Non ho l'età
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Non ho l'età

  1. 210 pagine
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Informazioni sul libro

«Io non ho scoperto nessuno, ho solo incontrato dei talenti.» Mara Maionchi Mara Maionchi è quella che non si contiene, fa volare parolacce, ha mandato al diavolo mille volte Morgan e Simona Ventura. È stata lei, insieme agli altri due giudici di X Factor, a decretare il successo della trasmissione culto della passata stagione televisiva, ora di nuovo sugli schermi per la terza edizione. Ma, nonostante lei stessa si prenda parecchio in giro, Mara è molto più di una vecchia signora impulsiva e un po' sboccata che gioca con la tv. Sbarcata a Milano nel lontano 1961, da oltre quarant'anni lavora nella musica. E nel corso della sua lunga carriera ne ha viste di tutti i colori: ha difeso cantanti bersagliati da pomodori e uova marce negli anni della Contestazione; ha assediato per giorni gli uffici di un giornale per far avere una copertina a Ornella Vanoni; si è ritrovata insieme a Gianna Nannini nel bel mezzo di una rapina in banca. Nel frattempo ha macinato strada ed è passata da segretaria di ufficio stampa a direttore artistico di una grande casa discografica, per poi scegliere di continuare l'avventura con una sua etichetta indipendente, insieme al marito Alberto Salerno, autore di testi e produttore. Ha conosciuto tutti i mostri sacri della canzone (Mino Reitano, Mogol, Lucio Battisti, Fabrizio De André) e, transitando per il suo ufficio, degli illustri sconosciuti sono diventati artisti acclamati in Italia e nel mondo (la stessa Nannini, Mango, Tiziano Ferro). Questo libro è la storia di Mara Maionchi. E la storia di Mara è la storia di quarant'anni di musica, dalla Gatta di Paoli a Buggerato dalla mia baldanza dei Bastard Sons of Dioniso.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858654040

1.

Bologna

Bologna, per come la ricordo io, è la stessa di cui parla Guccini nella sua canzone: «una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano ed il culo sui colli» – no, non sto parlando di me, parlo di Bologna. Anche perché quando ci abitavo mica ero la vecchia signora che sono ora: ero una ragazzina, sveglia e un po’ turbolenta. Fin dalla mia nascita, nel 1941, nel pieno della Seconda guerra mondiale: momento meno opportuno non avrei potuto scegliere, considerando il bel casino che si viveva in Italia all’epoca. Tanto più che il peggio doveva ancora arrivare, con i bombardamenti alleati sulla città nel 1943 e le sofferenze della lotta partigiana. E poi, non è che i miei genitori fossero lì tutti concentrati nel tentativo di avere un figlio. Ma evidentemente non erano nemmeno così attenti a evitare l’arrivo di un pargolo. Quando nacqui io in famiglia c’era già una bambina, mia sorella maggiore, e alla loro età papà e mamma non pensavano più di riprodursi: avevano rispettivamente quarantasei e trentotto anni. Lei, come la maggior parte delle donne dell’epoca, faceva la casalinga; papà, originario di Lucca, aveva un buon lavoro che gli permetteva di mantenere se stesso e le quattro donne di famiglia, moglie, figlie e suocera. Era un uomo perennemente in movimento, che prendeva la vita di petto e non amava stare con le mani in mano: al punto che quando morì, a ottantuno anni, ancora lavorava. Metteva anima e corpo in tutto quello a cui si dedicava, e lo stesso pretendeva da noi figlie.
Questo atteggiamento di certo non gli facilitò la vita negli anni in cui io portavo avanti la mia carriera scolastica. Sì, perché la scuola non mi piaceva, non mi interessava minimamente, e di conseguenza i risultati erano tutt’altro che brillanti. Ma non intendo scaricare la colpa sugli insegnanti o sul fato avverso. Certo, nessuno era in grado di stimolare in me curiosità o interesse, però va anche detto che gran parte degli altri ragazzini seduti ai banchi questa curiosità e questo interesse da qualche parte li trovavano. E allora evidentemente ero io che non riuscivo a entrare nello spirito giusto per apprezzare la scuola.
Insomma, gli anni di studio furono una faticaccia. Ma non per me, per gli altri. Io non facevo assolutamente nulla, quindi fatica zero. Erano quelli che mi stavano intorno a impazzire per cercare di salvare il salvabile, cacciandomi nella zucca refrattaria qualche misera nozione. E dire che in famiglia non mancavano cugini geniali che venivano ammessi alla Normale di Pisa per poi andarsene a insegnare filologia romanza a Parigi, alla Sorbona, con la stessa facilità e soddisfazione che io potevo trovare nell’andare al bar a bermi un caffè. Beati loro!
Fu così che giunsi alla fine dell’ennesimo anno scolastico tribolato. Una mattina del 1959, dopo l’intervallo di metà mattina, il professore di matematica fece il suo ingresso in aula con qualche decina di fogli protocollo a quadretti sottobraccio. Non ci voleva un genio per capire che si trattava dei compiti in classe della settimana prima, corretti e valutati. Il professore seguiva sempre lo stesso ordine nel consegnare i lavori, partendo da quelli che avevano ottenuto i voti più alti per poi scendere inesorabile verso gli abissi delle insufficienze gravi. Mi misi comoda ad aspettare, visto che di solito le mie prove si attestavano nelle ultime posizioni, insieme a quelle di un gruppetto di irriducibili abbonati ai voti bassi come me. Quando venne il momento il professore mi chiamò alla cattedra e pronunciò una frase che mai dimenticherò: «Maionchi, se è vero che con il passare delle generazioni le famiglie migliorano, non vorrei mai conoscere i suoi genitori!». Lasciò cadere sul piano di legno il mio foglio protocollo: rispetto a quello che ricordavo di aver consegnato solo sette giorni prima appariva stravolto e sfigurato da un mare di segni rossi. L’insufficienza c’era. Pure grave. Alzando lo sguardo verso il volto dell’insegnante rimasi colpita dalla sua espressione. Negli occhi di quel poveruomo si leggeva uno sconforto estremo, la disfatta di chi le aveva provate tutte per poi giungere alla conclusione che cercare di ottenere da me risultati meno che disastrosi era impresa disperata quanto lo spremere il famigerato sangue dalle rape. A smuovere la mia coscienza, quindi, fu lo scoramento del professore, ben più che il baratro che l’ennesima insufficienza mi spalancava sotto i piedi.
Bastò un attimo per confessarmi quella verità che avevo già letto chiara e netta negli occhi dell’insegnante: la scuola non faceva per me. O forse, a voler essere precisi, ero io a non essere adatta alla scuola. Insomma, comunque stessero le cose, era certo che lo studio e la sottoscritta appartenevano a due universi paralleli, di quelli che non si incontrano mai. Ormai non ero più una bambina, avevo diciotto anni e, giunta a questa età, era meglio lasciare perdere piuttosto che insistere senza costrutto.
Presi il coraggio a due mani e discussi della questione con i miei genitori, stando ben attenta a sottolineare che con quella decisione facevo un favore immenso, più che a me stessa, ai professori: poveracci, grazie a me si erano già guadagnati troppi capelli bianchi. Mio padre forse se l’aspettava: sta di fatto che non visse la decisione di abbandonare la scuola come una tragedia. Anzi, anche se non lo ammise mai apertamente, sospetto che tirò un sospiro di sollievo all’idea di risparmiare il denaro e la fatica necessari a spingermi a calci verso il traguardo di una laurea qualunque. Tutto ciò che disse in risposta al discorso in cui annunciavo di voler mettere la parola fine alla mia esperienza di studentessa fu: «Io a casa a far niente non ti ci tengo. Nell’Ottocento le signorine di buona famiglia come te se ne stavano tranquille a ricamare in salotto in attesa di trovare marito. Ma l’Ottocento ce lo siamo lasciato alle spalle e quindi, se non vuoi studiare, vedi di trovarti un’occupazione».
Mai frase suonò più dolce alle mie orecchie. Mi avventai sulla pagina degli annunci del «Resto del Carlino» passando in rassegna le offerte di lavoro. La voglia di darmi da fare non mi mancava: anzi, non vedevo l’ora di mettermi alla prova su qualcosa di pratico, che mi consentisse di ottenere dei risultati concreti, di guadagnare qualche soldo e di liberarmi almeno in parte dalla dipendenza economica dai genitori.
Per fortuna i tempi erano propizi, e il mio spirito di iniziativa si sposava perfettamente con un contesto sociale ed economico molto favorevole. A quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia era fantastica, un Paese in pieno fermento: il boom economico era sul punto di manifestarsi in tutta la sua potenza e chiunque fosse disposto a rimboccarsi le maniche trovava facilmente un’occupazione, anche buona ed eccitante.
Non che mi fossi posta il problema di cercare un lavoro che mi piacesse. In primo luogo non mi era ancora chiarissimo quale fosse – se mai c’era – la mia vocazione professionale. E poi era troppo l’entusiasmo all’idea di abbandonare le costrizioni scolastiche (grembiule compreso): ad attendermi là fuori c’era il mondo degli adulti, ricco di opportunità da cogliere e di sogni da realizzare. Mi ci buttai a capofitto.

2.

Al lavoro!

Alla fine non ricordo se il primo impiego lo trovai davvero spulciando le pagine degli annunci sul quotidiano della mia città. Perché, parallelamente a quello, altri canali erano stati attivati, primo fra tutti la rete di conoscenze di mio padre: grazie al suo lavoro, infatti, lui era in contatto con numerosi professionisti e imprenditori della zona. Ma non si pensi che l’intervento paterno fosse fonte di chissà quale vantaggio. Mi capitò di sentire alcune delle telefonate con cui sondava il terreno in cerca di una sistemazione per me utilizzando frasi tipo «a scuola è sempre stata una lazzarona», «magari con il lavoro riusciamo a raddrizzarle un po’ la schiena». Bell’aiuto!
In ogni caso, poco tempo dopo aver abbandonato la scuola, iniziai a lavorare per la SAIMA, una società che aveva sede in via delle Lame, a due passi dal centro, e che si occupava di spedizioni internazionali. Era la prima occasione che mi si presentava e la colsi al volo, senza indugiare né pormi troppe domande.
Il direttore era un signore sui cinquant’anni, calmo, pacato. Di quelli che in anni di esperienza si sono costruiti un aplomb imperturbabile: conosceva l’azienda e il lavoro così bene che per lui non esisteva nessun imprevisto. La sua flemma, unita a un carattere bonario e disponibile, gli faceva andare a genio anche un tipo esuberante e caciarone come me. Forse ciò che, dopo un rapido colloquio («Cosa sai fare?» mi chiese. «Niente. Ma ho voglia di lavorare» risposi), l’aveva spinto a offrirmi un posto come apprendista era l’intenzione di vivacizzare un po’ il clima dell’azienda senza compromettere il rendimento della truppa: risultato che avrebbe potuto ottenere arruolando un simpatico e tutto sommato innocuo elemento perturbatore.
Ricordo che, facendo il mio ingresso negli uffici, mi stupii del silenzio concentrato che regnava tra le scrivanie. Non una parola, se non qualche breve comunicazione telefonica, interrompeva il ticchettare fitto delle macchine da scrivere. Ma ci voleva ben altro per spaventarmi: «Buongiorno a tutte!» esclamai rivolta alle nuove colleghe, mentre il direttore indicava la scrivania libera che da quel momento sarebbe diventata la mia postazione. Le ragazze mi lanciarono uno sguardo distratto e biascicarono un «’giorno» sommesso e frettoloso, per poi tornare immediatamente a battere sui tasti.
Per nulla intimorita da quell’accoglienza tiepida, feci da subito risuonare alta e squillante la mia voce nella stanza che condividevamo: interrompevo il lavoro delle altre in cerca di chiarimenti o spiegazioni, commentavo ad alta voce le telefonate appena concluse, lanciavo battute a volte – devo ammettere – poco rispettose sui personaggi con cui avevamo a che fare. L’impiegata anziana a cui il direttore aveva dato incarico di istruirmi cercò di arginare le chiacchiere mettendo su l’espressione più arcigna che poteva, ricordandomi che avrei dovuto chiedere il permesso anche per andare in bagno e cercando di risvegliare un inesistente spirito di disciplina e di obbedienza.
In capo a una settimana l’avevo avuta vinta io: qualche collega più adulta ancora mi guardava un po’ infastidita, ma con le ragazze mie coetanee avevo legato e insieme eravamo riuscite a instaurare un clima piacevole, allegro. Lavorare si lavorava, per carità, ma almeno ogni tanto ci scappava qualche bella risata e per un attimo copriva il suono delle dita che picchiavano sui tasti.
Intendiamoci: essere ingaggiata nel ruolo di ultima ruota del carro in una società di spedizioni nella grassa e sonnolenta Emilia di fine anni Cinquanta non mi poneva esattamente al centro di un turbine di stimoli ed emozioni. I miei doveri si esaurivano, in sostanza, nel compilare una serie infinita di bollettini nei quali dovevo specificare il numero dei colli trasportati, il contenuto degli stessi, i porti intermedi dell’itinerario, la destinazione finale. Due maroni!
In più, come d’abitudine, spettavano a me, che ero la più giovane, tutte le incombenze da galoppino cui il resto del mondo si sottraeva non appena trovava un individuo di grado inferiore nella complessa catena alimentare della struttura aziendale. Fare un salto al bar sotto l’ufficio a prendere il caffè per il capo; correre a comunicare un ritiro merci dell’ultimo minuto agli uomini che stavano per mettersi al volante di camion e furgoni prima di partire per il loro giro; andare dal cartolaio per recuperare una scatola di graffette o di elastici.
Tutti questi piccoli incarichi, che per la maggior parte delle persone non erano altro che scocciature, a me non dispiacevano affatto. In primo luogo costituivano una gradevole distrazione all’interno di una routine che – tempo poche settimane – si era rivelata piuttosto noiosa. Non ci vuole una laurea per imparare come si compila un bollettino: i campi da riempire sono sempre quelli, la procedura da seguire pure. E l’esperienza di insegnamenti ne poteva fornire fino a un certo punto, dopodiché ci si cominciava ad annoiare.
Uscire di tanto in tanto per qualche commissione mi permetteva di respirare l’atmosfera della città che viveva di mattina, tra negozi aperti, massaie cariche di buste della spesa ed eleganti tardone il cui unico impegno consisteva nel tirare l’ora di pranzo sedute ai tavolini di un bar, sorseggiando un cappuccino e sfogliando riviste di moda. Mettendo ogni giorno il naso nell’ufficio del direttore con la scusa di portargli il caffè, poi, potevo ascoltare conversazioni e vedere persone che normalmente sarebbero state fuori dalla portata dei miei occhi e delle mie orecchie. Mattina dopo mattina, caffè dopo caffè, accumulavo tasselli di discorsi che, memorizzati e messi l’uno accanto all’altro, facevano sì che avessi dell’azienda, dei suoi problemi e dei risultati da raggiungere un’idea spesso più ampia e completa di quella che avevano persone che pure lavoravano lì dentro da una vita.
Lo stesso vantaggio mi veniva dai frequenti contatti con gli uomini del servizio trasporti. Le ragazze dell’ufficio tendevano infatti a starsene per i fatti loro: con il tipico snobismo di chi pensa che lavorare alla macchina da scrivere sia compito più nobile rispetto a quello di chi svolge un lavoro manuale, difficilmente rivolgevano la parola ai ragazzi dei furgoni. Certo, è vero che all’epoca bastava niente per perdere la patente di «ragazza per bene»; ed è vero anche che in molti casi l’etichetta era più importante della sostanza. Per cui c’era chi fingeva una riservatezza che in particolari circostanze, complice qualche sottoscala poco illuminato, scomparivano miracolosamente. Ma non è questo che ci interessa qui. Insomma, a me di quello che diceva la gente non importava un fico secco (o quasi: diciamo che l’essenziale era evitare di far nascere strane voci che avrebbero spinto i miei genitori a mettermi agli «arresti domiciliari»). E poi ero abbastanza maschiaccio da non dare adito a voci o dicerie su eventuali amorazzi, e abbastanza anche da divertirmi a chiacchierare con i ragazzi che guidavano i furgoni della SAIMA. Mi piacevano le loro battute, a volte non esattamente eleganti ma sempre divertentissime; mi piaceva, ogni tanto, pranzare a pane e mortadella seduti con le gambe a penzoloni sul retro di un furgone vuoto, mentre qualcuno raccontava improbabili disavventure al volante o incontri esilaranti con personaggi di dubbia salute mentale. Credo che un po’ del senso dell’umorismo di quegli uomini, capaci di tirare fuori una risata anche dalle situazioni più difficili, mi sia rimasto attaccato. E ne sono orgogliosa. Ci sono alcune mie ex colleghe, poi, che ancora oggi mi sono grate perché con il mio prezioso lavoro di testa di ponte, ambasciatrice e portavoce, contribuii a far nascere più di una storia d’amore fra le ragazze finto-spocchiose dell’ufficio e i rudi uomini dei trasporti.
Ma, al di là dell’aspetto ludico, le informazioni che riuscivo a raccogliere durante le mie commissioni in veste di galoppino mi consentivano di mettermi nei panni altrui, di capire quali cambiamenti avrebbero agevolato il lavoro dei vari settori dell’azienda. E mi rendevo conto che, spesso, bastava una piccola modifica alle procedure in uso per migliorare di molto il rendimento generale. Fu in questo modo che scoprii cosa avesse il lavoro di sostanzialmente diverso dalla scuola, in cosa consistesse quel fascino irresistibile che avevo sempre avvertito pur senza rendermene davvero conto. Non si trattava tanto di avere a disposizione del denaro solo mio, grazie al quale concedermi qualche piccolo lusso. Certo, potersi permettere qualche uscita al ristorante o una gita al mare con gli amici era senza dubbio piacevole. Ma ad attrarmi più di ogni altra cosa era il fatto che, comunque, anche nel contesto grigio e monotono con cui si confrontava l’impiegata di una ditta di spedizioni, uno spazio aperto alla creatività e al cambiamento lo si poteva trovare. Mi piaceva l’idea di poter migliorare la situazione di partenza, e mi accorgevo che, quando le proposte erano sensate e realistiche, si trovava sempre un orecchio disposto ad ascoltare anche la voce di chi come me era solo all’inizio. Ero ansiosa di dare il mio contributo, a partire dalle piccole cose: cambiare l’impostazione di una lettera commerciale o riorganizzare l’archivio erano interventi minimi, ma mi davano la sensazione di compiere un piccolo passo in avanti.
Intraprendenza e passione per il cambiamento: scoprii che erano questi i tratti del mio carattere che più amavo, forse anche perché di spazio per iniziative personali, in una scuola in cui disciplina e obbedienza erano le doti più apprezzate, non ce n’era stato per niente.
Da quel momento, comunque, a prescindere dalla posizione occupata e dall’azienda in cui mi sono trovata, non ho mai smesso di far lavorare il cervello alla ricerca di soluzioni originali e di nuove strade da percorrere. E ora che ho cinquant’anni di lavoro alle spalle sento di poter affermare che qualunque mansione, per quanto modesta, può essere appagante se affrontata con spirito d’iniziativa e creatività.

3.

La gatta

Oltre alle commissioni e alle chiacchiere con i camionisti, un diversivo alla potenziale monotonia del lavoro mi veniva dalle serate in compagnia degli amici. Consacravo (o sperperavo – dipende dai punti di vista) buona parte dello stipendio per quelle che mia madre, abituata a una gestione rigorosa del bilancio familiare, definiva «spese inutili».
Decisamente meno cospicue erano invece le cifre che spendevo in dischi. Immagino che una notizia del genere possa suonare un po’ strana all’orecchio di chi mi conosce per il lavoro che faccio o per il mio ruolo di starlette attempata di X Factor. Ma è così. Dischi ne compravo davvero pochi. Ma questo non significa che non amassi la musica, o che non l’ascoltassi.
Quando ero ragazza passavo interi pomeriggi con l’orecchio attaccato alla radio. All’epoca era inimmaginabile il proliferare delle emittenti commerciali che oggi affollano le frequenze: il convento passava giusto le reti Rai e quelle dovevano bastare. Ma se provo a fare un confronto fra la radio di allora e quella di oggi non ho dubbi: tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta i programmi erano decisamente più innovativi, se non altro perché i conduttori sceglievano in prima persona i brani trasmessi e, così facendo, potevano determinare il successo di un disco e di un artista. Una delle mie trasmissioni preferite di quegli anni era Il Discobolo, ideato da Vittorio Zivelli, che selezionava le novità in uscita e presentava al pubblico i pezzi secondo lui più interessanti e ricchi di potenziale. C’era una brevissima striscia quotidiana, che durava lo spazio di un solo brano, e poi la versione lunga, «speciale», la domenica pomeriggio. Ricordo ancora l’ora dell’appuntamento domenicale: l’una e mezza. Come dimenticare le lamentele di mia madre che mi vedeva trangugiare in fretta e furia il pranzo della festa per poi correre ad accendere la radio? Che tempi!
Il conduttore rimaneva in religioso silenzio per l’intera durata del pezzo, e non si azzardava a sovrapporre la sua voce alla canzone. Solo quando si era estinta l’ultima eco dell’ultima nota si lanciava in una serie di analisi, a volte anche molto tecniche, che spiegavano pregi e difetti della brano. Grazie al Discobolo e ad altri programmi radiofonici l’Italia del Dopoguerra scopriva che, mentre qui si era rimasti fermi alla scuola del bel canto di origine operistica, oltreoceano la canzone popolare aveva fatto passi da gigante. Basti pensare che, più o meno negli stessi anni in cui noi canticchiavamo Vola colomba pensando fosse il non plus ultra della modernità, gli americani impazzivano per i primi successi di Elvis. Non so, ditemi voi se vi pare lo stesso.
Era un bel cambiamento, e anche un azzardo da parte dei conduttori: infilare una roba assurda come il rock indiavolato di Elvis in mezzo alle signorine per bene e ai ragazzi impettiti della canzone italiana non era mica cosa da niente, si rischiava di essere presi per matti. Eppure lo si faceva. Per questo mi incazzo come una bestia quando, oggi, mi trovo a combattere con programmatori fin troppo cauti che, per andare sul sicuro, mandano solo vecchie canzoni. Sia chiaro, nessuno vuole rinnegare la storia della musica italiana – ci mancherebbe altro: se siamo quello che siamo, musicalmente parlando, è grazie a ciò che abbiamo ascoltato nei decenni che ci stanno alle spalle. Ma mi pare assurdo che il ritorno al passato funga da alibi alle emittenti per camuffare l’assenza del benché minimo coraggio artistico. Ci ho rifl...

Indice dei contenuti

  1. Non ho l’età
  2. Copyright
  3. Intro
  4. 1. Bologna
  5. 2. Al lavoro!
  6. 3. La gatta
  7. 4. Ma Milàn l’è un gran Milàn
  8. 5. Ariston
  9. 6. La magia di Sanremo
  10. 7. Nicola e Alberto Salerno
  11. 8. Il Sessantotto
  12. 9. Battisti, il Numero Uno
  13. 10. Melodia, testo e interpretazione
  14. 11. Gianna Nannini
  15. 12. Mango
  16. 13. Errare è umano (confesso che ho toppato)
  17. 14. Tocchiamo Ferro
  18. 15. X Factor
  19. 16. X Factor terza edizione: pronti, via!
  20. Indice