Mi chiamo Cherif, e gioco a pallone.
E qui a Nzérékoré, nel Sud della Guinea, noi bambini non giochiamo in un campo normale. La città è grande, moderna, un casino di macchine e palazzi, io però abito un po’ fuori, in campagna. E il nostro campo è una distesa tra gli alberi, dietro la scuola, di terra rossa, arida, che se corri ti si appiccica addosso. Quando vogliamo giocare prendiamo due massi e facciamo una porta. Quattro massi, due porte. Devo andare a scuola, vero, ogni giorno arrivo lì per questo. Però io ci vado soprattutto perché poi le lezioni finiscono, c’è Ousmane che ha il pallone e giochiamo sempre, fino a tardi, più tardi che possiamo. Ma non mi pare grave, faccio la cosa che più mi piace e sono contento.
Siamo in sei, squadra fissa. Il più forte di tutti è Seyba, già grande e grosso e bravissimo a dribblare. A scuola a volte nemmeno entriamo, e quando entriamo si può dire che inizia già la partita, il maestro spiega ma noi facciamo le squadre e sfidiamo le classi vicine, anche quelle di ragazzi più grandi. Una volta mi sono fermato a pensarci, l’ho detto anche agli altri e loro sono stati d’accordo con me: il pallone ci prende quasi tutta la giornata, è una passione anche più grande di noi.
Il problema è che in mezzo a quei due massi ci vado sempre io. E un giorno capisco che è un problema proprio mentre mi tuffo.
È l’ultima partita della giornata, al tramonto, stiamo perdendo 4-3 ma gli ultimi due gol li abbiamo fatti noi, grande rimonta. Per distinguerci, noi non ci siamo messi la maglia e loro sì. Sono forti e più grandi, noi però abbiamo Seyba che fa qualche numero e ci tiene in piedi. Capisco che possiamo recuperare sentendo le urla dei ragazzi che ci guardano, batto le mani, già sorrido perché li stiamo chiudendo. Poi Ousmane prova a scattare, ma uno con la canotta verde capisce e gli mette il piede davanti togliendogli il pallone. Canotta Verde avanza, Ousmane rientra e lo sbilancia, quello però si trova la palla sul destro e tira.
Non so se è una magia o qualcosa di mio, ma quando sono in campo vivo e vedo tutto più lento, tanto più lento, come se non mi trovassi lì e qualcuno mi raccontasse quello che succede.
Vedo la palla schizzare rasoterra, mi tuffo a sinistra per prenderla. Solo che mi rimbalza davanti e mi scavalca. Capisco che sta finendo in porta perché vedo Canotta Verde alzare i pugni e urlare, mentre la polvere che si è sollevata da terra mi entra negli occhi e in bocca. Piango e tossisco mentre mi alzo.
«Cherif, cazzo, era facile!» mi fa Ousmane. È furioso.
«A casa, su che è tardi, schiappe» fanno quegli altri, che si danno il cinque.
Non abbiamo tempo né regole, però su quel gol da pollo la partita è finita, si capisce. Gli avversari ridacchiano e si allontanano.
Riprendo la maglietta e mi pulisco la bocca e le lacrime. Ho nove anni ma mi è scattato qualcosa.
Vado da Ousmane e lo spingo: «Trovatevi un altro portiere, io in porta non ci gioco più».
«Ah sì? E che vuoi fare?»
«Giocare in mezzo, con voi.»
«Sei scarso anche lì, dove vuoi andare?»
«Sicuramente quel pallone non me lo lascio togliere da stupido come hai fatto tu» gli urlo.
«E io in porta non prendo quel gol da cretino» risponde.
Arriva Seyba, si mette in mezzo. «Allora facciamo così: domani Cherif gioca in mezzo e Ousmane in porta. Se va meglio vuol dire che avete ragione tutti e due.»
Poi Seyba si avvicina le dita alla bocca e fa un fischio. Canotta Verde si ferma e si gira, lui lo raggiunge, parlano. Poi Seyba torna.
«Gli ho chiesto la rivincita. Dobbiamo vedere se funziona contro quelli forti.»
Non dormo tutta la notte. Il giorno dopo al tramonto siamo ancora lì. Ousmane va in porta, lo guardo e mi fa una linguaccia. La prima cosa che faccio è scattare a sinistra, Seyba mi vede, mi passa palla, metto il piede per controllarla ma schizza avanti di un metro. Uno degli altri sta per recuperarla ma io corro. E arrivo prima di lui, lo vedo che inciampa mentre prova a venirmi dietro. Controllo male ma avanzo e provo a fare lo stesso tiro di Canotta Verde, però la palla va altissima. Gli avversari ridono, Seyba si avvicina e mi fa: «Bravo, continua così».
Sento di nuovo quello scatto dentro di me, come il giorno prima, e comincio a correre senza fermarmi mai. Dove c’è il pallone, ci sono io. Non lo mollo, se ce l’hanno gli altri io gli sto davanti, di fianco, addosso. Ho voglia di giocare, penso, e quindi devo giocare sempre, senza pause, dando tutto. Non voglio mangiare più polvere e, se devo farlo, almeno devono mangiarla anche gli altri.
Seyba segna due gol in pochi minuti, Ousmane controlla bene la porta e gli altri non riescono mai a tirare in maniera pericolosa. A un certo punto si capisce che è finita, Canotta Verde e i suoi se ne vanno e io mi siedo sulle ginocchia. Il fiatone mi sta ammazzando.
Arrivano tutti. Aliou, alto e magro come un chiodo, sgrana gli occhi e mi fa: «Cherif, non ci devi tornare mai più in porta».
«Perché? Che ho fatto di male?»
«Niente, anzi, tutto. Provi a stoppare il pallone e ti va a due metri. Però corri anche per noi, e ci stanchiamo di meno.»
Ridiamo tutti.
Al lato del campo, due uomini che hanno guardato la partita ci fanno i complimenti. Uno fa all’altro: «Quel ragazzo non si ferma mai, è il più piccolo ma con lui in campo c’è da stare attenti. È come quella vecchia storia del contadino che trova un uovo e vuole mangiarselo, ma mentre lo rompe esce una vipera appena nata e lo morde. Nessuno se l’aspetta, e lei zac! Morde».
Da allora tutto il quartiere mi chiama così, la Vipera. Sono scarso, ma non voglio che gli altri pensino che sono scarso, così corro, inseguo ogni pallone, vado sempre a mille all’ora. Faccio anche tanti falli, ma non perché sono cattivo. Però se mi salti non posso lasciarti andare, mi viene sempre nella testa l’immagine di Canotta Verde che va via e trova il gol e no, non voglio perdere ancora così. Nelle partite tra noi non ci sono arbitri: chi subisce il fallo lo chiama, e solo se tutti sono d’accordo il gioco si ferma, quindi non è quasi mai fallo.
Anche le squadre dei ragazzi più grandi iniziano a chiamarmi, faccio qualche partita anche con loro. Sono tutti attaccanti, tutti bravi a dribblare, a me invece piace difendere e ci riesco bene.
«Sei diventato famoso» mi fa un giorno Seyba. «Mi hanno chiamato quelli di quinta. Pensavo che gli servisse il sesto per la partita, invece volevano sapere dov’eri tu. Sono diventato l’amico della Vipera, hai capito?»
Però a me piace giocare con lui, con gli amici di sempre. Ed è quando sono con loro che un giorno arriva il signor Smith. Lo conoscono tutti, ha un negozio di vestiti nella strada principale del quartiere, mette sempre pantaloni lunghi con la camicia infilata dentro. Ci chiama tutti per parlarci: «Ragazzi, giocate bene, vi manca solo una cosa».
«Cosa?» facciamo in coro.
«Un allenatore» fa lui.
Da quel giorno viene a ogni nostra partitella, non fa proprio l’allenatore, ma ci dà qualche consiglio su cosa fare e ci ascolta. Un giorno ci iscrive a un torneo di calcio a cinque, in un altro quartiere, su un campo stretto e lungo. C’è tanta gente a vederci e alcuni scommettono anche su come andrà a finire.
La squadra che inizia contro di noi non è fortissima, ma per me è la partita più importante del mondo. Smith mi dice cosa devo fare: non devo superare la metà campo a meno che non sia proprio necessario, ma appena qualcuno degli altri supera la loro devo pressarlo, provare a toglierli la palla, non farlo tirare. Ho paura, ma ho anche una voglia incredibile di vincere.
Poi inizia, ed è una battaglia. Noi non facciamo gol, ma neppure loro. Io gioco come se quelle parole Smith me le avesse stampate in testa: appena uno di loro ha il pallone gli vado addosso, non sto mai fermo, un paio di volte arrivo con la punta del piede sui loro passaggi e li devio. Se recupero, guardo dov’è Seyba che è l’unico che può farci vincere e provo a passargliela, e lui verso la fine ha un lampo dei suoi. Ne dribbla due e tira, il portiere è battuto ma un difensore sulla linea ferma il pallone con la mano. Rigore, non protesta nessuno, io esulto.
Seyba mi chiama. «Questo tocca a te, tiri tu.»
«Io? No, non posso. Non ho mai tirato. Vai tu.»
«Stai giocando per due, come un leone. È grazie a te se non hanno fatto neanche un tiro. Quindi se dobbiamo vincere deve essere con un gol tuo.»
Mi dà il pallone e se ne va. Mi giro verso Smith, lui fa cenno di sì con la testa. La gente che assiste si avvicina, scavalca la linea nella terra che delimita il campo, li vedo tutti di fronte a me, sembrano decine di portieri, e con tutto quel casino di maglie e grida non riesco a vedere nemmeno la porta.
Allora decido che non ci devo pensare. Quattro passi di rincorsa, guardo dritto davanti a me e colpisco il pallone di punta, con tutta la forza che ho, urlando. Esce un tiro forte, a mezz’aria, il portiere quasi lo tocca ma non ce la fa a deviarlo. È il mio primo gol. Alzo le braccia e piango. E piango ancora quando la partita finisce: 2-0 per noi, nemmeno il tempo di rimettere il pallone a centrocampo che Momo, un altro dei miei amici, chiude i conti.
Il giorno dopo ci buttano lo stesso fuori dal torneo, sono dispiaciuto ma comunque contento: siamo una squadra. E da lì andiamo direttamente al nostro campetto dietro la scuola, e giochiamo fino al tramonto.
Una sera mentre torno a casa dal campetto incontro Aliou.
«Ehi Cherif, ti va di vedere una partita vera?» mi chiede.
Io a dire il vero non vedevo l’ora di giocarla, una partita. Ma l’idea mi incuriosisce e gli dico di sì.
«Vieni con me» fa.
E mi porta verso la piazza del mercato, sul lato dove ci sono i magazzini. Di giorno quel posto è talmente pieno di gente che fai fatica a camminare, di notte non c’è nessuno. E invece quella sera no, davanti a un locale c’è una folla che non avevo mai visto, gente che urla, tutti in fila per entrare.
«C’è Barcellona-Real Madrid stasera, la trasmettono con il proiettore del cinema. Mio fratello sta alla porta, mi ha detto che se non facciamo casino ci lascia entrare.»
Entriamo e riusciamo ad accovacciarci, sul muro iniziano ad andare le immagini della più bella partita che abbia mai visto in vita mia, su un campo verde, davanti a un sacco di persone. Imparo subito i nomi dei giocatori, soprattutto due: Eto’o e Messi. Appena toccano la palla accendono la partita, gli altri sembrano ordinati ma loro due hanno una specie di carica addosso, ogni volta fanno qualcosa di speciale, un tiro o un dribbling. La gente in quello stadio lontano è esaltata, e si vede, e anche tutti quelli che la guardano lì a Nzérékoré si esaltano allo stesso modo.
Esco dopo due ore, contentissimo, quell’Eto’o ha fatto un dribbling con un doppio passo che non vedo l’ora di provare al campetto.
«Bello, vero?» fa Aliou. «Lo sai che le famiglie ricche le partite come queste le guardano a casa in tv?»
Sorrido. Lo so, so che in tante case ci sono i televisori che li accendi e ti raccontano il mondo. Io però non ce l’ho. E anche se l’avessi non saprei cosa farci, visto che non abbiamo nemmeno la luce.
Siamo in cinque, e non ce la passiamo molto bene.
In Africa le famiglie di solito sono molto numerose, la mia no. Siamo musulmani, e nei paesi africani di solito funziona che sono i tuoi genitori a scegliere per te la moglie o il marito. Se non accetti, sei fuori dalla famiglia. Mio padre Mamadi però era uno tosto. E, quando mio nonno gli presentò la ragazza che avrebbe dovuto sposare, lui disse: «Perché dovrei? Ne conosco già una, e voglio stare con lei».
Era mia madre, Saran. Scapparono a Nzérékoré e si sposarono. E fecero tre ...