Apex nasconde il dolore
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Apex nasconde il dolore

  1. 168 pagine
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Apex nasconde il dolore

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Alle prese con il problema di trovare un nuovo nome per la loro cittadina, gli abitanti di Winthrop si sono rivolti a un consulente di terminologia: il fortunato creatore di "Apex nasconde il dolore", il cerotto multiculturale - "Color carne indipendentemente dalla tonalità della tua pelle". Ma quei bei tempi di gloria appartengono ormai al passato: il protagonista ha abbandonato il suo lavoro a causa di un misterioso incidente. Una volta giunto nella cittadina si incontra con le tre persone che cercheranno di influenzare la sua scelta: Lucky Aberdeen, il miliardario pioniere del software, l'ex ragazzino di provincia che si è fatto da solo; Albie Winthrop, rampollo dell'aristocrazia locale in declino, e Regina Goode, discendente dai coloni neri che hanno fondato la cittadina e attuale sindaco.

Apex nasconde il dolore è una satira brillante e tagliente sulla desolazione della nostra cultura, in cui memoria e storia sono diventate strumenti in balia dei capricci del marketing.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707493

Capitolo secondo

Si era aggiudicato Apex perché era il migliore. I capi lo chiamavano nei loro uffici per chiacchierare, per rassicurarsi, per contargli le rughe sulla fronte mentre un’idea veniva issata su per il pennone. Un giorno soffocò un rutto e le labbra contratte misero fine ai Venerdì Informali. I colleghi della terminologia si rivolgevano a lui con i loro problemi, gli offrivano da bere in cambio di ovvie soluzioni a dilemmi banali. Non che stesse esattamente mettendo il suo cervello alla prova. Non sperperava nomi che avrebbero potuto essere usati per i suoi progetti. A loro dava nomi svogliati. Nomi che marcavano visita.
Attirava clienti con il passaparola. Scusandosi per e-mail, alcuni li passava a colleghi più giovani e affamati. Era molto impegnato. Con la sua generosità si conquistava la stima dei ranghi inferiori e la sua esclusività gli faceva guadagnare ancora più clienti. Ed era sempre più veloce ad assolvere gli incarichi, a trovare i nomi. Non era al punto in cui gli bastava guardare un oggetto per saperne il nome, ma la risposta di solito arrivava in fretta e, per non apparire sovrumano, a volte si bloccava per un paio di giorni fingendo di riflettere a lungo e intensamente. Quando percorreva i corridoi dell’ufficio sorseggiando acqua da un bicchiere di carta – le scarpe alla moda sarebbero state un plus – guadava una palude palpabile di invidia. Per tanta efficienza si aspettava una meritata punizione, invece niente. Di fatto ricevette ripetute gratifiche. Si aspettava che i piatti della giustizia oscillassero, perché di certo la sua abilità stava sconvolgendo qualche equilibrio fondamentale nel mondo. Non ci fu alcuna oscillazione o brusco sbilanciamento. Fino ad Apex.
Anche la sua vita al di fuori del lavoro stava andando piuttosto bene. Non aveva ancora incontrato la donna giusta ma usciva molto, prenotava tavoli in ristoranti famosi. Di tanto in tanto tendeva una mano sopra il tavolo per suscitare uno sguardo pieno di sentimento. Gli amici lo incastravano con le loro sorelle. Emanava una vibrazione speciale. Guadagnava bene. Era un uomo realizzato. Un buon partito. Una rivista locale lo aveva selezionato come uno dei “Cinquanta migliori scapoli” della città, il che gli diede qualche vantaggio e fece notizia fornendogli rinnovata credibilità. Questa è la mia faccia, sembrava dire con i suoi modi. Per la ripresa fotografica lo fecero sedere su una gigantesca pillola blu, poiché aveva dato il nome a una pillola blu molto popolare, e indossò un bel vestito firmato che non gli permisero di tenere. Il giornalista fece un paio di battute del genere “Che cosa diavolo è un consulente di terminologia, vi chiederete”. Grazie al suo lavoro, lui era di sicuro in grado di avviare una conversazione.
Il nuovo appartamento era fantastico. C’era una stanza in più di cui non sapeva cosa fare, così dopo un anno acquistò un tavolo da biliardo e un acquario. In un negozio specializzato comperò dei pesci esotici. Di tanto in tanto si mangiavano fra loro. C’erano un sacco di pinne sul fondo. Un ottimo argomento per rompere il ghiaccio. Dal balcone guardava la città dall’alto e poteva pensare che fosse sua. E forse c’era anche quella sensazione nella miscela che lo aveva portato ad Apex. Guardava tutto dall’alto in basso. Era tutto davvero piccolo.
Proprio come ai vecchi tempi, si disse ingraziandosi la scrivania con le blandizie dopo averla evitata per due giorni. Con un doloroso fruscio aprì Una storia della città di Winthrop. Voleva essere preparato per la riunione del pomeriggio. Era un professionista.
Saltò qua e là e dopo un paio di pagine di roba tipo “quella celebre dote di generosità che distingue la famiglia Winthrop” e “ancora una volta i Winthrop vennero in aiuto nel momento del bisogno”, andò a guardare la pagina del copyright ed ebbe la conferma al suo sospetto. Il libro era stato commissionato dalla Fondazione Winthrop. Si rilassò. Si era sempre abbastanza divertito con le pubblicazioni aziendali. Non mettevano a dura prova la sua attenzione più di tanto. Sapevi sempre come andava a finire. Probabilmente non doveva essere difficile convincere la bibliotecaria locale per ottenere una stampa favorevole. Sarebbe bastata l’opera di Shakespeare rilegata in pelle. Non sarebbe stato uno scoop clamoroso, ma forse non gli serviva nemmeno.
I Winthrop avevano fatto la loro fortuna con il filo spinato, niente male alla fine del XIX secolo. Assegnazioni di terreni, terreni arraffati, serviva qualcosa di poco costoso per tenere tutto dentro, e tenere tutto fuori. “Con lo zelo di un vero imprenditore americano, Sterling Winthrop trovò clienti fra gli agricoltori e i coloni della regione, contenti di avere un’alternativa economica al costoso legname. Persino la ferrovia poté servirsi del bel filo metallico Winthrop per tenere i suoi binari liberi e sgombri.” Prodotto innovativo, mercato di nicchia, certo, certo. Emozionato, tamburellò con le dita sulla scrivania un ritmo jazz. Poteva capirlo. Tuttavia non era esattamente quello che stava cercando.
Gertrude Sanders, maestra delle arti bibliotecarie, incanalò con talento e aplomb in abbondanza lo Zeitgeist dei pionieri. Per Gertrude non c’erano equivoci. “Dove gli altri vedevano lande selvagge,” si entusiasmava “Sterling colse generosità infinita ed eccellenti opportunità.” Area di sottosviluppo, nel gergo moderno: un parcheggio modesto dove meritavano di svettare i grattacieli. Il fiume rappresentava un buon mezzo di trasporto delle merci. E il posto era deserto. Per lo più. “Dopo avere convinto i principali abitanti della zona – un gruppo sparso di coloni di colore – Winthrop aprì la fabbrica e cominciò a produrre il suo famoso ardiglione a forma di W che oggi si trova ancora in tutta la contea. Grati per quel nuovo inizio, approvarono una legge e diedero alla città il nome Winthrop, il nome dell’uomo che aveva il coraggio di sognare.” Attirare forza lavoro in città, costruire una comunità, la solita solfa dei colonizzatori. Se un giorno Gertrude si fosse stancata del sistema di classificazione delle biblioteche, sarebbe stata la candidata favorita per un impiego nel marketing sulla costa orientale.
Che affettazione. Continuò a sfogliare. Se avevano creato una legge apposta per cambiare il nome della città significava che doveva esserci stato un nome da cambiare. Inutile prendersi la briga di marchiarla di nuovo se non c’era già un marchio. Doveva sapere di che cosa si trattava. Mentre le dita viaggiavano dove il pesciolino d’argento non osava procedere, apprese un paio di cose. Apprese dello strano flagello delle zanzare del 1927, finito all’improvviso e misteriosamente come era cominciato, senza lasciare nessuno inviolato. Uno stagno nelle vicinanze era l’habitat di una rara specie di rane, famose e documentate in riviste scientifiche. Una xilografia agghiacciante confermava la caratteristica più celebrata dell’anfibio: uno sguardo quasi umano che poteva venire descritto solo con l’aggettivo “implorante”. Era sul punto di tornare all’inizio quando una voce familiare gli provocò una scarica di adrenalina. Gli era bastata una sola esposizione per sviluppare una reazione pavloviana.
«Pulizie!» La donna sfogò sulla porta la sua piccola furia.
«Va bene così!»
«Devo entrare!»
«Va bene così!» ripeté lui. Si stupì dell’assurdità della sua risposta, ma tenne le dita incrociate.
«Mi impedisce di fare il mio lavoro!» I due steli neri delle gambe interrompevano la luce che entrava da sotto la porta. Gli passò per la mente che forse la donna aveva un difetto organico nel cervello. Ma poi lei urlò: «Che cosa sta facendo di tanto importante?», e lui capì che il problema della donna quasi sicuramente vantava un’origine sia caratteriale sia culturale.
Decise di sfinirla. Lei parve intuirlo con istinto primitivo, animale; restò in silenzio e fece un respiro rapido e poco profondo. «Ritornerò» disse qualche tempo dopo.
Un’ora più tardi, lui era nell’atrio in attesa dell’auto. Lo avevano chiamato dalla reception per informarlo che il signor Winthrop sarebbe arrivato a mezzogiorno. Per la verità, l’impiegato aveva usato l’espressione “passato a prenderlo”. Vide chiaramente la scena. Il discendente canuto, erede dell’impero del filo spinato, manda la limousine a prelevarlo e lo accoglie in un salotto pieno di fumo. Winthrop lo scruta con sospetto quando cammina, ma non si può capire esattamente che cosa stia pensando. Si mettono in posa nelle poltrone color vinaccia. Al di sopra della spalla dell’uomo, oltre la finestra, la tenuta ondulata, estesa, ondeggiante, piena di forza. Winthrop si lamenta delle talpe, propone soluzioni, e tali sono le tribolazioni del suo mondo che si eliminano con bombe di pesticida. Mentre bevono il brandy dalle caraffe, il vecchio lupo dimostra come sia giusta la sua tesi sul nome Winthrop, la tradizione, le vecchie maniere che sono le migliori. L’ospite si consuma i pantaloni alle ginocchia con attacchi spontanei di genuflessione.
Questo era il racconto che inventò nell’atrio dell’hotel Winthrop. Era ancora condizionato dalla sua professione. Immergere un bicchiere di carta nei serbatoi e assaggiare l’acqua faceva parte del suo lavoro. Se lui riusciva a berla, l’avrebbe bevuta anche il resto del mondo. I consulenti di terminologia dovevano avere uno stomaco universale.
Chiuse gli occhi e si rese conto di quanto fosse trepidante. Incontrare Winthrop non era un problema. Conosceva il genere. Ma tornava al lavoro dopo così tanto tempo che gli tremavano le mani. Affondò i pugni nelle tasche.
L’impiegato alla reception disse: «Signore».
Zoppicò fuori. La Bentley nera era acquattata vicino al marciapiede come un vecchio toro pigro. Dal sedile del conducente emergeva una testa candida con una nuvola di capelli radi. «Salve, piacere di conoscerla» disse. «Io sono Albie.» Albie portava una felpa da jogging rosso sbiadito e ai polsi e sulla fronte aveva delle fasce elastiche zuppe di sudore. Lui ebbe l’impressione che quell’uomo avesse appena finito alcuni giri di pista o fosse stato inseguito da una belva. Albie disse: «Salti su».
Il sedile posteriore era coperto di sacchetti della spesa da cui sporgevano il beccuccio di un detersivo per il bucato a mano, l’estremità di plastica increspata di un sacchetto del pane e dei gambi di sedano. «Perché non sale davanti» propose Albie «e sposta un po’ di quella roba?» Albie fece cadere dal sedile i brandelli di un volantino del supermercato, il giornale della settimana prima e un raschietto per il ghiaccio.
Lui salì, prima con la gamba buona, e tentò di non mettere i piedi bagnati sulle cianfrusaglie davanti al sedile. «Può cacciare tutto sotto» disse Albie.
Lui spinse e si accomodò.
«Una gamba malandata?»
«Sì, malandata.»
Albie annuì. «Piove da quando è arrivato, vero? È stato sfortunato.» L’uomo sorrise e si presentò: «Albie Winthrop».
Lui gli strinse la mano. Umidiccia era la parola giusta. Partirono e dall’Admiral Grande il caffè sgocciolò nel portatazze. I portatazze di plastica dozzinale non erano di serie sulle Bentley, pensò ispezionando la strana piccola mostruosità incollata al cruscotto. Dove l’industria dei generi di consumo di lusso veniva a mancare, provvedeva Albie e, si sarebbe detto, già da un pezzo. Sulla moquette c’erano diverse vecchie macchie marroni. Lui resistette all’impulso di sporgersi a controllare quante miglia avesse fatto la macchina.
L’altro sorrise. «Sono tornato in città stamattina,» disse «altrimenti sarei venuto a conoscerla prima.»
«Lucky mi ha detto che era da qualche parte per una regata.»
La testa di Albie si mosse a scatti. «Non con la mia barca, no» rispose con voce stridula. «È da un po’ che non ho più una barca a vela. La barca è del mio amico Percy. Ogni volta che esce in mare, io sono il suo secondo. “Comandante in seconda Albie a rapporto, capitano!”»
«Oh» esclamò lui.
Viaggiarono per un po’. Le poche persone per strada si muovevano a fatica sotto gli impermeabili di tela cerata e gli ombrelli, ma Albie li riconosceva e dal finestrino li salutava con la mano, strillando emozionato, incurante della pioggia che entrava nell’abitacolo. I passanti rispondevano con gesti di saluto, scuotevano l’ombrello nella loro direzione e continuavano ad arrancare. Ogni volta che Albie superava un’auto, dava due colpi di clacson e muoveva la testa. «Mi conoscono tutti» spiegò. «Sono lo zio di tutti.»
La gente suonava il clacson di rimando oppure lo ignorava. Ecco di nuovo quel pazzo bastardo, così lui decodificava quei brevi scambi.
«Quello era il figlio del vecchio Frank» disse Albie mentre un SUV rosso sfrecciava verso di loro. Suonò il clacson e il figlio di Frank sterzò di colpo. «Frank è stato il nostro caposquadra per molti anni,» spiegò «è venuto su dal niente. Ha cominciato dal basso con la Bessemer e ha fatto carriera.»
«Davvero?»
«Esatto. Mai lavorato da nessun’altra parte. Quella laggiù è la sua casa. Ci sono stato una volta per un barbecue. Suppongo che da voi in città non si facciano molti barbecue, eh?»
«Non ci ho fatto caso.»
«Non se ne faranno per niente, credo.» Albie suonò il clacson a una station wagon. «Ehi! Mason! Ehi!» E per poco non provocò un incidente.
Dopo aver riflettuto decise che sì, la grande casa della famiglia Winthrop si poteva definire una tenuta, e con un paio di ali in più del necessario. Superarono una cancellata che li portò oltre un basso muretto in pietra e proseguirono lungo il vialetto. Alcune siepi selvatiche graffiarono l’auto. Mentre si avvicinavano alla casa, gli vennero in mente le trasmissioni della sana televisione pubblica dove avvenivano sempre un sacco di cose negli alloggi della servitù. Ma la servitù non c’era più. Per la verità non vide segni di vita fino a quando girarono sul retro e l’auto rallentò con uno scricchiolio. Esaminarono il danno. La Mighty Wheels era ormai un ex giocattolo, schiacciata in pezzi gialli e rossi sotto lo pneumatico anteriore. «Oh, guarda qua» gemette Albie. «Sono gli inquilini della dépendance, i bambini lasciano tutta la loro roba in giro.» Scosse la testa.
Lui scoprì che era imbarazzante aiutare le persone a sistemare la spesa. Non sapevi mai dove il criterio di collocazione dei vari acquisti corrispondeva al tuo e dove divergeva. Armadietti e cassetti sono come i vialetti di un labirinto. Quello che per uno era l’angolo per la spugna, per un altro era lo scomparto delle zuppe. Così si appoggiò al frigorifero e guardò Albie sistemare la spesa della settimana, limitando il suo contributo a due viaggi per portare qualche sacchetto dalla Bentley alla cucina. Aveva calcolato che ce ne sarebbero voluti cinque per scaricare la macchina, così zoppicò con enfasi per ridurli a un numero opportuno e ottimale di due.
«Ha mangiato?» chiese Albie piegando per bene l’ultimo sacchetto. «Vorrei fare degli hot dog.»
«Va bene.»
«Di solito li faccio lessi, ma se vuole posso metterli sulla piastra. Glieli faccio alla griglia.»
Albie interpretò il suo silenzio per un sì e preparò il cosiddetto pasto, mettendo una minuscola pentola d’acqua su quella che probabilmente era una delle cucine più grandi che lui avesse mai visto. Afferrò un paio di pinze per accendere il fornello. Non c’erano manopole sulla stufa. Di ciò non fornì alcuna spiegazione.
«Le sono davvero grato di essere venuto fin qui per aiutarci a sistemare questa faccenda» disse Albie.
«È il mio lavoro.»
«All’inizio non sapevo se fidarmi a credere che chiamassero una persona che avrebbe agito lealmente, capisce che cosa voglio dire? Visto come è andata alla riunione del Consiglio… E poi lei, che lavorava per l’azienda a cui Lucky si è rivolto per trovare quel suo nuovo nome. Quanto la pagano?»
«Varia da caso a caso. Non ho gestito io quel cliente. Mi ero preso un anno sabbatico.»
Albie lo guardò con attenzione. «L’ho sentito dire. Non ero sicuro di potermi fidare di lei. Ma poi Lucky mi ha detto che era uno di Quincy e ho capito che avrebbe agito lealmente. Un uomo di Quincy è un uomo di parola.»
Albie gli chiese del vecchio aiuto giardiniere, quello che aveva sempre un sigaro in bocca. In effetti c’era un tipo eccentrico che aveva l’abitudine di potare gli arbusti guardando con occhi maliziosi le ragazze del primo anno. Decise che doveva proprio trattarsi del vecchio in questione e disse di sì. Che diavolo ne sapeva dei personaggi popolari del campus? Non era il tipo che andava in giro a fare amicizia con gente simile.
I tempi dell’u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Apex nasconde il dolore
  4. Capitolo primo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Copyright