarsi.
Come dicevo, io però il 4 luglio del 2007 ho visto un corteo che era tutto diverso dai cortei degli ultimi anni. Pieno, gonfio, un’insegna con tutte le lettere accese. Ricordo, dicevo, di aver pensato È scoppiata la rivoluzione. Ho anche pensato Vedere tutta questa gente con degli ideali, quali che siano, è una cosa che fa bene alla vita, dà consolazione. L’ho pensato senza ironia, perché tutta quella gente che viene giù così determinata nel centro di Torino, mi sono detto, non può che essere diretta verso la rivoluzione. Così sono entrato in un bar, ho chiesto un caffè e sono stato a godermi la vista della rivoluzione. Poi ho chiesto il perché di tutto quel fiume di gente che veniva giù così determinata. Mi hanno risposto Presentano la nuova Cinquecento.
Io ci sono rimasto male. Malissimo, anzi. Poi però lì nel bar è successa un’altra cosa, che mi ha distratto dalla mia tristezza. C’era un signore che confondeva la Cinquecento con la Vespa. Invece di dire la Cinquecento, diceva la Vespa, e tutti lo correggevano, dicevano È la Cinquecento. Poi diceva di nuovo la Vespa, e tutti a dirgli No, è la Cinquecento. Poi alla fine ha detto Non ci sono più le Vespe di una volta, né le Vespe né le Cinquecento. L’ha detto arrabbiato, alzando il pugno in aria, come se non parlasse veramente né della Vespa né della Cinquecento ma facesse un discorso politico. Ecco, a me la confusione di questo signore, il corteo che scendeva giù verso piazza Vittorio, la Vespa che non era più quella di una volta, tutte queste cose insieme mi hanno fatto pensare a quei signori che una volta dicevano di essere comunisti e poi hanno cominciato a dire Non lo sono mai stato.
Quando ho avuto la prima Vespa era il 1989. Il 1989 è stato un anno molto importante, di grandi discussioni sulle identità, sulla memoria e sul futuro. Si diceva che c’erano dei grandi venti di cambiamento che investivano ogni settore della società civile. Se chiedi a chiunque che cos’era il 1989 per lui, ti dice C’erano dei grandi venti di cambiamento. Dicevano Il comunismo non è più quello di una volta, da oggi. E così in Italia tutti parlavano di una cosa che si chiamava la Cosa, a quei tempi. O meglio ne parlavano le persone più grandi. I padri, gli zii e i nonni, tendenzialmente. Noi ci occupavamo di motorini, misure, ragazzine e brufoli sulla faccia. Io, avevo 14 anni, nel 1989, e questo scioglilingua di una cosa che si chiamava la Cosa, mi pareva di doverci mettere del mio, indovinare cosa fosse. Come nelle barzellette intelligenti che circolavano in quegli anni. Qual è quella cosa che odora di rosa ma rosa non è? La saponetta. Ecco. In quel 1989 in cui tutti i settori della società civile erano investiti dai grandi venti del cambiamento, e i più grandi si occupavano della Cosa, noi più piccoli ci occupavano di capire che cosa fosse, la Cosa. Ci guardavamo intorno cercando di associare al termine Cosa qualunque oggetto o persona che ci riguardasse da vicino.
Qual è quella cosa che una volta era chiaro che cosa fosse, che poi a un certo punto ha cominciato a non capirsi più cosa fosse, perché il passato era passato e il futuro era un’incognita? Qual è quella cosa che una volta tutti dicevano che solo a nominarla tutti si sentivano bene e invece adesso a nominarla dicono Non mi sento più tanto bene? Qual è quella cosa che una volta tutti vedendola dicevano Madonna che bella, e poi improvvisamente hanno cominciato a dire Dio mio cos’è diventata?

La Vespa.

La Cosa non poteva che essere la Vespa. In più bisogna dire che, nonostante fosse passata del tutto inosservata, la Piaggio nel 1987 aveva messo in commercio una specie di Vespa di plastica chiamata proprio Cosa, ma era stata un disastro, non la voleva nessuno. Una specie di premonizione di quell’altra Cosa di cui parlavano i grandi, il rischio che si corre tutte le volte che tiri fuori delle cose di plastica. Poi non le vuole nessuno, e soprattutto passano degli anni e nessuno se le ricorda più. Al di là dell’insuccesso clamoroso del modello di transizione che la Piaggio aveva messo in commercio, per la Vespa il 1989 è stato in effetti un anno di venti di cambiamento.
La mia prima Vespa è stata un PK 50. Era il settembre del 1989, ed era dal 16 agosto del 1988, giorno in cui avevo spento in unico soffio tredici candeline, che aspettavo quel momento. Per un anno avevo sospirato guardando le Vespe che mi passavano davanti, e sospirando pensavo Tra un anno ci sarò anch’io. Essere come i guidatori di Vespa voleva dire essere più liberi, più aggressivi e più combattivi degli altri. Tutte le Vespe che circolavano erano Vespe d’arrembaggio, vecchie Special asciutte e combattive, la carena slanciata di un siluro e la magrezza slanciata di un cane da caccia. Le guardavo passare come si guardano gli eroi, partigiani che corrono sulle montagne, pronti a tutto in nome della rivoluzione. Niente a che vedere con gli altri motorini, reazionari e di facciata.
Quelli in effetti erano anni di scontri violenti, quasi di barricate. Pur di difendere la propria posizione si era disposti a tutto, anche alle minacce, quando non a venire alle mani. Erano anni in cui le posizioni erano molto chiare: o da una parte o dall’altra. O col Fifty o con la Vespa. Dal punto di vista dei consensi, non c’era partita. Il Fifty aveva la meglio. L’Italia di quegli anni era investita da un grande vento conformista, dicevamo noi. La Vespa aveva una lunga tradizione, aveva una storia gloriosa che si portava dietro a ogni metro di strada. I Fifty, viceversa, erano patacche. Frubi, si diceva in provincia di Cuneo, giocattoli da mercatino che dopo due giorni si scassano. I Fifty infestavano l’Italia di quegli anni, portavano in giro ragazzini mentecatti e ignoranti, tutti gel in testa, casco al braccio e occhiali a specchio. Gente che, in provincia di Cuneo, sapeva solo dire Diofà. Li sentivi arrivare da chilometri, le marmitte bucate, l’accelerazione a singhiozzo, e qualche impennata davanti alla piazza, sempre col casco al braccio e gli occhiali a specchio. Quando stavano fermi non spegnevano mai il motorino (che loro chiamavano Moto), e anzi facevano delle piccole false partenze, con le mani sui freni. In quel modo simulavano coiti con le ragazze che li guardavano, o risse con noi concorrenti. Poi quando aprivano bocca, Diofà, Diofà, Diofà.
Ma poi era arrivata la mia Vespa. Settembre 1989. Quando l’ho vista in vetrina, la Vespa PK 50, mi si è stretto un po’ il cuore. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la Vespa sa che il PK 50 ha segnato il tramonto degli ideali. Non era più la Vespa gloriosa di un tempo, non era magra e slanciata come un cane da caccia, né aggressiva come un siluro. Era un po’ rotonda, fianchi larghi, bauletto davanti, una cosa per signore. Non aveva più niente di guerrigliero, stava anzi diventando un mezzo per andare a far merenda nei prati con la coperta e le bocce. Certo si vedeva che dietro c’era qualcosa, che una volta era stata altro, si intravedeva la Storia.
Il 1989 ha segnato l’inizio di un declino da cui in effetti non ci si è mai ripresi. La tradizionale contesa con i Fifty ha avuto momenti difficili e si è poi risolta in una metodica distruzione reciproca. I venti del cambiamento avevano investito così a fondo anche la Vespa, che era quasi impossibile spuntarla. Noi avevamo la complessità della tradizione dalla nostra parte: avevamo quattro marce invece delle tre frettolose e volgari del Fifty. Ma per il resto la Vespa era effettivamente diventata né carne né pesce, e molti di noi avevano cominciato a portare il casco al braccio, il gel nei capelli e gli occhiali a specchio. Qualcuno aveva addirittura montato la radio, nel bauletto davanti. Così quando si andava nel prato con la coperta e le bocce, si poteva anche ascoltare la musica. Qualcuno diceva anche Diofà. I grandi nel frattempo non parlavano più della Cosa. Qualcuno diceva che il rinnovamento era importante, che il passato è passato. Ma i più non ne parlavano per niente, andavano a fare le merende sui prati con le coperte.
I venti del cambiamento però hanno spazzato via tutto, e della contesa tra Fifty e Vespa non si è quasi più sentito parlare. La Vespa ha ancora giocato la carta di perdere in complessità, e così ha tolto una marcia ed è scesa al livello del Fifty. Perché fare quattro passaggi per arrivare alla velocità massima, quando con tre è tutto più semplice, più snello, più dinamico? Ma perdere di complessità non ha dato i suoi frutti, perché a mettersi sullo stesso livello del Fifty, il Fifty vinceva. Era più gradasso, faceva più rumore, andava più forte. Poi il tempo ha spazzato via il Fifty, mentre le Vespa è rimasta aggrappata allo scoglio. Non troppi consensi, ma sempre a rinnovarsi, restare visibile, sempre a cercare un aspetto più adatto, uno stile più consono, più dinamico, più adatto ai tempi che corrono.
Ecco, questa storia finisce il 4 luglio 2007, nel centro di Torino. Il giorno in cui a Torino hanno presentato la nuova Cinquecento. Finisce di fronte al corteo più nutrito e determinato che io abbia visto negli ultimi dieci anni. Finisce di fronte a quel fiume di gente che ho visto scendere come un battaglione tra piazza Castello e piazza Vittorio. Nessuno che urlava Mi vedi? Mi vedi? Nessuno che mangiava focaccia, nessuno che si distraeva. Finisce di fronte al pensiero È scoppiata la rivoluzione, che era un pensiero politico. Finisce di fronte a una constatazione che ho fatto. Tutta questa gente è scesa in strada per una macchina. Che è una constatazione politica.
E così sono rimasto sul bordo a vederlo sfilare tutto, il corteo, fino all’ultimo manifestante. Manifestava la sua felicità perché nel mondo esisteva una nuova macchina. E accanto a me mi sono ritrovato il signore che scambiava la Cinquecento per la Vespa, quello che alzava il pugno chiuso. Quando mi sono accorto di lui gli ho detto Si è proprio arrabbiato, prima. Lui era in sella a uno scooter, e guardava quell’alluvione di persone infervorate. Gli ho guardato lo scooter, e lui per giustificarsi mi ha detto Due mesi fa mi hanno rubato la Vespa, una Special del ’72. Ha aggiunto Mia figlia mi ha comprato questa, dice che è una Vespa. Ma è identica a tutti gli altri scooter, non ha nemmeno le marce. Troppa fatica, cambiare le marce. Se una cosa è nuova, ha detto poi guardando il corteo, tutti gli van dietro. Poi si è infilato il casco, e da lì dentro ha urlato E non dica che son nostalgico.
E a me, lì fermo all’ingresso di piazza Vittorio, mi è venuto in mente Leopardi. Quello che diceva delle nazioni, ma che vale anche per le persone. Scriveva Una volta cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non sono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite. Poi, poco sotto, Leopardi aggiungeva Quando saremo tutti uguali, ma domando io che utile ce ne verrà.

La prova fisica del mondo

Gian Luca Favetto

Uno scrive per gli innamoranti, gli altri
lascino perdere. O abbiano molta pazienza.
Aleksandr M. Schrebar
Lei ha la destra stretta a pugno, il pollice piegato sull’indice e il medio. Si intravede un anello all’anulare, opaco come se il tempo avesse offerto riposo alla preziosità dell’oro e delle gemme che fasciano il dito – anche gli anelli invecchiano con le dita che li portano. Le unghie sono rivolte verso l’alto. Il gomito è appoggiato al bracciolo. La poltrona viene da una canonica – c’è stato uno zio prete in famiglia. Il sedile e lo schienale scricchiolano di cuoio scuro, screpolato. Lei è adesso. E adesso potrebbe essere una bambina, con tutti i suoi anni una bambina, non una vecchia, adesso con tutti i suoi anni potrebbe essere la bambina che è stata prima che tutti i suoi anni arrivassero e anche la donna che tutti i suoi anni ha amato, una donna con il sorriso, questo sorriso, le labbra lucide di burro cacao, increspate là dove si congiungono al principio della guancia, sul lato destro del viso, che è sempre stato antico, lo dicevano i grandi, questa bambina ha un viso antico, per come soppiegava le labbra e gli occhi, che non guardavano diritto, e per come gli zigomi si pronunciavano magri, allora come adesso, tepidamente assopita in un pomeriggio di ottobre.
La stanza ha mappamondi, carte geografiche segnate a matita, ricognizioni di viaggi altrui, e poi qualche candela, due tappeti, tre comodini, un divano, una bassa credenza laccata, uno specchio, un appendiabiti a muro, un baule da corredo: è la stanza superflua della casa, la sua stanza. Ospita solo il tempo e la pazienza, il piacere dello stare e dei ricordi.
Non è una camera da letto, non è una sala, non serve a nulla se non alla sosta. Ci sono tre finestre con un balcone, e qualche metro di libri, un poggiapiedi in stoffa azzurra, un tavolo senza cassetti, una macchina per scrivere, un vecchio manifesto dell’Istituto Nazionale Assicurazioni che annuncia Vittoria sul tempo e una vetrinetta da farmacia. C’è stato uno zio farmacista in famiglia, il fratello di suo padre, che riposi in pace suo padre, ovunque sia finito, forse nella bocca di un vulcano, così brontolava lo zio, tuo padre era tanto curioso, tanto impestato e non si faceva mai gli affari suoi che preferiva finire in bocca a un vulcano piuttosto che ritirare la testa, qualcosa devi aver preso dal padre, le diceva, ti t-he pjâ dàl teu pâri, diceva, riposi in pace anche lo zio, che quando se ne è andato ha c...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione di Enzo Mari
  5. HO VISTO COSE…
  6. SOGGETTI E OGGETTI