L'intelligenza non è artificiale
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L'intelligenza non è artificiale

La rivoluzione tecnologica che sta già cambiando il mondo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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L'intelligenza non è artificiale

La rivoluzione tecnologica che sta già cambiando il mondo

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Era il 3 gennaio 1983 quando la rivista «Time» assegnò per la prima volta nella sua storia il premio di «persona dell'anno» non a un essere umano bensì al personal computer. Quella celebre copertina sanciva una svolta epocale, l'inizio di una rivoluzione tecnologica che ci avrebbe traghettato verso il mondo nuovo, veloce e leggero dell'Intelligenza Artificiale. Un mondo immateriale, dove però i prodotti della ricerca avanzata sono sempre più concreti.

Con il tempo l'Intelligenza Artificiale ha smesso di cercare di riprodurre il nostro modo di ragionare, non è più un imitation game. È diventata una forma di intelligenza diversa, che partendo dai dati e dall'esperienza è capace di imparare e quindi di parlare, vedere, sentire, guidare, muoversi e interagire con gli esseri umani. Lavora con l'uomo nella medicina elaborando migliaia di immagini, nell'industria, nella finanza, supporta la sicurezza nazionale e può diventare pericolosa se progettata o utilizzata in modo sbagliato.

Anche per questo siamo indotti a chiederci fino a dove potrà spingersi e se ci siano dei confini etici da non valicare. Come ogni tecnologia l'Intelligenza Artificiale non è né buona né cattiva, ma può essere usata in modo corretto oppure inopportuno. Certo la scienza, per definizione, è libera, democratica e al servizio dell'umanità, ma proprio per questo serve una struttura normativa internazionale, perché più una tecnologia è potente, più dev'essere affidabile e sicura.

Questo libro ci racconta la storia e l'evoluzione dell'Intelligenza Artificiale dalla voce di chi la sta progettando giorno per giorno nei centri di ricerca italiani e spiega come essa sia frutto del pensiero, del controllo e del comportamento umano. Siamo noi i suoi maestri e i suoi giudici. Quindi saranno il nostro sentire, la nostra cultura e il nostro umanesimo a disegnarne il futuro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707646

Parte terza

XI

AI, UN CAMBIO DI PROSPETTIVA

Fino a dieci anni fa l’Intelligenza Artificiale era un ossimoro. Perché l’intelligenza è qualcosa di tipico degli esseri umani e non delle macchine e degli oggetti artificiali come un software, un computer o un robot. Questo dibattito è nato in un contesto filosofico, mentre ora l’ambiente è tecnologico: ha creato l’energia e la spinta per ottenere sistemi cognitivi e intelligenti sempre più potenti. Pensiamo a Cartesio, che nel Seicento ci aveva raccontato che l’uomo è fatto di pensiero (cogito ergo sum), e che gli esseri umani si differenziano dagli animali essendo i primi res cogitans, fatta di pensiero, di spirito immateriale, e i secondi res extensa, di fatto come le macchine.1 Ora la storia è davvero cambiata perché non congetturiamo più senza prove sulla natura della nostra intelligenza, ma abbiamo una risposta certa dalla scienza e sappiamo che l’intelligenza è nel nostro cervello. Nei nostri circuiti cerebrali, gli 80 miliardi di neuroni che abbiamo non sono molto dissimili dagli 800 milioni di neuroni che ha il mio gatto, e nemmeno dai milioni di neuroni che potrebbe avere il robot che mi pulisce la casa, girando ovunque, ed è in grado di ricordare la forma delle stanze, di utilizzare la logica per pianificare i suoi spostamenti, ma anche di apprendere se c’è un ostacolo e come aggirarlo. Oddio, quelli biologici e quelli artificiali non sono «molto» simili; però, mentre i nostri circuiti biologici sono limitati e si evolvono in centinaia di anni, generazione dopo generazione, i circuiti cerebrali delle macchine stanno crescendo di giorno in giorno.
Lo sforzo di superare i nostri limiti di esseri umani anche nell’intelligenza ha fatto sì che negli ultimi sessant’anni sia la scienza sia la tecnologia abbiano cercato di superare le prestazioni degli esseri umani nell’ambito dell’AI. Leggo alcuni articoli di neuroscienze che provano a misurare i neuroni dei cervelli di uomini e di mammiferi. Ho capito che si va a peso e a concentrazione. Se un cervello è grande, come quello dell’elefante africano che è l’animale con il cervello più grosso, tendenzialmente esso avrà più neuroni. C’è un fattore che si chiama neuronal packing density (NPD) che ci dice quanti neuroni stanno impacchettati in un centimetro quadrato o in un grammo.2 Non entro nei dettagli, ma oggi i neuroscienziati ci dicono che anche il gatto, come l’elefante, ha la sua forma di intelligenza diversa, più piccola perché fatta di meno neuroni, ma diversa perché diverse sono le connessioni. Sappiamo che gran parte della nostra intelligenza sta nella corteccia, dove si uniscono percezione, azione e reazione, ma che comunque la nostra intelligenza è limitata. Questo lo aveva capito anche Pascal, che quattrocento anni fa nei Pensieri scriveva: «La nostra mente e la nostra intelligenza sono assolutamente limitate. Nello stesso ordine della nostra fisicità: noi non vediamo da lontano, sentiamo dei rumori che non sappiamo selezionare, siamo davvero limitati».3 La nostra intelligenza ha un limite. Cosa c’è di meglio che provare a costruire un umanoide, come fece Frankenstein, che arrivi a superare quel limite?

All’inizio c’era il pensiero umano. Poi un grande «shift»

Tutti sanno che questo desiderio, e di fatto tutta l’AI, nascono dall’imitation game, il gioco di imitazione di Alan Turing, che nel 1950 scrisse un meraviglioso articolo che prospettava la possibilità di realizzare l’Intelligenza Artificiale come un gioco di simulazione nei confronti dell’essere umano. Tutto l’anelito dello scorso secolo si rivolgeva a copiare il pensiero umano.
Io sostengo che l’AI di oggi non sia più un imitation game,4 e vorrei provare a convincervi.
Non c’è libro di Intelligenza Artificiale che si rispetti che non faccia partire tutto da Alan Turing e dal suo imitation game. In realtà gli studiosi della teoria dell’AI fanno un passo indietro e affondano le radici dell’Intelligenza Artificiale nella filosofia della scienza degli anni Trenta, quando matematici e filosofi avevano un obiettivo: dimostrare che attraverso la matematica si potesse rappresentare tutto il pensiero umano. L’implicazione cent’anni dopo potrebbe suonare importante perché, se fosse vero che la matematica può spiegare ogni pensiero umano, sapendo che oggi un computer è in grado di replicare ogni sorta di matematica potremmo arrivare alla deduzione che un computer potrebbe rappresentare ogni pensiero umano e che l’Intelligenza Artificiale avrebbe raggiunto il suo scopo.
Tranquilli, in queste ultime righe ci sono una serie di affermazioni non vere. A confutare la prima ci pensò Kurt Gödel nel 1931, il quale, studiando la logica dei predicati (che ora è anche alla base della logica in Intelligenza Artificiale), con i suoi due famosi teoremi di incompletezza dimostrò che nella logica esistono alcune affermazioni che non si possono dimostrare né vere né false.
Se volete saperne di più, vi consiglio un libro del fisico Paul Davies,5 il quale ci ricorda che paradossi come «questa proposizione è una bugia» (frase che non può essere né vera né falsa) distruggono ogni teoria di decidibilità della matematica e dell’informatica.
Detto in modo più complicato e corretto, i teoremi di incompletezza stabiliscono che ogni sistema assiomatico consistente e in grado di descrivere l’aritmetica dei numeri interi è dotato di proposizioni che non possono essere dimostrate né confutate sulla base degli assiomi di partenza.
Gödel, considerato uno dei più brillanti logici dopo Aristotele, formulò i suoi teoremi come tesi di dottorato per contrastare quanto sostenuto da David Hilbert. Hilbert, eccezionale matematico, nel 1900 aveva proposto una lista di problemi matematici irrisolti, tra cui quello di dimostrare che l’insieme degli assiomi dell’aritmetica è consistente: si trattava del problema 2, detto Entscheidungsproblem, il problema della (in)decidibilità. Gödel dimostrò, invece, che la coerenza di un sistema formale è tale proprio perché non può essere dimostrata.
Tronco in fretta questo discorso troppo matematico che non mi eccita affatto (ma, se eccita voi, ci sono mille libri che ne parlano, anche in modo semplice e divulgativo, come fa Piergiorgio Odifreddi in Il dio della logica), solo per dire che, grazie a Gödel, oggi sappiamo che ci sono affermazioni indecidibili. Punto. Questi temi di filosofia della scienza alla base della logica sono stati utilizzati nei decenni successivi pro e contro l’Intelligenza Artificiale, anzi, spesso contro, per contraddire l’idea che con l’AI si potesse spiegare il pensiero umano.
Ma, come vi dicevo, i tempi sono cambiati. È vero che la matematica non riesce a spiegare la logica e che ci sono affermazioni indecidibili. Questi studi di Gödel e di altri dopo di lui non intaccano il pensiero umano, e nemmeno l’AI. Intanto, l’uomo non è fatto solo di logica; abbiamo ragionamenti che partono dalle intuizioni e dalle emozioni, e quindi la logica anche replicata al calcolatore non basterebbe. Per cui, se proprio l’AI volesse replicare il pensiero umano, non dovrebbe sentirsi limitata dai problemi di incompletezza e indecidibilità e nemmeno dalla logica. Il secondo aspetto per me ora assiomatico è che l’AI adesso è cambiata e non vuole replicare il pensiero umano. Va ben oltre.
Torniamo all’inizio. Ancor prima di Gödel – che, come avrete capito, mi è sempre stato un po’ antipatico, come mi stanno antipatici tutti quelli che si accaniscono a trovare le falle dei sistemi – va ricordato invece un grande maestro, George Boole, matematico e logico britannico che nel 1847 scrisse The Mathematical Analysis of Logic.6 Oso dire che è un mio maestro perché è stato l’argomento della mia tesi e perché insegno le reti logiche e l’algebra di Boole da più di vent’anni. L’algebra di Boole è il fondamento logico dell’informatica, quello dell’if-then-else, sia in software sia nei circuiti logici dell’hardware. Ora, con le reti neurali non si vuole replicare la logica (ma sono scritte da programmi che usano la logica), e nell’AI non usiamo sempre la logica, così come non la usiamo sempre nella nostra vita di tutti i giorni. La logica, però, ci dà certezze che è meglio non dimenticare. Tutti i discorsi sulla logica, da Boole a Gödel alle logiche del primo ordine e molto, molto altro, sono alla base dell’AI classica, che è stata capace di risolvere problemi, di dimostrare teoremi, di dedurre informazioni, nell’ipotesi che nel mondo tutto sia o solo vero o solo falso e mai un po’ e un po’. Molte cose derivano da questi studi. Anche la mente di mio marito e di mia figlia sono logiche e assertive. Ma non esiste solo vero e falso, bianco e nero; esiste il grigio, come esistono tutti i colori del mondo.
Insomma, dopo Gödel e altri logici, alla fine arriva Alan Turing, che assieme a Church vuole dimostrare cosa una macchina è in grado di computare (cosa può essere calcolabile), e definisce il suo concetto di macchina intelligente inventandosi la «macchina di Turing», capace in teoria di risolvere ogni proposizione logica e funzione computabile. Turing si inventa il gioco, si inventa le regole e si pone i problemi dell’arbitro. Nel 1937 inizia a porsi i problemi delle macchine intelligenti chiedendosi come gestire il problema dell’halting, dell’arresto nella computazione, ossia quando un sistema intelligente si rende conto che è il caso di chiudere e di finire. Problema mai risolto da molti di noi, del resto.
Da Gödel a Turing inizia a prendere forma il paradigma dell’Intelligenza Artificiale come imitazione dell’intelligenza umana, e si comincia davvero a parlare di sistemi cognitivi, del concetto di intelligenza delle macchine automatiche e dei robot.
Abbiamo visto tutti The Imitation Game, il film in cui Benedict Cumberbatch interpreta la parte del matematico geniale; dovrei chiamarlo informatico, dato che l’informatica – di fatto – l’ha inventata Turing. Film davvero molto bello, dove si ricostruisce tutta l’attività condotta durante la Seconda guerra mondiale da Turing e altri a Bletchley Park, luogo per anni mantenuto segreto e poi diventato museo (guardate attraverso il QR Code che trovate alla fine delle Note, o cliccando sul link www.intelligenzanonartificiale.it, l’area originale dove lavorava Turing, ricostruita poi fedelmente nel film). Ogni anno, fin dalla prima lezione di corso, chiedo ai miei studenti di vederlo come «compito per casa». Dopo aver sconfitto la macchina Enigma, Turing, nel suo articolo seminale del 1950 Computer Machinery and Intelligence,7 definiva la sua visione di un computer intelligente come un imitation game. Il gioco funzionava più o meno così. Se un essere umano, dopo aver parlato amabilmente per un po’ con qualcuno dall’altra parte di un muro, non si accorge che quel «qualcuno» è di fatto un «qualcosa», un computer anziché un altro essere umano, allora il gioco è fatto: ecco l’intelligenza del computer capace di imitare l’essere umano così bene da esserne un perfetto fake. Questo è il famosissimo test di Turing, che da diversi anni qualcuno dice di aver superato. Non esiste un momento esatto in cui diremo «Okay, superato!», ma è curioso che nei CAPTCHA si faccia proprio il contrario. Forse il nome non lo avete mai sentito, ma tutti o molti di voi lo hanno usato. Ogni volta che una app o un servizio web ci chiede di scrivere un numero, di indicare se una foto è giusta, di rispondere a una domanda cretina, sta verificando che chi scrive sia umano e non un «bot», un software robot intelligente che prova a entrare nel sistema. CAPTCHA è l’acronimo che sta per Completely Automated Public Turing Test To Tell Computers and Humans Apart, inventato nel 2000 dalla Carnegie Mellon University assieme a IBM proprio per fare un contro-test di Turing.8
Sono anni particolarmente fertili negli Stati Uniti quelli attorno alla Seconda guerra mondiale. Nel 1943 Warren McCulloch e Walter Pitts avevano iniziato a modellare un primo schema di neurone artificiale.9 Cercavano di rappresentare il neurone dell’essere umano come effettivamente è dal punto di vista computazionale: quella formula che vi ho mostrato prima, quando ho descritto com’è fatto un neurone, viene più o meno da qui.
L’espressione «Intelligenza Artificiale» nasce invece qualche anno più tardi.
Nel 1956 un gruppo di scienziati del MIT, tra cui in particolare John McCarthy, considerato unanimemente il padre dell’AI, si inventa il termine «Intelligenza Artificiale», asserendo che lo scopo dell’AI è costruire «macchine che si comportano come se fossero esseri umani». In quegli anni, però, viene definito solo il titolo. L’Intelligenza Artificiale come la conosciamo oggi, come disciplina di base dell’informatica e dell’ingegneria informatica, in tutto il mondo ha iniziato a concretizzarsi solo vent’anni dopo.
Dal MIT McCarthy si sposta a Stanford, dove diventa il padre della logica computazionale. Dagli anni Settanta e fino all’inizio del nuovo secolo, l’AI si è basata fondamentalmente sulla logica, sulla capacità di emulare il nostro modo di ragionare, sia nella deduzione, sia nell’induzione e nella rappresentazione della conoscenza. Tant’è che McCarthy inventa alcuni linguaggi: dapprima il LISP, da cui poi è venuto il PROLOG, e per questo ha ottenuto il premio Turing nel 1971.
Ancora negli anni Ottanta, in Intelligenza Artificiale, il bel libro di Elaine Rich su cui ho studiato, l’autrice scriveva che «l’AI è lo studio di come far fare al computer cose che per ora gli uomini fanno meglio». Una visione puramente antropomorfa dell’AI, come se la nostra intelligenza fosse l’unica possibile.
Ci sono molti tipi di intelligenza oltre quella umana.
Il mio gatto Jakie è incredibilmente intelligente: si copre gli occhi per non vedere la luce se vuole dormire e mi morde un piede tutte le mattine se vuole mangiare. Ha capito tutto. Il suo cervello ha cento volte meno neuroni del mio. Sicuramente avrà delle sue asserzioni logiche, così come ha una corteccia sviluppata. I gatti ragionano come noi in piccolo, ma i loro neuroni sono distribuiti in modo differente, sono più connessi e sono diversi. I gatti vedono al buio, saltano dal terzo piano rimettendosi in equilibrio, sono molto più veloci e intuitivi. Come ragionano non lo sappiamo, ma sappiamo che vivono benissimo.
L’intelligenza dei gatti è un esempio di evoluzione di un’intelligenza diversa dalla nostra. L’Intelligenza Artificiale è un altro esempio di intelligenza che si sta evolvendo velocissimamente: non necessariament...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’INTELLIGENZA NON È ARTIFICIALE
  4. Prologo ed epilogo
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. Note
  10. Copyright