Carissimo amico
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  1. 210 pagine
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Informazioni sul libro

Non buttare via ciò che hai di più prezioso: la tua identità.
E ricordati che non c'è gioia nella droga. "Io mi occupo di sentimenti e so che basta un momento di abbandono, un lutto, una ferita che abbia distrutto la propria autostima per perdersi nella droga e non tornare più indietro." Negli ultimi anni se si escludono le notizie di cronaca nera, è calato il sipario sulla diffusione della droga, sul come affrontare i drammi che coinvolgono intere famiglie, come fosse semplicemente una questione privata, o addirittura normale. Un silenzio che Vittorino Andreoli non accetta e che ha deciso di rompere presentandoci il suo punto di vista con grande semplicità. A partire dalla sua lunga esperienza nel mondo delle realtà più difficili, Andreoli prende per mano il lettore e lo accompagna in un'esemplare ricognizione nei luoghi dell'anima, rivolgendosi non solo a chi la droga la tiene dentro la testa, ma anche a chi la tiene in tasca e potrebbe usarla, a chi teme che i propri figli ne siano già parte.
Pagina dopo pagina, Carissimo amico. Lettera sulla droga non offre uno sguardo accusatore, ma quello lucido di un uomo vicino al dolore dei suoi simili e che difende "il diritto a non drogarsi" perché non c'è libertà nella dipendenza. Un libro che finalmente dice che cosa succede nella relazione tra un giovane e le droghe, e che dà voce al dolore di chi è costretto a convivere con questa terribile realtà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858653647
Categoria
Sociologia
Carissimo,
non so nulla di te, eppure sento forte il desiderio di scriverti. Ho così tante cose da dirti che fatico a darvi un ordine. Anche per questo ho pensato di prendere penna e calamaio e tracciare parole e pensieri con quel filo di inchiostro sottile che esce dal pennino. Un modo che mi protegge dalla tentazione di scrivere un manuale: più che sulla chiarezza delle idee, io mi fondo sulla forza dei sentimenti, sul bisogno di dirti qualcosa. Non mi è possibile tacere, perché i sentimenti si farebbero ingorgo e finirebbero per creare dentro di me uno stato di angoscia insopportabile.
Permettimi di dirti subito che, pur essendo un vecchio psichiatra e uno che si è dedicato ad analizzare il funzionamento del cervello, parlando di droga non ho alcuna intenzione di cominciare a separarla in categorie, per poi ricordarti l’azione di ciascuna sulle cellule nervose, sui sistemi di neuroni fino a giungere al comportamento umano. Intendo invece parlarti dell’uomo, senza troppe frammentazioni, senza creare l’illusione che parlando di un granello di sabbia si racconti anche della grande montagna da cui proviene. Come se non avessero importanza la sua forma, l’imponenza con cui si staglia in cielo, i sentieri attraverso i quali è possibile salirvi sopra e inoltrarsi tra i suoi segreti.
Voglio parlarti dell’uomo, con le sue naturali capacità di scappare da sé e dal presente attraverso la fantasia.
Vedi, di una cellula umana non si può parlare di ansia e di senso di fallimento, di voglia di divertirsi. La cellula non ha desideri: tutto ciò appartiene all’uomo, appartiene a te, a me.
Sì, voglio parlare della droga che tu tieni in tasca o forse già dentro la testa. Scrivere a te che forse ormai vivi per la droga e di droga; a te che ne sei terrorizzato perché, pur non usandola, senti che si trova nelle tasche dei tuoi figlioli, dei tuoi nipoti; a te che la vedi girare per strada, come uno dei personaggi della città, mascherata ma perfettamente riconoscibile.
E parlarne in maniera chiara, come merita un tema che non si può ignorare o accettare che venga ignorato.
Lo hai capito, sono contro il costume imperante che ha ridotto la droga a un tema banale di cui non vale la pena parlare.
Alcuni ritengono che non ci sia più nulla da fare, e possono contare su quarant’anni di errori; altri pensano che non sia affatto un problema e appartenga alla storia delle conquiste umane, che sempre sono a doppio taglio: ai vantaggi si accompagnano pericoli.
L’«empirismo», ecco la parola che domina il nostro tempo. Sono i rischi legati al progresso, tutto qui.
E si possono tenere conferenze magnifiche sul malessere delle società del benessere, sugli svantaggi che si legano agli enormi apporti delle tecnologie.
Nessuno può negare il fascino dei telefonini, di Internet e del nuovo stile di gestione degli affari e delle relazioni che hanno promosso.
E allora che senso ha, di fronte a queste meraviglie del Terzo Millennio, occuparsi dei casi di dipendenza da Internet? Può un simile evento buttare un’ombra su questa enorme conquista?
Ci sono individui che non reggono l’evoluzione: lasciamo che vengano eliminati, anche se cercheremo di aiutarli e di accompagnarli al cimitero con un funerale degno dell’uomo e delle agenzie del trapasso, del taking away.
Ci sono specie in natura che non hanno retto ai mutamenti, alle rivoluzioni ambientali. Gli stessi dinosauri sono spariti dalla storia per occupare soltanto qualche sala di archeologia dell’evoluzione.
Rien ne va plus, tutto normale.
Oggi, coerentemente con questa storia, esistono i morti di droga.
Così è per l’inquinamento ambientale: vi contribuiscono i gas di scarico di automobili a cui l’uomo non può più rinunciare per la velocità, ma anche per l’eleganza; molte persone sono più attraenti dentro quella corazza che fuori, e se tutto questo ha un costo, pazienza. Si tratta di un piccolo svantaggio di fronte al grande dono della tecnologia. Smettiamola di continuare a parlarne.
Carissimo, faccio fatica a descriverti questo specchio della società in cui non mi ritrovo nemmeno un poco, ma voglio continuare a richiamarti questa visione perché è all’origine del laisser faire.
Occupiamoci invece del tempo libero che oggi va speso bene, intensamente, per gli effetti piacevoli che concede dopo lo stress del lavoro. E allora la droga ne può intensificare la qualità, promuovere la percezione di trovarsi a proprio agio e di raggiungere rapidamente livelli di gratificazione straordinari.
E se moltissimi usano la droga come apportatrice di stimoli di piacere, e se persone affermate la consumano, ciò dimostra che può essere usata in modo persino produttivo e di successo. Ergo chi ne diventa vittima lo fa per propria scelta.
Io non accetto questa freddezza, non posso accontentarmi di un minimalismo che vuole educare a un uso compatibile e integrato socialmente.
Ti starai chiedendo dove io voglia parare dal momento che ti parlo di posizioni che non sembrano poi così folli, a meno che non si voglia una società disegnata sulla carta e nella direzione delle utopie e del moralismo che oggi sarebbe persino di cattivo gusto.
È bene ti dica subito che ho visto persone rovinate trascinare nel vortice del baratro la propria famiglia; che il male della droga è endemico e trasferisce la propria apocalisse a chi è vicino, a chi non può scappare perché è la madre o il padre di chi soffre.
La filosofia minimalista e cinica direbbe a questo punto che occorre il coraggio di abbandonare un figlio drogato senza tanti patemi, di lasciare andare alla deriva chi ormai ha scelto (ecco il verbo) responsabilmente (ecco l’avverbio) di suicidarsi lentamente.
Non è così: i legami tra padre e figlio sono qualcosa di ben più complesso di un ragionamento. Richiamano al senso di responsabilità e alla colpa; s’impone la domanda del perché quel figlio si comporti così, del perché sia scappato di casa, del perché abbia litigato con il padre.
Io conosco drogati che non vogliono morire ma vivere, che non hanno scelto lucidamente il suicidio freddo e razionale ma, consapevoli di stare per morire, hanno chiesto di essere aiutati a vivere.
I legami affettivi non sono dei contratti a termine di cui basta valutare se si sono rispettati i criteri e le modalità concordate, ma si radicano dentro la mente e persino dentro la biologia.
Ho conosciuto padri che non hanno salutato il figlio drogato che se ne andava di casa con un sermone razionalistico nel rispetto delle scelte, ma lo hanno ucciso perché non riuscivano ad accettare di vivere senza quel rapporto e allo stesso tempo capivano che con un figlio drogato non è possibile alcun legame. Conosco figli che hanno ammazzato il padre semplicemente perché non ottenevano il denaro, e ne aveva molti, mentre loro per la dose avevano imparato a dare l’unica cosa che possedevano, una parte del loro corpo, oppure dovevano vendere la droga e quindi entrare nel mondo della marginalità e della galera.
Questo atteggiamento benpensante e giustificazionista dimentica da dove viene la droga e il perché organizzazioni, piccole o grandi, vi si dedicano giocando proprio sulla forza che la sostanza ha di togliere la libertà.
Gli illuministi del «diritto a drogarsi» non pensano al divieto sancito dalla legge di spacciare e lasciano che circoli impunemente.
Io mi occupo di sentimenti e so che basta un momento di abbandono, un lutto, una ferita che abbia distrutto la propria autostima per perdersi nella droga e non tornare indietro, come se si fosse stati rapiti, come se si fosse venduta la propria anima a Mefistofele.
Io difendo il «diritto a non drogarsi», convinto che si giunge alla droga per dei bisogni che sarebbe possibile soddisfare in altra maniera, e sempre dentro le relazioni interumane e non mediate da una sostanza chimica, si chiami alcol o marijuana, cocaina o eroina, crack o ecstasy.

I bisogni dell’uomo

Il bisogno di soddisfare la fame, di garantire la protezione dei luoghi in cui reperire il cibo, di procreare e quindi il far permanere sul pianeta la propria specie, ha rappresentato per intere epoche la base dell’attività dell’uomo e del suo progresso.
Procurarsi il cibo è stata la prima spinta all’azione, ed è grazie alla fame che nasce il lavoro, inteso proprio come necessità di stare in questo mondo dal momento che l’alimentazione ne è la conditio sine qua non. Da qui la raccolta dei frutti spontanei, la caccia e poi l’agricoltura.
Al bisogno di nutrirsi si collega la necessità di proteggere il territorio all’interno del quale si raccolgono o coltivano i prodotti alimentari, ma anche dove si risiede assieme ai propri cuccioli che, essendo di carne, costituiscono un ottimo cibo per i carnivori, per quelli più forti dell’uomo come un lupo, un leone, una iena.
La procreazione rappresenta un vero imperativo iscritto nel codice genetico, in quel tracciato fondamentale per la storia di ciascuna specie. Il bisogno di avere dei figli è dentro ciascuno di noi, alla stessa maniera di chi ci ha preceduto, anche se oggi per certe teorie economiche procreare non è più vantaggioso o almeno non lo è più una procreazione senza limiti, poiché le possibilità di accoglienza del pianeta, avendo risorse finite, non possono sostenere una crescita umana oltre certe dimensioni.
Tutto ciò è frutto di seri studi, ma non muta affatto il desiderio, il bisogno dell’uomo di dare vita a qualcuno che porti gli stessi lineamenti del volto, lo stesso nome.
E comunque la si consideri, la nostra voglia di sessualità riporta precisamente a questo. Anche se lo stimolo è per divertirsi, provare piacere, si tratta di un trucco del generare.
Questi bisogni non sono più essenziali, almeno in quella parte del pianeta in cui esiste un eccesso di cibo, dove addirittura occorre limitarne l’uso perché si presenta pericoloso alla vita. Dove il generare non solo non dà la forza per conquistare nuovo territorio, e dunque per costruire un clan potente, ma impoverisce perché è difficile allevare (educare) una prole vasta.
Oggi, in questo ambiente emergono altri bisogni che chiameremo, per rispetto gerarchico e anche storico, secondari.
Sono legati alla personalità e non più al corpo.
Il desiderio del ruolo sociale, della notorietà, e del successo, del gioco che non produce ma gratifica.
Esiste una terza classe di bisogni. Sorgono in persone che hanno soddisfatto quelli della sopravvivenza e quelli psicologici e quindi che hanno una identità forte e riconosciuta, e che ciononostante sono mossi da un bisogno di fare qualcosa di unico.
È il bisogno della esclusività, che richiama l’eroe anche se in una veste particolare.
L’eroe antico incarnava sempre una funzione di tutta la società o della propria città, e dunque operava a vantaggio della comunità e sovente su suo incarico, su sua designazione.
L’eroe, inteso nel senso della terza generazione dei bisogni, è invece un narcisista che vuole mostrare l’unicità indipendentemente dal senso che la propria azione eroica ha per il popolo o per la società a cui appartiene.
Egli ha compiuto qualcosa che, pur senza un senso sociale, non ha mai realizzato nessuno.
La via del potere è infinita e i bisogni terziari giungono fino al cielo e agli dèi che lo abitano, e così la sfida continua.
A me pare che questa sequenza non abbia cambiato l’atteggiamento di fondo, semmai modificato il senso dell’esistere e dell’affermarsi. Si è passati dal bisogno di mantenere le funzioni vitali alle esigenze della propria dimensione mentale e psicologica, fino alla grandezza unica, superiore a ogni uomo del presente e della storia passata e futura.
A mano a mano che i bisogni primari venivano soddisfatti, diventavano primari quelli capaci di dare una dimensione individuale, fino al bisogno di sentirsi simile a un dio o di paragonarsi a ciò che un dio immaginario può fare.
La lotta è senza fine.
La corsa alla grandezza, fino all’estremo di un’affermazione unica, si incontra con la morte.
E si rischia allora la sopravvivenza, bisogno primario.
Il paradosso dei bisogni che conduce alla morte.
Non c’è dubbio che la droga entra nel gioco drammatico dei bisogni.
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento la droga ha condotto molti al decesso e alcune morti sono state eroiche e hanno creato dei miti ancora dominanti. Miti che sono un insieme di uomini e di droga.
E penso alla musica, alla musica rock in particolare: a Jim Morrison, a Jimi Hendrix, Janis Joplin e alla necessità di legare le loro composizioni alla droga e la loro grandezza alla morte da overdose.
Se la morte è inevitabile, allora indipendentemente da come si spende la vita, in qualsiasi maniera la si spenda, si va verso la morte, e si potrebbe dire che ogni vita conduce alla morte e quindi che i comportamenti umani non sono in grado di avere nessun significato se misurati in base a questo parametro. Tutti insignificanti, inclusa la grandezza degli eroi.
Freud parlava di istinto di morte per sostenere che c’è una sua continua ricerca che si accosta a quella della sopravvivenza, e vedeva una lotta tra le due pulsioni con le evidenti vittorie parziali e transitorie della vita, ma con la dominanza finale sempre e soltanto della morte.
Una fine iscritta nel codice genetico dell’uomo, e quindi dentro i segreti della vita, perché le vite nascono e non le morti che invece si attaccano alla vita come un parassita.
È possibile definire la droga un’occasione di morte.
Persino il suicidio può diventare desiderio, come atto eroico che permette di passare da nessuno a protagonista. E quindi la morte può farsi desiderabile: si finisce di vivere ma si resta nella memoria, magari della follia e dell’eccesso, tra i casi estremi. Si esiste proprio con la morte eroica.
La consapevolezza del valore della morte e della svalutazione dell’esistenza sulla terra la si trova anche nell’eremita o nel monaco che desidera sempre più vivere a contatto con il Signore, e gli chiede di venirlo a prendere e di portarlo in cielo.
Ma il nostro richiamo ai bisogni, poiché dai bisogni siamo partiti, va discusso dentro il dominio del singolo oppure dentro la supremazia della società al cui interno soltanto il singolo può vivere?
È chiaro che questo cambia totalmente la prospettiva perché se vale per la droga il principio del singolo, tutto diventa una questione privata. Se si impone una logica sociale, allora è possibile che i comportamenti singoli debbano essere evitati, e persino proibiti, per contrastare la tendenza a fare ciò che uno desidera e per condurre il singolo dentro la volontà sociale.
Si delineano così i bisogni della società, che si impongono sul fare ciò che voglio perché lo voglio e mi piace.
La parola privacy ha invaso il vocabolario di ciascuno e tutti parlano del rispetto dei comportamenti personali. La droga ne fa parte? E uno può chiedere di essere rispettato in questo suo comportamento?
Se è così il problema della droga non ha alcun interesse sociale, e si giustifica la freddezza che abbiamo rilevato, come appunto se la droga non esistesse nemmeno o en...

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