Il mulino di Ofelia
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Il mulino di Ofelia

Uomini e dei

  1. 260 pagine
  2. Italian
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Il mulino di Ofelia

Uomini e dei

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"Ho voluto spiegare le religioni con estrema semplicità e assoluto rigore nel livello dei concetti, partendo dalla constatazione che, a prescindere dalle differenze fra l'una e l'altra, esse sono una creazione del pensiero umano e rispondono a due bisogni fondamentali strettamente connessi. Il primo: fornire una spiegazione della morte; il secondo: mettere in atto un potere che la domini." Da questa prospettiva nasce la ricerca di Ida Magli sulle religioni, un saggio potente che con meticolosità e brillanti intuizioni indaga la struttura profonda delle principali fedi del mondo e fa emergere i legami tra i diversi culti. In un'analisi che esamina i temi eterni delle religioni - la trascendenza, la paura, il potere, la conoscenza, la morte, l'Aldilà -, l'autrice riflette sulle grandi trasformazioni che esse stanno vivendo nella società contemporanea. E ci mostra perché, ancora oggi, raccontare le religioni "significa raccontare la solitudine, accompagnare gli uomini di ogni epoca nei loro innumerevoli tentativi per uscirne".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858650868

I

Le strutture universali del Sacro

1. La creazione del Sacro: Potere e Potenza
a) La Cultura e il suo strumento
È molto triste, ma anche molto illuminante, che ci si trovi a dover parlare del Potere, e della Potenza che ne è la forza e con la quale agisce, nell’angolo più nascosto, più remoto, anzi addirittura estromesso dal sapere scientifico: quello delle Religioni, del Sacro. È triste perché conferma ciò che tutti sperimentiamo ogni giorno, e che abbiamo sperimentato sempre, nella lunghissima storia che abbiamo alle spalle: la battaglia contro il potere è una battaglia impossibile, perduta in partenza. È perduta perché il Potere è nascosto proprio là dove si crede di riuscire a trovare gli strumenti per combatterlo, in ciò che appare come costituito prima del Potere, più forte del Potere, più Potente: la Divinità, gli Dei, Dio.
Abbiamo pronunciato adesso le due parole chiave di tutto il discorso che faremo in questo libro: Potere e Potenza. Alla base del “Sacro” c’è il Potere. Oppure, se vogliamo essere più precisi: il Sacro è proiezione del Potere. È l’ambito esterno a noi, che ci circonda, nel quale viviamo, respiriamo, agiamo, moriamo, senza potercene liberare mai, e che, proprio per questo, ci sfugge, non lo vediamo, non lo conosciamo. Proiezione del Potere significa che esiste un Soggetto agente che trasferisce all’esterno di sé, trasformandolo in rappresentazione trascendente e in Oggetto, ciò che possiede, e che è carico della sua Potenza. Tutti termini fondamentali, quelli elencati qui, e purtroppo assolutamente insufficienti a coprire il vastissimo ambito dei fenomeni nei quali li si adopera. Ma questa povertà di linguaggio è anch’essa una prova del nascondimento, del mistero, al quale fa ricorso il Potere per esercitare al massimo la sua Potenza. Cercheremo di chiarire, nell’itinerario che faremo lungo le Religioni, almeno questo punto essenziale: il Potere adopera il Sacro, il timore che suscita il Sacro, per tenerci lontani dalla sua sorgente primaria. Una sorgente che, però, è continuamente sotto i nostri occhi e che si rivela nel momento stesso che pronunciamo le parole che stiamo pronunciando: Potere e Potenza.
Prima di affrontare direttamente il contenuto significativo di questi due termini, dobbiamo soffermarci su quanto ci ha permesso di compiere almeno un primo passo: separare la categoria del Potere da quella della Potenza che vi era implicita, ma che è giunta a consapevolezza soltanto attraverso gli studi antropologici. L’antropologia è una disciplina di per sé traumatizzante, per quello che dice e che rivela, ma soprattutto per quello che, pur non dicendolo a causa dell’estrema prudenza metodologica (ed anche della pruderie) dei primi antropologi, tuttavia giunge come una luce accecante agli occhi e alla coscienza di coloro che vi si accostano.
Quando, nel 1871, l’antropologo Edward Tylor definì la cultura come un “complesso insieme di norme, di valori, di costumi, di tecniche...” si compì un passo fondamentale per giungere al concetto moderno di “cultura”. Un concetto ben diverso da quello che per secoli era stato adoperato come analogo a quello di “civiltà”. Il carattere del tutto nuovo e, alla fine, rivoluzionario, era inserito in quel “complesso insieme”, ossia nell’aver capito che ciò che conta in una cultura è il suo essere un sistema concluso in se stesso, un tutto interrelato di funzioni, di norme, di tratti nel quale il profilo significativo è una configurazione gestaltica, il risultato, non della somma, ma della integrazione dei singoli fattori.
Malgrado fosse stato compiuto con Tylor un passo determinante nella definizione di cultura, mancava ancora, almeno in forma esplicita e consapevole, il concetto di “proiezione”, di “esteriorizzazione” al di fuori dell’organismo che fa della cultura quasi una specie di duplicato, una costruzione sempre più voluminosa e sempre più distante dall’organismo biologico: un ambiente esterno all’organismo nel quale tuttavia l’uomo è immerso in un continuo e costante interscambio. Questa più precisa definizione di Cultura è stata messa a punto dallo studioso francese della preistoria André Leroi-Gourhan il quale ha visto nella liberazione della mano dovuta alla stazione eretta il primo formarsi di un utensile che lavora fuori dall’organismo. È questo che ha dato il via a quella costruzione sempre più estesa cui diamo il nome di Cultura e che, come dice Leroi-Gourhan nel saggio Il gesto e la parola, l’uomo porta ormai a stento sopra la testa come se fosse una enorme piramide rovesciata.
Sembra strano che perfino gli studiosi che hanno messo l’accento sulla azione della mano per la costruzione della Cultura, pur essendo di sesso maschile, non abbiano mai pensato al pene come a un membro che si muove e agisce all’esterno dell’organismo. Sebbene venga nominato come “il membro”, il membro per eccellenza, il pene non viene preso in considerazione per la costruzione culturale, e anzi il silenzio che lo circonda nei libri di antropologia, così come in quelli di storia, rappresenta di per sé un fatto sorprendente e significativo. È un silenzio, però, smentito dai dati che ne dimostrano la centralità, sia nel linguaggio che fonda sulla “potenza” del pene, sulla vis, una rete estesissima di vocaboli, di immagini, di significati e di valori, sia sull’intreccio quasi infinito di simboli che si ritrovano alla base del comportamento di tutti i popoli. Per compilare una Enciclopedia Penica sarebbe necessario l’apporto di numerosi specialisti, ma il risultato sarebbe sorprendente. In realtà il pene è un “utensile” di grande complessità il cui funzionamento è esemplare; un perfetto prototipo di motore fornito dalla Natura in quanto non soltanto si erige e si prolunga, produce energia-calore e “proietta” lontano da sé un getto che colpisce un bersaglio, ma permette all’uomo sia di misurarne internamente la forza d’emissione che di vederne all’esterno il risultato. Non c’è attrezzo, non c’è arma, che non copi sotto qualche aspetto la forma, il meccanismo e la funzione del pene.
Tutti gli uomini lo sanno e lo hanno sempre saputo. La più antica rappresentazione che possediamo si trova nella grotta sottomarina Cosquer, nei pressi di Marsiglia, datata al 28.000 a.C. La silhouette caratteristica di quello che gli studiosi chiamano compuntamente “fallo” (l’uso della lingua straniera serve a stabilire la evitazione, il tabù, la distanza di rispetto) la si riconosce ovunque dato che le sue varianti concrete e simboliche sono praticamente innumerevoli. Non c’è “pietra eretta”, non c’è menhir, non c’è stele, non c’è obelisco, non c’è torre (esplicitamente chiamata “maschio”) che non parli del Pene, cui dobbiamo per forza mettere la maiuscola in quanto siamo già passati al simbolo. Anche intorno al “simbolo” però gli studiosi si sono tenuti alla larga, definendo gli innumerevoli “falli” che spuntano ovunque, come strumenti augurali di fertilità, bonaccioni guardiani degli orti; oppure, massima concessione alla mascolinità, schermata dal distanziamento linguistico, in funzione “apotropaica” di intimorimento del nemico. Inutile chiedere, però, perché mai i nemici dovrebbero intimorirsi davanti ai “falli”: il significato di massima potenza appare talmente ovvio che nessuno lo spiega. Rimane il fatto, comunque, che la presenza di simboli penici (sarà bene non chiamarli più “falli”) nei posti più alti, più difficili da conquistare, oppure a segnale di completamento felice di costruzioni importanti, testimonia della difficoltà della vittoria e al tempo stesso della oggettivazione che il maschio fa dello sforzo sempre a rischio di fallimento (sì, il termine non è casuale) del proprio pene. Certamente non è un caso se in fondo al Vallo di Adriano, il muro lungo 120 chilometri che taglia la Gran Bretagna dal Mare del Nord fino a Bowness nel mare di Irlanda, si trova scolpito proprio l’ennesimo pene. Del resto non si può credere che l’uomo non abbia riflettuto sul funzionamento del pene e non se ne sia servito per la vita concreta come ha fatto con molte altre parti del corpo. Le “misure”, per esempio, sono state fissate in base a quelle della mano, del piede, del braccio, del passo, del pollice; il “giramaschi” di un trapano preistorico si chiama proprio così, ma tutti gli oggetti composti di una parte che “penetra” e di una che viene penetrata si distinguono abitualmente ancor oggi in “maschio” e “femmina”. L’acciarino è formato di maschio e di femmina, il che permette di supporre che l’idea di poter produrre calore col movimento sfregando un punteruolo in modo accelerato contro una pietra o contro un legno, sia stata suggerita dall’esperienza, senza dubbio illuminante, del funzionamento del pene.
Non è stato l’antropologo di sesso femminile a dare questi nomi a oggetti in uso fin dalla prima invenzione della tecnica. Il silenzio su questo dato fondamentale da parte di tanti uomini che hanno speso la vita a studiare le tecniche per la fabbricazione degli oggetti, più che stupire addirittura intimorisce. Ha taciuto Leroi-Gourhan al quale dobbiamo lo studio più completo in questo campo nei volumi dedicati a L’uomo e la materia e all’Ambiente e tecniche, tanto che ne comincia la storia con il “portare umano”, ossia con la descrizione di come le madri portano il neonato, inserendo via via centinaia di disegni dei primi utensili in uso in tutte le parti del mondo e la cui forma parla da sola. Perfino Leonardo ha taciuto. Eppure chi più di lui ha riflettuto sul “moto”, partendo proprio dal corpo umano? Per quante tracce, abbozzi grafici abbia lasciato della sua concentratissima analisi dei movimenti del corpo umano, non si è riusciti a trovare uno spunto che parta dal pene. Stiamo parlando di uno spunto per la proiezione del moto del pene nelle tecniche, ovviamente, non dell’esistenza del pene come membro del corpo alla pari delle altre membra. Di che cosa hanno paura i maschi, dunque? Perché gli hanno dato un nome così dispregiativo come quello di “piccola coda”? Forse non riescono a concepirlo come uno “strumento” perché non può evolversi? Perché non può allenarsi, non può migliorare le sue prestazioni così come si fa con le gambe, con le braccia, con le dita? Oppure perché non se ne sentono mai del tutto padroni? Alberto Moravia ha dato un titolo eloquente a un suo libro dedicato a questo argomento: Io e Lui. Ma almeno ha il merito di averne parlato. In confronto un filosofo famoso come Arthur Schopenhauer, che nella sua Metafisica della Sessualità si vanta di essere il primo ad aver trattato con tanto coraggio di questo argomento e che tuttavia non fa il minimo accenno al pene, addirittura sconcerta.
Quando i maschi parlano del “desiderio” (e lo fanno di continuo anche nei commenti biblici, a partire dal Decalogo che comanda di “non desiderare la donna d’altri”), a che cosa si riferiscono se non all’erezione del pene? Né si dica che degli “organi” in filosofia o in storia non si parla perché, per quanto riguarda le donne, non si è fatto altro. Basterebbe il linguaggio con il quale la Chiesa tratta della Madonna, perfino nelle preghiere liturgiche, per rimanere traumatizzati dalla brutale concretezza dei termini e dei concetti.
Non horruisti Virginis uterum” canta esplicitamente il Te Deum. Sarebbe sufficiente quell’espressione così forte, quel “non horruisti”, ossia “non hai avuto un terribile timore dell’utero, non ti sei ritratto con orrore davanti all’utero” a far comprendere molte cose non dette. Gli Inni alla Madonna ripetono sempre gli stessi termini e gli stessi concetti:
La dimora virginale è ormai pronta in tutta la sua bellezza affinché ne esca lo sposo... La vergine Maria, il sacrario delle nozze del Verbo con la carne, l’animato roveto che il fuoco di un parto divino non consumò... La sola che senza il piacere dei sensi è divenuta gravida e senza dolore ha partorito... Cresce il grembo della Vergine ma resta intatto il chiostro del pudore... Dal grembo casto e regale avanza come dal suo talamo, l’eccelso Dio-uomo...
Vergine, vergine, vergine: questa parola che ha ossessionato le donne, testimonia unicamente dell’esperienza che il maschio fa attraverso il pene della conformazione interna del corpo femminile. Nessuna donna, altrimenti, avrebbe saputo dell’esistenza dell’imene (termine che soltanto i maschi possono avere inventato). Comunque, con il tranquillizzante e immediato passaggio alla sessualità come procreazione, come fecondazione, come fertilità, si è sempre placidamente “saltato” il pene e il suo “desiderio”.
Ma se storici, esegeti, teologi, filosofi, hanno taciuto, cosa dire degli antropologi? Sono stati loro a raccogliere con scrupolosa pazienza migliaia di racconti “mitici” nei quali si narrano con disinvoltura metamorfosi, avventure, gesta di animali e di esseri umani che fondano, danno inizio alla storia della vita, ma nessuno ha mai fatto cenno alla “furbizia penica” di queste avventure. Claude Lévi-Strauss ha scritto con il suo Le strutture elementari della parentela un testo essenziale per comprendere come si formino le società partendo dallo scambio delle donne:
Tu dai una delle tue donne a me, e io do una delle mie donne a te... Nel momento in cui io vieto a me stesso di usare una donna della quale, di conseguenza, un altro uomo può disporre c’è da qualche altra parte un uomo che rinuncia a una donna che perciò diviene disponibile per me... È necessario dunque che le donne vengano scambiate perché la vita sociale del gruppo esista, ma l’istinto sessuale è il solo che, per definirsi, abbia bisogno dello stimolo altrui... Il più importante degli scambi è quello che riguarda le donne, da un lato perché le donne costituiscono il bene per eccellenza; soprattutto però perché le donne sono uno “stimolo naturale” (le virgolette sono dell’Autore).
Lévi-Strauss si è preoccupato anche di precisare che il Soggetto dell’azione è un maschio, sempre e soltanto un maschio: “La donna non è altro che il simbolo della Stirpe...”. Infine, tanto per non lasciare neanche uno spiraglio a coloro – le femministe soprattutto – che si erano appoggiati alla discendenza matrilineare per trarne qualche conferma all’ipotesi di un originario matriarcato come forma di potere delle donne, aggiunge: “La filiazione matrilineare è la mano del padre o del fratello che giunge fino al villaggio del cognato”.
Strano destino quello di Lévi-Strauss. Le strutture elementari della parentela erano la tesi di laurea di un ragazzo bene accolto nell’ambiente dove i migliori cervelli di Francia si erano resi conto delle potenzialità esplosive del metodo antropologico per innovare sia la filosofia che la storia: il salotto di Jean-Paul Sartre. La prima citazione di questa tesi di laurea si trova, con un acuto elogio della sua novità, nel famoso libro di Simone de Beauvoir: Il secondo sesso. Strano destino nel senso che Lévi-Strauss ha studiato miti, segni, simboli analizzandoli di continuo in base alla loro funzione oppositiva e quindi prima di tutto in base al “genere”, maschile e femminile, ma dell’unica cosa che pone la differenza non parla. Aggiunge infatti alla frase già citata una precisazione che è quasi una richiesta di scuse, ma che è totalmente erronea: “la situazione sarebbe stata la stessa se a circolare fossero stati i maschi invece che le femmine”. Il fatto è che non avrebbero mai potuto essere i maschi a circolare perché i maschi non possono essere costretti all’erezione. È per questo che sono i maschi a detenere il Potere. Le donne non sono altro che una loro proprietà perché possono sempre essere costrette a subire la penetrazione e la fecondazione.
Bisogna perciò tornare al Pene. “La merce più preziosa” sono i maschi. Per procreare sono senza dubbio necessari ambedue i sessi ma, come i maschi sanno benissimo (ivi incluso Lévi-Strauss), in ogni guerra, nel passato così come oggi, i vincitori sottolineano la loro vittoria stuprando le donne del nemico. La fecondazione è secondaria: violentare le donne del nemico significa mettersi direttamente in contatto con lui togliendogli lo strumento dello scambio. Il maschio può essere “sodomizzato” dal vincitore, ossia ridotto a femmina, privato simbolicamente, ma molte volte anche concretamente, della sua vis. Ma si tratta sempre della vis di chi combatte, di chi vince o perde, non di chi procrea.
b) Pensare, conoscere e vedere
Dal punto di vista della costruzione culturale, l’aspetto più importante dell’esperienza compiuta dal maschio nell’azione del pene è il poterne vedere gli effetti. Spesso i bambini gareggiano nel gettare il più possibile lontano l’orina cercando di colpire un bersaglio; anzi il bersaglio è diventato così costitutivo dell’azione di orinare che gli orinatoi sono appunto costruiti in modo da offrire un bersaglio, cosa che ovviamente dal punto di vista fisiologico non è affatto necessaria. D’altra parte è sicuro che il maschio, ovunque si trovi anche all’aperto, cerca sempre qualcosa, un muro, un albero, contro il quale gettare l’orina. Colpire un bersaglio è stato un passo fondamentale per la formazione del concetto di oggetto. Il bersaglio è l’altro da sé e, come tale, il non-me. Dato che l’unico portatore del pene è il maschio, il bersaglio è in prima istanza il corpo della donna, e per estensione analogica via via la femminilità di tutto ciò che è il non-me, debolezza, passività, inferiorità, possesso, proprietà. Il primo costruttore di “oggetti”, dunque, è il Pene. Il fondatore del Potere è il Pene. Il silenzio che lo avvolge è un silenzio sacro. Soggetto e simbolo della forza, della potenza, della definizione dell’uomo in quanto essere culturale, il Pene è un segno significante in assoluto, misura di tutte le cose, codice esplicativo di tutti gli altri “segni”. Nel Pene essenza, segno e simbolo coincidono.
Quasi sempre gli studiosi hanno interpretato la presenza dei simboli penici come segnale della forza sessuale. Ma la forza del Pene è ben altro. La funzione fecondatrice è soltanto una delle conseguenze della sua potenza, della sua vis, che è tremenda e numinosa (dei figli come risultato dell’atto sessuale al maschio non è mai importato nulla). Dal punto di vista della costruzione della Cultura, la conseguenza più importante è quella di aver “visto” e “conosciuto” l’oggetto. In molte lingue “vedere” e “conoscere” sono sinonimi dell’atto sessuale (anche nella Bibbia, come vedremo più distesamente in seguito), ma si tratta di una sintesi concettuale dell’atto del Pene. È il maschio che ha fondato la Cultura e si è posto come Soggetto. Soggetto di vita, è chiaro. La non vita, la Morte, non è Lui, è contro di Lui; ma Lui soltanto la può combattere, dominare, vincere. È questo il suo Potere.
Ed eccoci, dunque, giunti al punto iniziale della storia culturale: la Morte sta “di là”, prima della vita e dopo la vita, nel mondo della Trascendenza che l’uomo-maschio ha fondato proiettandolo fuori dalla vita “di qua”. È sulla vita di qua che ha assunto il Potere. Per conservare questo Potere, però, deve o combattere oppure venire a patti con tutte le forze che gli uomini individuano come possibili referenti del mondo di là. Saranno di volta in volta le Stelle, il Cielo, le Pietre, le Acque; insomma tutto quello che “non muore”.
Molto è stato detto sulla distruzione, sul trauma irreversibile che la “conquista” da parte degli Europei ha inferto alle culture “primitive”. La storia del western, per esempio, è passata dalla descrizione “mitica” della crudeltà dei selvaggi indiani, alla descrizione altrettanto mitica dell’uomo “bianco” che diventa il difensore dei loro diritti e che fa apparire gli indigeni depositari di un sapere, sia tecnico che trascendente, superiore a quello europeo in quanto dettato dalla Natura. Questa tuttavia è solo una parte della verità. Non sono soltanto i “selvaggi”, i “primitivi” ad aver subito un trauma irreversibile: sono gli Europei. Il contatto con gli “altri” ci ha costretto a chiederci in modo del tutto nuovo, molto diverso da quello filosofico e tranquillo al quale eravamo abituati e di cui ci compiacevamo: “Chi siamo? Perché la natura è per noi ‘natura’? Perché cerchiamo gli ‘altri’? Perché riteniamo, e siamo consapevoli del fatto che gli altri sono altri?”
La verità è che gli “altri” ci hanno conquistato. Si sono radicati in mezzo a noi e non ci hanno più per...

Indice dei contenuti

  1. Il mulino di Ofelia
  2. Copyright
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. I: Le strutture universali del Sacro
  6. II: Essere Ebrei
  7. III: Storia di un tradimento: il Cristianesimo
  8. IV: Il beato ritorno al Sacro
  9. V: La deculturazione dell’Europa
  10. Bibliografia essenziale