Il cacciatore di ricordi
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Il cacciatore di ricordi

Quattro casi gialli per un neuroscienziato

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Il cacciatore di ricordi

Quattro casi gialli per un neuroscienziato

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Informazioni sul libro

Fabrizio Benedetti, professore di Neurofisiologia all'Università di Torino, nel suo lavoro di medico e ricercatore esplora la mente e i ricordi delle persone. Un lavoro che per certi versi richiama quello di un detective: partendo dai dati a disposizione, infatti, si trova spesso a indagare in maniera empirica, per tentativi, la mente umana e i suoi inganni, i depistaggi, le false memorie.

Questo libro raccoglie quattro casi clinici che, per la loro natura, sembrano veri e propri gialli. C'è la storia di Sonia, una donna affetta da demenza che con l'aggravarsi della sua condizione rivelerà un oscuro segreto del passato: si tratta della verità o soltanto di una falsa memoria causata dalla malattia? O, ancora, la storia di Magda, convinta di essere stata testimone di un tragico evento mentre si trovava sotto i ferri: è possibile che si tratti di un caso di anestesia cosciente? E, anche se fosse, la memoria di Magda è attendibile? Toccherà al medico vestire i panni dell'investigatore e scandagliare la mente e i ricordi dei pazienti alla ricerca di una possibile verità.

Caso dopo caso, con grande competenza e una scrittura sempre avvincente, Fabrizio Benedetti ci prende per mano e ci accompagna lungo le vie sconfinate e nascoste della mente, lì dove si cela la natura dell'uomo con i suoi desideri e le sue emozioni. Un intreccio di neuroni che racconta davvero chi siamo: "Noi siamo il nostro cervello, i nostri ricordi, le nostre memorie. La nostra mente vive una realtà privata, soggettiva, a volte imperscrutabile. Non so cosa sia più complesso, l'universo o il cervello, ma sono sicuro che indagare l'uno significa comprendere anche l'altro. Ecco perché continuo ad andare a caccia di ricordi".

Una lettura sorprendente, alla scoperta dell'enigma che si cela nella mente di ognuno di noi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835708124

La maledizione di Ondina

Il pino di montagna e il cervello demente

C’è un posto in montagna dietro casa mia dove è cresciuto un pino alto e maestoso che si staglia nel bosco a duemila metri. Qualche anno fa, i rami che guardano a est hanno cominciato ad appassire. Gli aghi, di un colore verde acceso, si sono lentamente trasformati in una tinta bronzo dorato, poi sono caduti a uno a uno ricoprendo il manto erboso sottostante. Col passare dei mesi, anche i rami che guardano a ovest si sono ricoperti di aghi color bronzo, e oggi la figura del vecchio pino è ridotta a uno scheletro secco che risalta dall’est dell’alba all’ovest del tramonto.
Qualche anno fa c’era vita lì dentro. Lo si percepiva dai canti degli uccelli e dai movimenti dei rami. Ora vedo solo due nidi rinsecchiti e abbandonati. Ho vissuto la fine del pino mese dopo mese, anno dopo anno. I gracchi di montagna evitavano di posarsi sui rami morti, rifugiandosi in quelle porzioni dove la pianta era ancora rigogliosa, costruendo nidi e deponendo uova. Ma anche lì la vita è svanita a poco a poco, inesorabilmente. Il peso della neve invernale ha spezzato gli ultimi rami. Quello che vi resta ora è solo un insieme di monconi che sporgono in maniera disordinata dal tronco.
Il cervello di Sonia è come il pino. Perde neuroni giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, senza sosta, e senza che oggi la medicina moderna abbia armi per combattere il dissolvimento di uno dei misteri più complessi che l’uomo conosca nell’Universo. I neuroni di Sonia sono come gli aghi del pino. Un tempo, in essi risiedevano i ricordi, i pensieri e le emozioni. Oggi il suo cervello è come un albero secco. È vero, è ancora lì, ma senza vita.
Basta osservare il cervello di un paziente demente per rendersi conto della stretta analogia con il pino. Lo si può fare post-mortem, con l’autopsia, quando il cervello viene messo in una giara colma di formalina per conservarlo. Confrontandolo con uno sano, la differenza è netta: il cervello sano è rigoglioso, solcato da anfratti che evidenziano le rotondità delle circonvoluzioni; può sembrare persino grassoccio, con quelle sue piccole forme bombate che vanno dalla parte anteriore a quella posteriore. Insomma, è evidente che è un organo sano, dove qualche tempo prima correvano pensieri e ricordi.
Se invece volgiamo lo sguardo al cervello prelevato da un paziente demente, ci accorgeremo subito della differenza, senza bisogno di essere patologi né medici. È arido, scheletrico come il pino. Le circonvoluzioni non sono bombate e grassocce, ma rinsecchite e rugose: danno il senso di un organo malsano, da cui la vita era già scomparsa ben prima che venisse messo in formalina.
L’immagine del pino è valida anche nel confronto con i neuroni, cioè le cellule che formano il cervello. Ogni singolo neurone ha dei rami, che noi chiamiamo dendriti, e ogni singolo dendrite ha delle piccole sporgenze simili agli aghi del pino, che noi chiamiamo spine. Non a caso, il nome che diamo al complesso di dendriti e spine, è “albero dendritico”.
Lo possiamo osservare al microscopio con tecniche sviluppate ormai più di un secolo fa dall’anatomista Camillo Golgi. L’albero dendritico di un neurone sano è rigoglioso, con rami che si propagano in tutte le direzioni e su cui sbocciano a migliaia le spine. Quello di un paziente demente appare invece al microscopio come il pino secco dietro casa mia: di rami ce ne sono pochi, corti e solitari, e su di essi le spine scompaiono a mano a mano, ineluttabilmente, col progredire della malattia.
Questo è ciò che noi possiamo vedere in una giara piena di formalina o al microscopio. Ma dentro quell’ammasso di circonvoluzioni e solchi, e nella miriade di neuroni che tappezzano il sistema nervoso, ci siamo noi. C’è Sonia, coi suoi ricordi. Ricordi che si affievoliscono, poi ritornano, cambiando di continuo. Ci sono diversi tipi di demenza, ognuna con le proprie caratteristiche, ma la progressiva perdita di memoria è una costante che si ripresenta in tutte.
Sonia soffre di demenza vascolare. Diverse zone del suo cervello non sono più irrorate dal sangue, poiché i piccoli vasi sanguigni che si ramificano tra gli anfratti del cervello si chiudono e non portano più il materiale nutritizio ai neuroni. Come il pino vecchio e malato, dove la linfa vitale non arriva più ai rami e poi ai singoli aghi, così i neuroni appassiscono e muoiono, e con essi i dendriti e le spine. Il fatto è che nei neuroni e nelle loro connessioni con altri neuroni hanno sede i ricordi, cioè quelle tracce di memoria che la miriade di esperienze della nostra vita ha lasciato. A un certo punto i neuroni cominciano a morire, e con essi i ricordi. A seconda dell’area del cervello colpita, svaniscono diversi tipi di ricordi: recenti e passati, emotivi e coscienti. Il loro avvicendarsi, cambiare, sparire e tornare, dipende dalla casualità con cui tutto ciò avviene, cioè, in altre parole, da quali di quei piccoli vasi sanguigni si occludono.
In una demenza vascolare, quindi, è difficile predire quello che succederà, quali funzioni saranno compromesse, quali memorie verranno perse. Può essere un ricordo lontano dell’infanzia, oppure una “semplice” memoria motoria, per esempio come allacciarsi le scarpe.
Ho visto Sonia per la prima volta una dozzina di anni fa. Aveva sessant’anni, casalinga, alta e slanciata, capelli scuri, evidentemente tinti, data la sua età. Ci teneva all’aspetto esteriore; era ben curata, nei modi e nella fisicità. Era però titubante, indecisa su ciò che aveva da dire e raccontare, e sul modo di interagire con me. D’altronde era venuta per quelli che lei chiamava “buchi neri dei suoi ricordi”: non ricordava i nomi delle persone care, non ricordava con chiarezza gli avvenimenti remoti, e poi aveva la sensazione frustrante di non riuscire ad apprendere cose nuove. Le piaceva cucinare e per questo c’era un intenso scambio di ricette fra lei e le sue amiche. Ma, ahimè, negli ultimi anni non riusciva a focalizzarle, e non c’era preparazione culinaria, anche la più semplice, che memorizzasse a breve distanza di tempo. Non era così negli anni precedenti. Le ricette le aveva tutte nella sua testa, ed era conosciuta proprio per questo: una brava cuoca che con l’ingegno sapeva fondere formule nuove con altre più vecchie nella creazione di piatti squisiti.
Di tutto ciò si era accorta lei stessa, ma soprattutto un’amica, la quale l’aveva consigliata, anzi obbligata a rivolgersi a un medico. Sonia non aveva famiglia: era una ragazza madre. La figlia, Martina, era morta diversi anni prima. Lo appresi quando vidi la paziente per la prima volta, ma non immaginavo che fosse il fulcro della storia dei suoi ricordi. Andiamo con ordine, però, cerchiamo innanzitutto di capire cosa comporti la malattia di cui sto parlando, e cosa possa accadere a un cervello che lentamente si sta dissolvendo.
Nel mio mestiere, il primo passo è la valutazione delle capacità mentali del paziente. Lo si fa attraverso la somministrazione di test, prima semplici, poi sempre più complessi. Il primo test da effettuare è il cosiddetto Mini Mental, e serve a rivelare i deficit principali. Ho accompagnato Sonia in una stanza, l’ho fatta sedere dietro una scrivania e ho iniziato a indagare su cosa le stesse succedendo. Le ho posto una serie di domande.
«In che anno siamo? Che giorno è oggi? In quale stagione ci troviamo?»
Le sue risposte erano corrette.
«In che regione ci troviamo? In quale città? In quale ospedale? A che piano?»
Risposte corrette.
Sonia aveva quindi una chiara percezione del tempo e dello spazio, era consapevole del momento e del luogo in cui si trovava.
«Ripeti in ordine le parole “tavolo, gatto, mare, auto”.»
Ci pensò un po’ e poi mi rispose: «Gatto, mare, tavolo... qual è l’altra parola?».
Fallì questa prova di memoria molto semplice: ecco un primo indizio di confusione. Continuai con qualcosa di un po’ più complicato.
«Partendo da cento, sottrai di tre in tre.»
Sonia iniziò con difficoltà: «Cento... novantasette... novantacinque, anzi no, novantaquattro... novanta... no, aspetti, ottantaquattro...». Si fermò. «Non riesco più.»
«Bene, non importa, andiamo avanti» la interruppi. «Dimmi la parola “mare” al contrario scandendo le singole lettere.»
Non ci riuscì, e rinunciò subito. L’attenzione e il calcolo erano chiaramente compromessi. Le chiesi allora se si ricordava le parole che le avevo detto precedentemente, cioè “tavolo, gatto, mare, auto”. Si ricordava solo “gatto”.
Proseguendo con il test, scoprii che il linguaggio di Sonia era appropriato, tuttavia domande semplici possono rivelare alcuni deficit. Le mostrai una penna domandandole cosa fosse.
Rispose correttamente.
Quindi feci lo stesso con il mio orologio.
Di nuovo rispose correttamente.
A quel punto la invitai a prendere un foglio di carta, piegarlo in due e appoggiarlo sul pavimento.
Eseguì le istruzioni in modo corretto.
Le sottoposi le stesse istruzioni in lettura, e Sonia le eseguì sempre correttamente. Anche le frasi che le domandai di scrivere su un foglio risultarono giuste. L’espressione del linguaggio, la comprensione, la lettura e la scrittura erano dunque normali. Anche l’abilità nel disegno era buona. Lo si vede dalle semplici figure che copiò, per esempio due pentagoni che si incrociavano.
Ecco che con poche domande mi sono fatto una prima idea di quello che stava succedendo a questa paziente. Sonia aveva evidentemente un primo deficit dell’attenzione e della memoria, non grave, ma preavviso di una condizione che sarebbe potuta sfociare in una grave demenza. Noi lo chiamiamo deficit cognitivo lieve.
Questo è successo circa dodici anni fa. Sonia oggi è peggiorata. Lo rivelano ulteriori test, che vanno sotto il nome di Batteria di Valutazione Frontale, e sono utili a valutare la compromissione dei lobi frontali, cioè di quelle zone del cervello che ci fanno essere umani, con le nostre capacità di interagire col mondo esterno in maniera complessa.
Chiedo alla paziente: «Cosa sono una mela, una ciliegia, un’arancia? A quale categoria appartengono? Cosa sono una margherita, una rosa, un’orchidea?».
Non sa rispondere. Eppure la risposta è semplice: i primi sono frutti, i secondi fiori.
Proseguo chiedendole di dirmi il maggior numero possibile di parole che iniziano con la lettera “S”.
Ha molte difficoltà; ne dice solo due: «Sale... senape».
Alla mia richiesta di seguire quello che faccio, non riesce a imitarmi mentre eseguo con la mano la classica sequenza sasso-forbici-carta, dove il sasso è il pugno, le forbici sono l’indice e il medio divaricati e la carta è il palmo aperto. Infine le chiedo di mettere le mani sulle ginocchia con i palmi all’insù, poi le tocco i due palmi e lei mi afferra le mani. Le dico che non deve farlo, eppure lei continua a stringerle ogni volta che le tocco. Questo è un indice di comportamento automatico, vale a dire attuato indipendentemente dal divieto di effettuarlo.
La memoria e il comportamento di Sonia sono evidentemente affetti da una patologia.

Noi siamo i nostri ricordi

Non c’è un solo tipo di memoria. Ce ne sono diversi, ognuno con le proprie caratteristiche e i propri meccanismi. Io posso ricordarmi i dettagli di un avvenimento di cinquant’anni fa ma non quello che ho fatto ieri; oppure posso essere in grado di effettuare un calcolo aritmetico ma non di allacciarmi le scarpe. Insomma, nell’inesorabile perdita di memoria di una demenza possono succedere molte cose, il che dipende, come abbiamo in parte già accennato, da quali aree del cervello sono compromesse.
Poco fa ho chiamato un ristorante per prenotare una cena con gli amici. Ho cercato il numero nell’elenco telefonico, me lo sono ricordato per pochi secondi, quanto basta per comporlo sul cellulare, ho prenotato, ma adesso che ho ripreso a scrivere queste righe quel numero è svanito nel nulla. Questa è la memoria a breve termine, che spesso dura solo pochi secondi. Ricordo invece perfettamente, e potrei trascrivere o recitare ad alta voce in qualsiasi momento, per esempio, alcune poesie imparate alle elementari: una su tutte, San Martino di Giosuè Carducci. È rimasta nella mia testa per tutti questi anni. È incredibile che nel mio cervello ci sia ancora traccia di quelle righe e di quei suoni. Eppure non faccio alcuno sforzo a ricordarla, e posso persino recitarla a gran velocità. Questa è la memoria a lungo termine, e può durare per la nostra intera esistenza. Di tutte le informazioni che riceviamo in un giorno, solo l’1 per cento e anche meno viene fissato nel cervello per periodi lunghi. Il 99 per cento viene perso e svanisce nel nulla.
Il cervello elabora la memoria a breve e lungo termine in maniera diversa. Lo si vede chiaramente nei casi di amnesia anterograda: in questa patologia si perde la capacità di apprendimento da quando insorge il problema, per esempio un trauma, mentre la memoria precedente rimane intatta.
Anche la storia di Sonia è in parte legata all’amnesia anterograda: i suoi deficit di memoria sono relativi ai ricordi di adesso, non a quelli del passato.
C’è un paziente famoso nella storia della medicina, Henry Molaison, meglio conosciuto come H.M., che ci ha fatto comprendere con chiarezza come il cervello umano immagazzini i ricordi a breve e a lungo termine. I suoi lobi temporali, cioè quelli ai lati del cervello, furono asportati a causa di una grave forma di epilessia. Dopo l’intervento, H.M. ricordava il passato lontano, ma non riusciva ad apprendere, cioè in altre parole la sua memoria più recente svaniva via via. L’uomo, per esempio, aveva cambiato casa, ma tornava sempre al suo vecchio indirizzo perché non riusciva a imparare quello nuovo.
I lobi temporali, e più precisamente il cosiddetto ippocampo – chiamato così per la sua forma a cavalluccio marino –, svolgono un ruolo determinante nella formazione dei nostri ricordi. Tuttavia, non è lì che le memorie vengono depositate: H.M. e pazienti simili a lui ricordano il passato remoto anche in assenza di queste aree cerebrali. L’ippocampo è dunque un primo centro di smistamento delle memorie, che poi vengono depositate nella corteccia cerebrale, quel manto di sostanza grigia che ricopre tutto il cervello.
Qual è il rapporto tra neuroni e ricordi?
Non si deve immaginare che ogni ricordo sia localizzato in un singolo neurone. Sarebbe decisamente svantaggioso per l’essere umano nel corso dell’evoluzione; la morte di quel neurone determinerebbe la scomparsa di un’intera memoria. Il volto di mia madre racchiuso in un singolo neurone? No, il cervello non funziona così. È la combinazione di migliaia di neuroni e delle loro connessioni, attivate da sostanze chimiche specifiche, a contenere il volto di mia madre. Se qualche connessione viene persa, il volto di mia madre si affievolisce, ma non viene perso del tutto. Solo quando queste migliaia di neuroni svaniranno interamente, anche il volto di mia madre scomparirà del tutto.
Ecco una strategia dell’evoluzione per evitare che le memorie vengano perse con facilità.
Nel nostro cervello esistono dunque intere popolazioni di neuroni, vicini e distanti, che comunicano fra loro. È persino possibile misurare come i diversi gruppi di neuroni, o moduli, vengano attivati simultaneamente. La comunicazione è complessa e si basa sulla sincronia, e i metodi per rivelarla sono molto complicati e si esprimono con formule matematiche. Una di queste è la cosiddetta informazione reciproca. Eccola.
1(R, T) = Σ PRT (ri, tj ) log (PRT(ri, tj ) / PR (ri)PT(tj))
Per carità, non leggetela, poiché ha poca importanza al fine di questa storia. Serve solo per capire quanto sia complicata la comunicazione fra gruppi di neuroni.
Per meglio comprendere il funzionamento dei neuroni in relazione ai ricordi, torniamo all’immagine del pino. Tramite la linfa e le sottili venature dei rami e del tronco, molti aghi sono in connessione con altri, vicini e lontani. Per esempio, gli aghi del ramo in alto che guarda a est possono essere in connessione con quelli del ramo in basso rivolto a ovest. Sono fisicamente molto distanti, ma funzionalmente vicinissimi, perché sono in connessione fra loro, e la formula dell’informazione reciproca ce lo rivelerebbe. Così i neuroni: funzionano come un tutt’uno, e nella loro connessione è contenuto un nostro ricordo. È impressionante pensare a quanti ricordi abbiamo noi adulti, ma è altrettanto impressionate pensare a quante combinazioni di connessioni fra neuroni esistano nel nostro cervello.
Il numero dei neuroni è infinitamente maggiore rispetto a quello degli aghi di un grosso e vecchio pino, e compone una sinfonia meravigliosa, nel tempo e nello spazio, dove le memorie più remote e più recenti sono poste ordinatamente, in una sequenza che ci dà il senso del tempo passato.
Nella demenza queste connessioni vengono perse, parzialmente o totalmente, e allora le memorie si affievoliscono, si accavallano, si confondono, oppure svaniscono del tutto. Quella stupenda sinfonia, quella sincronia, quella meravigliosa sequenza spazio-tempor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il cacciatore di ricordi
  4. Prologo. L’archivio
  5. La maledizione di Ondina
  6. Anestesia cosciente
  7. La realtà incantata
  8. Il massacro di Srebrenica
  9. Epilogo
  10. Copyright