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Donne, la carta vincente
Alla Nike hanno scoperto che i prodotti per le donne ideati dalle donne hanno più successo. La Microsoft ha addirittura commissionato uno studio che ha rivelato come le donne sappiano interpretare meglio i bisogni femminili, quando si tratta di prodotti da lanciare sul mercato. Le grandi multinazionali estere si stanno muovendo in questa direzione, e in Italia? La pezza d’appoggio dei numeri e dei risultati che le donne ottengono, qualora ce ne fosse bisogno, c’è. La necessità “congiunturale”, vale a dire dettata dall’attuale situazione economica, c’è. Ma allora perché aziende e governo non decidono di giocarsi la carta donne?
Nell’ultimo rapporto dell’Istat, Italia in cifre 1, l’occupazione femminile risulta leggermente in crescita (47,2%), ma ancora anni luce distante dagli obiettivi europei di Lisbona del 60% da raggiungere entro il 2010. Naturalmente in termini di tasso di disoccupazione la questione non cambia: l’8,5% delle donne non ha un lavoro contro un più contenuto 5,5% degli uomini. Ancor più difficile la situazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni: il 18,9% dei ragazzi sono disoccupati, mentre fra le ragazze si sale al 24,7%.
Eppure le ragazze negli ultimi anni hanno superato i loro coetanei sia in termini di “quantità” che di “qualità” negli studi. Al punto che nei paesi anglosassoni si pensa già che ad essere discriminati dall’impostazione dei programmi di apprendimento siano i maschi, sin dalle scuole elementari, con il conseguente aumento della domanda da parte dei genitori di scuole unisex. Resta il fatto che in Italia fra gli iscritti all’università nell’anno accademico 2008/2009 la quota rosa era del 55,4% (fonte Miur). Una presenza crescente anche nelle facoltà più tradizionalmente “maschili”, come ad esempio al Politecnico di Milano dove le iscritte sono passate dal 29,9% del 2004/2005 al 34% dell’ultimo anno. Nel corso degli anni di studio, poi, il tasso di abbandono maschile risulta superiore (5,9%) a quello femminile (4,8%), il che porta a una percentuale di laureate oltre la parità (54,4%). E questo basterebbe per rispondere con i fatti all’imprudente battuta che è costata il posto al presidente di Harvard, Larry Summers, secondo cui “le donne non sono brave in matematica”. Quanto basta a sintetizzare il pensiero dell’uomo che oggi è alla guida del National Economic Council della Casa Bianca. Di fronte a gaffe simili, è doveroso ricordare poi che il 55,4% delle ragazze italiane termina l’università con un voto superiore al 106, contro il 39,2% dei ragazzi. La mancata occupazione femminile non è quindi certo una questione di preparazione scolastica.
Resta comunque il fatto che le donne in Italia, se e quando trovano lavoro, troppo spesso non ottengono l’agognato contratto a tempo indeterminato con tutte le garanzie del caso. Infatti, l’occupazione femminile in Italia è caratterizzata da atipicità e precarietà, discontinuità a causa della maternità, difficoltà di rientro nel mondo del lavoro dopo una pausa, differenza retributiva di genere, ostacoli maggiori nel fare carriera e minor accesso al credito nel caso delle imprenditrici. Questo senza contare la mancanza di politiche per una vera conciliazione di lavoro e famiglia. Una bella sfida insomma, che però non scoraggia i sogni di molte: il 42% delle donne italiane inattive tra i 25 e i 49 anni vorrebbe infatti lavorare, secondo i dati Eurostat. “Vorrebbe”, questo è il punto.
Le nuove generazioni si affacciano a un mondo del lavoro che chiede inesorabilmente flessibilità, il che per gran parte delle donne non rappresenta una novità: il 56,1% dei 370mila contratti Co.co.co. e Co.co.pro. italiani (collaborazioni coordinate e continuative e a progetto) coinvolge lavoratrici. Che i numeri rispondano a un’esigenza di flessibilità delle donne per gestire meglio le questioni familiari? Oppure si tratta di una scelta delle aziende? Aziende che, per altro, sono sempre meno propense a soluzioni di flessibilità quando a richiederle sono i dipendenti, come nel caso della concessione del part time.
Per le neo-mamme (e anche per i neo-papà) erano previste delle novità in questo senso nell’ambito di un disegno di legge collegato alla legge finanziaria per il 2008, che attribuiva la delega al governo per il riordino delle norme sui congedi parentali, compreso il riconoscimento del part time, appunto, “come diritto soggettivo della madre lavoratrice o del padre lavoratore, nella misura massima del 50% e per una durata massima di 12 mesi, con preavviso al datore di lavoro di almeno tre mesi”. In pratica quanto è già previsto per i dipendenti pubblici avrebbe dovuto essere esteso anche ai privati. Avrebbe dovuto, ma al momento la concessione del part time, che sia verticale, orizzontale o misto, è lasciata alla discrezionalità del datore di lavoro nel privato, mentre è un diritto acquisito nel pubblico. Un bel vantaggio per i dipendenti pubblici che per il 62,3% sono donne (dati Istat 2006). Una percentuale che si alza nel settore sanitario dove le donne riescono anche a fare carriera: nelle aziende sanitarie nazionali l’8% dei direttori generali, il 9% dei direttori amministrativi e il 20% dei direttori sanitari è in quota rosa.
Nel privato, invece, è più facile fare carriera nelle multinazionali straniere piuttosto che in aziende made in Italy. Che sia un caso o una questione di cultura aziendale, sta di fatto che l’età delle top manager nelle multinazionali è in media di 43,6 anni contro i 46 delle imprese italiane, secondo i dati di un’inchiesta del “Corriere della Sera” del marzo 2009. Non che sia un’anomalia in un paese dove sotto i 50 anni si è considerati giovani sia in politica che in affari. Nelle multinazionali, inoltre, non solo le donne arrivano prima ai posti di comando, ma riescono anche a conciliare meglio lavoro e famiglia al punto che mediamente le manager delle aziende straniere hanno 1,1 figli ciascuna contro la media dello 0,9 delle manager delle imprese italiane. Non c’è neppure da fare il paragone poi con i colleghi uomini, che di solito hanno due o più figli. Tanto, raramente se ne devono occupare personalmente e quotidianamente. E quando i figli non ci sono? La percentuale delle top manager senza prole (35%) è di gran lunga più alta di quella dei colleghi (21%).
D’altra parte le ultime generazioni hanno dovuto fare i conti con ambienti maschili molto competitivi, dove la discontinuità a causa di una maternità si sarebbe tradotta automaticamente e senza possibilità di appello in perdita di opportunità di carriera. È stata l’era delle “virago”, delle donne che in qualche modo hanno deciso di stare alle regole del gioco per dimostrare che potevano competere con gli uomini e fare carriera grazie alla meritocrazia. Sono le stesse che si indignano, ora, quando si parla di quote rosa e forse non a torto. Ma, come il periodo delle virago è stato un momento di passaggio che ha certamente dato dei risultati, allo stesso modo le quote rosa potrebbero essere un passaggio successivo per rompere una predominanza maschile soprattutto a livello manageriale.
Le donne di inizio millennio, lavoratrici e non, non ci pensano nemmeno a rinunciare alla dimensione privata, tanto che l’ideale per la maggior parte di loro è avere due figli, secondo alcuni sondaggi. E allo stesso tempo, però, riescono anche a far carriera come dimostrato nell’ultimo decennio: il 35% delle nomine a dirigente delle donne è avvenuta tra il 2000 e il 2004 e il 31% dal 2005 a oggi. Entra in gioco, quindi, la dimensione sociale del problema: la garanzia cioè di una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia attraverso servizi di assistenza all’infanzia e agli anziani, una reale flessibilità sul lavoro e orari di servizi pubblici e commerciali compatibili con quelli di un impiego a tempo pieno.
Le donne in carriera, per altro, fanno comodo anche alle aziende, che stanno valorizzando la presenza femminile nei posti di comando perché spesso è sinonimo di un diverso punto di vista che aumenta le possibilità di successo. Una ricerca realizzata da Gartner per Microsoft Italia ha evidenziato che il 68% della popolazione mondiale è composta di donne e bambini, e per studiare prodotti che possano andare incontro alle loro esigenze non bastano più solo le ricerche di mercato, ma è necessaria una visione diversa, più “femminile”. In Microsoft le donne sono attualmente il 30% dell’organico ma l’obiettivo è quello di raggiungere il 50%, attraverso assunzioni per l’80% rosa. Nella stessa direzione è andata anche la Nike, perché i prodotti studiati da donne per le donne hanno avuto decisamente più successo di quelli studiati dagli uomini. Non basta, infatti, cambiare i colori della linea maschile, aggiungere spruzzatine di rosa e brillantini qua e là o adattarne le taglie al corpo femminile per generare più fatturato. Le aziende hanno capito che devono studiare prodotti diversi, più sofisticati, per soddisfare le clienti sempre più informate ed esigenti.
In Italia le donne, invece, sono ancora considerate “il sesso debole”, soprattutto se non sono ancora riuscite ad entrare nel mondo del lavoro dopo i 35 anni. Così il bando del Programma nazionale PARI (Azione per il Reimpiego di lavoratori svantaggiati) offre incentivi per l’assunzione di persone in condizione di svantaggio, di donne e per “doti formative” a favore di donne, con un finanziamento di 185.000 euro. Il bando non è limitato alle sole piccole e medie imprese e prevede incentivi erogati direttamente da Italia Lavoro, l’Agenzia del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale. I contributi, per un massimo di 5mila euro, vanno alle assunzioni a tempo indeterminato di donne disoccupate e persone prive di lavoro in situazione di disagio (disagio sociale, ex tossicodipendenti, ex alcolisti, detenuti ed ex detenuti) senza indennità di mobilità. Un accostamento, quello tra donne disoccupate ed ex alcolisti o detenuti, che non si può proprio definire lusinghiero.
Qualcuno, però, si sta già muovendo in questa direzione, come Amelya, neonata società di servizi avanzati su internet, che ha lanciato una campagna di assunzione tra le donne ultra 35enni, perché intende puntare “sull’insostituibile senso pratico delle donne e sulla loro capacità di gestire le relazioni umane”. Un caso, però, ancora piuttosto raro.
Se infatti in Turchia Pelin Yucel, proprietario dell’Hotel Image che vanta una clientela soprattutto inglese e russa, ha deciso di licenziare tutti gli uomini e di assumere al loro posto solo donne, perché pare che i primi perdessero troppo tempo nell’intrattenere relazioni con le clienti, in Italia ci sono al contrario casi come quello dell’azienda conserviera Coalma di Palermo, che ha deciso di assumere a tempo indeterminato solo 40 addetti maschi e nessuna delle 75 lavoratrici, alcune con un’anzianità in azienda di oltre 30 anni, destinate invece all’epopea dei contratti a termine.
La recessione economica ha, però, contribuito a muovere le acque. Una svolta importante è arrivata dal mondo finanziario, dopo la crisi che ha messo in ginocchio le banche. Ha cominciato Unicredit con la scelta di Mariana Natale come direttore finanziario. Non un ruolo qualunque, ma quello di responsabile nel far quadrare i conti del gruppo bancario più internazionale d’Italia. Classe 1962, ha iniziato a lavorare in Unicredit a 24 anni e per vent’anni si è occupata delle operazioni più importanti in cui l’istituto è stato impegnato. Chi la conosce assicura che si tratta di un caso di meritocrazia vera, il che è già un bel risultato. Non è poi cosa da poco se si considera che nelle banche italiane il 40% dei dipendenti è donna, ma che solo lo 0...