Parte
seconda
i giochi
1 Il gioco delle (molte) differenze
di Arnaldo Cecchini
INTRODUZIONE
Il gioco delle (molte) differenze è un gioco semplice, ma sofisticato.
Semplice perchè fa parte – in un certo senso – della categoria dei “rompighiaccio” (icebreakers li chiamano gli inglesi), anche se il suo uso non si limita a favorire l’integrazione di un gruppo di persone né a suscitare temi e modalità di discussione di problemi, ma serve anche e soprattutto a investigare sui nostri stereotipi e sulle nostre percezioni degli “altri”; questo gioco è ispirato dal “gioco dell’imitazione” di Alan Turing, detto anche Test di Turing [1].
È sofisticato per varie ragioni, fra cui quella di avere un’ispirazione di altissimo livello, ma soprattutto è sofisticato nel senso di “complesso”. Complesso è una parola molto abusata e quindi da usare con molta attenzione, ma in questo caso ci sta bene.
Infatti le regole del gioco sono estremamente semplici e i meccanismi, gli strumenti e i parafernalia anche, ma l’insieme delle relazioni e delle dinamiche che – a partire da queste regole e da questi meccanismi si generano – sono spesso imprevedibili. Insomma, quel che esce è molto di più di quel che si potrebbe immaginare (se questa non è esattamente la definizione di “sistema complesso” non ne siamo lontani!).
A COSA SERVE
Questo gioco è inteso a mostrare come sia difficile liberarsi dagli stereotipi nel rapporto con gli altri; gli stereotipi possono essere anche “positivi” perché consentono una certa forma di “economia di pensiero”, ma sono comunque una barriera ad una vera comprensione degli altri e delle situazioni e ad un sostanziato rispetto delle differenze; questo gioco è stato molte volte sperimentato a proposito della differenza, quella tra i generi, tuttavia può essere, con poche modifiche, esteso a molte altre differenze.
Serve dunque a fare i conti con le molte differenze che esistono fra gli esseri umani a partire – come è ovvio – da quella di genere.
Non è inutile qualche considerazione a margine: ho scritto “differenze fra gli esseri umani”, ma mi era venuto da scrivere “differenze fra gli uomini”, del resto non abbiamo forse alla base della convivenza di tutti noi terrestri una “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo”?
È abbastanza di moda prendere in giro il cosiddetto “politicamente corretto” (politically correct), ma io credo che sia un bene che le pur contorte regole del “linguaggio non sessista” (quello per cui sarebbe bene dire ministra o assessora o avvocata anche se suona un po’ strano) ci costringano almeno a ragionare sul carattere orribilmente oppressivo sul piano simbolico della lingua che parliamo tutti i giorni. D.R. Hofstadter [2] racconta con gusto l’angosciante mondo delle parole che opprimono: pensate – egli dice – a cosa succederebbe se per una qualche convenzione non innocente tutte le parole che nella lingua attuale sono costruite usando “uomo” (man) per indicare un generico essere umano fossero invece originate con “bianco” (white) inteso come “di razza (o pelle) bianca”: “il bianco è un animale razionale”, “i diritti universali del bianco”, o se volete chairwhite, mailwhite, clergywhite, whitepower, frenchwhite; vi sembrerebbe così ridicolo che i “neri” (che già oggi come risultato del politicamente corretto non sono più i “negri”) o i “gialli” giudicassero un pochino razzista questo linguaggio?
Quando le oppressioni sono millenarie, volete che non abbiano lasciato “segni” sul linguaggio?
Ma “farebbe un po’ schifo” chi in nome della tradizione e contro una presunta cacofonia (per altro nella preghiera del Salve Regina c’è da secoli un’“avvocata nostra”) volesse mantenere in vita “i diritti universali del bianco”, al posto di quelli delle persone. Sed de hoc satis.
Il tema delle differenze (fra gli esseri umani) è una delle questioni “calde” del dibattito scientifico, culturale e politico. Nessuno può negare che esistano delle differenze fra le persone: alte e basse, magre e grasse, rosa (ovvero “bianche”) e nere, astute e “fessacchiotte”, belle e brutte, ricche e povere, intelligenti e stupide, veloci nella corsa e lente, nate in Italia e fuori Italia, di genere maschile e di genere femminile.
In realtà anche in queste definizioni non c’è molto di oggettivo se non in alcuni casi.
Il fatto che i generi nella specie umana (e in gran parte delle altre) siano due (maschio e femmina) è forse all’origine della tendenza molto diffusa a dividere le cose in due (dicotomia). Questa tendenza, se può essere utile per una prima classificazione, è tuttavia pericolosa e ingannevole: dividere le persone in “alte” e “basse” per esempio è solo uno dei modi di classificare l’altezza che è, invece, una grandezza che varia con continuità e che solo arbitrariamente può essere divisa in “classi” o “categorie”. Se per esempio stabilissimo che la soglia di altezza per esseri considerati “alti” è 170 cm metteremmo in due categorie diverse una persona di 169,9 cm e una di 170,1 cm la cui differenza di altezza è minima e ben inferiore a quella fra una persona di 170,1 cm e di una di 185 cm, entrambe considerate “alte”. A questo si aggiunga che una persona di 168 cm, oggi considerata “bassa”, probabilmente sarebbe stata considerata alta un secolo fa e potrebbe anche oggi essere considerata “alta” se considerassimo solo il genere femminile.
Ma la difficoltà non è solo questa.
Infatti supponiamo di voler considerare una “differenza” che è in larghissima misura del tutto dicotomica, come quella fra genere maschile e genere femminile: se noi pensiamo che questa rappresenti una divisione del mondo degli esseri umani da cui trarre conseguenze che vanno oltre alcuni importanti fatti (fatti che riguardano in primo luogo la fisiologia dell’apparato riproduttivo), ci impelaghiamo in una serie di inferenze dubbie e sbagliate.
Per esempio, se prendiamo tutti gli uomini e tutte le donne attualmente viventi, la media delle altezze o dei pesi degli uomini è maggiore della media delle altezze o dei pesi delle donne. Dire da ciò che gli uomini sono più alti di quanto non siano le donne è un’inferenza errata, poiché non sarà raro trovare una donna più alta di molti uomini [3].
Di sfuggita notiamo che la brutta abitudine di fornire valori medi non accompagnati da misure della dispersione attorno a questi valori (come per esempio la varianza) è responsabile di molte fallacie interpretative: ci accontenteremo di ricordare che alcuni analisti chiamano il Brasile, “Belindia”, per indicare che questo grande paese ha una spaventosa differenza di reddito fra i più ricchi (che possono essere pensati come i cittadini ricchi del Belgio) e i più poveri (che possono essere pensati come i cittadini poveri dell’India) [4].
Insomma sarà anche vero che le donne corrono meno velocemente degli uomini (in media), ma la varianza interna ai due gruppi è tale che moltissime donne corrono più forte di moltissimi uomini e che probabilmente la maggior parte delle donne adulte corre più velocemente dell’autore di queste note.
A COSA SI ISPIRA
Il Test di Turing, che è alla base del nostro gioco e che ne è il nobile antenato, è stato proposto dal matematico inglese Turing nel 1950.
La vita di Turing è affascinante e la sua fine molto triste: era omosessuale e l’ambiente accademico inglese dell’epoca non poteva accettare questa “differenza” che dunque doveva essere una malattia.
Pertanto, dopo un processo, Turing fu curato con massicce dosi di ormoni.
Questa cura lo rese impotente e gli fece crescere il seno. Turing non resse e si suicidò nel 1954 all’età di quarantadue anni, mangiando una mela avvelenata con il cianuro.
Scopo del Test, presentato in un articolo dal titolo Computer machinery and intelligence [5], è quello di fornire un metodo operativo per definire l’intelligenza, che – per l’autore – doveva sciogliere, con il rasoio affilato del pragmatismo, l’intricato nodo delle mille definizioni di intelligenza e le mille e uno di intelligenza artificiale.
La nascita dei primi computer, ancora enormi e goffi ammassi di valvole, aveva, infatti, già risvegliato quello che Asimov chiamerà il “complesso di Frankenstein” o “sindrome dell’apprendista stregone”: le macchine che noi costruiamo per asservirle a noi stessi non potrà accadere che un giorno si ribellino? O non potrà accadere che i “cervelli elettronici” – come allora venivano chiamati quelli che in modo riduttivo oggi chiamiamo “calcolatori” – diventeranno più intelligenti degli esseri umani? Insomma, potrà una macchina pensare? Per risolvere questo quesito, la proposta di Turing è di sottoporre la macchina indagata ad un esame che ne valuti la capacità di “simulare” le risposte umane ad ...