1
Roma, luglio 715 a.C.
Dopo l’incoronazione di Numa, la fanghiglia del Foro gli sembrò ancora più faticosa da attraversare. Accanto a lui camminavano suo figlio Caio e il senatore Quintilio, mentre i servi facevano strada, costringendo la marmaglia a spostarsi.
«Liberarsi dei celeri...» attaccò a parlare Quintilio. «Numa si è dato la zappa sui piedi.»
«Già» rispose subito Caio. «Adesso potrebbe accadergli qualunque incidente, non è vero, padre?»
«Tu che ne pensi, Valerio?» insistette Quintilio.
«Non lo so» rispose lui dopo un lungo silenzio. «Ammetto che la cosa ha spiazzato anche me.»
«Numa è soltanto uno sciocco» tornò alla carica Caio.
Velesio gli scoccò un’occhiata di fuoco. «Non parlare male del nuovo re.»
Il figlio lo guardò accigliato. «Tu dici anche di peggio su di lui!»
«Mai all’aperto. Non ti ho insegnato niente? Il Foro e tutta Roma hanno mille orecchie.»
Numa non era uno sciocco, lui lo sapeva bene. Già in passato Velesio lo aveva sottovalutato e come risultato era stato cacciato da Cures. Doveva essersi messo d’accordo con Proculo Giulio per divinizzare Romolo, e doveva aver tramato qualcosa anche con i celeri.
Superata la parte più impantanata del Foro, affrettarono il passo e arrivarono ai piedi della Velia.
«Numa non ha sciolto i celeri. Li ha solo trasformati in un ordine sacerdotale» ragionò ad alta voce.
«Da guerrieri a sacerdoti, bell’affare!» commentò Quintilio.
«Ci sono sacerdoti e sacerdoti» ribatté Velesio. E lui lo sapeva bene. Quando si era accordato con gli etruschi per far rapire la moglie di Romolo, erano stati gli hirpi sorani, i sacerdoti guerrieri del monte Soratte, a fare il lavoro sporco. Forse Numa aveva in mente qualcosa del genere? Doveva indagare.
«Hai qualcuno dei tuoi fra i celeri?» chiese a Quintilio.
«No» sbuffò il senatore. «Ho provato più volte a infiltrarci persone fidate, ma Romolo preferiva pescarli dalla plebaglia, e li sceglieva personalmente.»
«Potremmo sempre comprarne qualcuno» propose lui. «Il figlio di Mettio Curzio, per esempio.»
Vide Quintilio irrigidirsi. «Ci salutiamo qui, senatore Velesio. Altri affari mi chiamano altrove» disse, e si allontanò con i propri schiavi verso la Suburra.
«Che codardo» sibilò Caio.
«L’abbiamo perso» constatò Velesio.
«Ma i Quintili sono nostri alleati da sempre!»
«Ora non più» ribatté lui. «Ora siamo soli.»
Appena entrati nel recinto della loro proprietà, congedò i servi. Portò Caio al faggio dove avevano sepolto la mano di Romolo, si sedette con lui e rimase in silenzio a pensare, lo sguardo rivolto a occidente. Il sole andò a nascondersi oltre il mare lontano, lasciando rimasugli di luce sulle nuvole basse. A breve, nugoli di zanzare si sarebbero levati in volo, fastidiosi e assetati di sangue.
«Numa è bravo ad accaparrarsi la benevolenza della gente» rifletté ad alta voce. «Persino i senatori, ora, sono dalla sua parte.»
«Ma su questo possiamo lavorare» disse Caio.
Velesio avvicinò una mano alla nuca del figlio per accarezzarlo, e quello si ritrasse, incassando la testa tra le spalle e chiudendo gli occhi, come se si aspettasse una punizione. Forse era troppo duro, con lui. Ma era per educarlo. Dopo il tradimento di Proculo Giulio e la defezione di Quintilio, Caio era tutto quello che gli restava, l’unico di cui potesse davvero fidarsi per mettere in atto i propri piani.
«Hai imparato molto negli ultimi tempi» gli disse, accarezzandogli la matassa di capelli chiari. «Forse sei grande abbastanza per incarichi più importanti.»
«Non sono più un ragazzino» tentennò Caio.
«Cosa dicevi di Numa, prima? Che potrebbe accadergli qualcosa, giusto?»
Gli occhi del figlio lampeggiarono verso i suoi. «Vuoi farlo uccidere?»
«No. Sarebbe inutile, adesso.»
«Perché? Ci sarebbero nuove elezioni, no?»
«Sì, ma a un re sabino deve succedere un re latino» gli spiegò. «E noi non vogliamo consegnare il trono a Proculo Giulio. Dobbiamo battere altre strade.»
Caio strinse i pugni e annuì. «Allora cosa faremo?»
«Quello che ho detto. Numa vuole tenersi il titolo di re? Bene, ma dovrà capire che non può governare senza il mio sostegno. Se non vuole che gli capiti qualche... incidente.»
Nel dirlo, dissotterrò un sacchetto pieno di scaglie d’argento, lo spolverò e glielo porse.
«Cos’è?» gli chiese Caio, soppesandolo.
«Qualcosa in grado di causare uno di questi incidenti.»
Il figlio aggrottò la fronte.
«Recati nelle osterie della Suburra, cerca qualcuno disposto a fare il lavoro sporco per noi. E ricorda, solo gente straniera.»
2
Roma, 715 a.C.
Mentre si allontanava dall’Auguraculum con Marco e Hirpino, Numa fu avvicinato da Proculo Giulio e da altri due senatori che non conosceva.
«Loro sono Ostilio e Lucrezio, dei ramnes» li presentò Proculo.
«Senatori» li salutò Numa con un cenno della testa.
«Vogliamo congratularci con il nuovo re» disse il primo, un uomo basso e massiccio dallo sguardo deciso.
«Ottima mossa mostrarti senza paura» aggiunse Lucrezio, di aspetto pasciuto e con la testa calva.
«Vi ringrazio della premura. Domani ci riuniremo in Senato e ascolterò tutte le vostre richieste. Ma ora perdonatemi, devo parlare con il capo dei celeri.»
«A questo proposito... riuscirai a chiudere occhio stanotte, senza la loro protezione?» gli domandò Proculo.
Numa sorrise. «Sono abituato a dormire con i lupi alle porte» rispose.
«Nel vero senso della parola!» precisò Hirpino.
Marco gli lanciò un’occhiataccia.
«Vi saluto e vi auguro ogni bene» concluse Numa facendo per allontanarsi.
«Soltanto una parola ancora» lo trattenne Ostilio.
Numa respirò a fondo. Con la coda dell’occhio vide che Muzio Celere si stava allontanando a testa bassa. Non poteva permetterlo. Diede una gomitata a Hirpino e glielo indicò. Il vecchio maestro capì al volo e corse a trattenerlo, mentre lui si voltava verso Ostilio.
«Dimmi pure, senatore. Immagino sia una questione pressante.»
«Vogliamo assicurarti l’appoggio da parte della nostra tribù, tuttavia...»
«Tuttavia» proseguì il senatore Lucrezio «sono tempi difficili, questi. Tu sei sabino, noi siamo latini. Dunque...»
«Pensiamo che dovresti sposare una donna latina» tagliò corto Ostilio.
«Sposarmi?»
Numa si prese un momento per riflettere. I latini avevano senz’altro timore che lui favorisse i sabini. Un matrimonio con una ramnes avrebbe riequilibrato la situazione. Aveva senso, ma qualcosa lo trattenne dall’accettare. E non era una ragione politica. Numa si rese conto che la prima persona a cui aveva pensato, quando aveva sentito la parola “sposare”, era stata Tacita. Ma quel pensiero non poteva certo condividerlo con i senatori latini. Aveva bisogno del loro appoggio se voleva evitare di fare la stessa fine di Romolo.
Marco gli si avvicinò. «Ti conviene accettare» gli disse a bassa voce. «Sarebbe un’ottima mossa.»
«Ci penserò» rispose Numa girandosi. «Mi consulterò con gli dei e vi farò sapere il loro verdetto.»
«Non ci interessa quale delle nostre figlie sceglierai,» precisò Proculo, che dunque era allineato con quanto suggerivano Ostilio e Lucrezio «non è una gara fra di noi. Vogliamo solo... dare un segnale di unità.»
«Lo capisco e avrete presto la mia risposta» ripeté Numa. «Ora però dovete scusarmi.»
Raggiunse Hirpino, che stava trattenendo a fatica Muzio Celere.
«Devo andare» gli disse il guerriero con un tono astioso. «I miei celeri mi attendono. Devo pur dirgli qualcosa, ora che ci hai sciolti.»
«Non vi ho sciolti,» precisò Numa «ma trasformati. Raggiungimi alla vecchia reggia di Tito Tazio, lì ti spiegherò ogni cosa.»
«Ma... cosa dirò loro, nel frattempo?»
«Gli parlerai domattina, al santuario di Quirino. Fidati di me.»
Muzio lo scrutò, poi si batté la mano sul petto e si allontanò.
Numa raggiunse la dimora di Tito Tazio sotto gli ultimi bagliori del sole estivo. Le travi di legno spuntavano dai muri in rovina come costole dal torace di un cadavere. Il tetto era crollato in più di un punto, tanto che un giovane salice era cresciuto nel mezzo della sala, di fronte al trono di vimini. E anche del portico non restava molto.
«Sicuro di voler passare la notte qui?» gli chiese Marco Marzio, che lo seguiva a passi incerti, come un gatto tra le pozzanghere. «Non preferisci insediarti nella reggia di Romolo, sul Palatino?»
«No» rispose Numa, guardandosi attorno.
Quello era il luogo in cui il vecchio re di Cures aveva preso dimora mentre regnava insieme a Romolo. I numi tutelari della sua gente avevano protetto quel posto, per un po’, e sentì che avrebbero protetto anche lui.
Toccò un palo di legno smangiucchiato dalle tarme e chiuse gli occhi, cercando la presenza degli spiriti antenati.
«Puoi sempre venire da me» insistette il cugino. «Mia moglie non sa cucinare, ma ho una serva che riesce a rendere gustose persino le rape!»
«Ragazzo,» intervenne Hirpino, che era rimasto immobile all’ingresso «il tuo re ha deciso.»
«Non sono più un ragazzo» ribatté Marco, indispettito.
«Allora non comportarti come tale.»
«Ti ringrazio per la preoccupazione, cugino,» stemperò la tensione Numa «ma resterò qui.»
Marco sospirò e fece cenno ai suoi servi, che entrarono e iniziarono a mettere ordine....