La città di vapore
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La città di vapore

  1. 180 pagine
  2. Italian
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La città di vapore

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Informazioni sul libro

L'ultima opera dell'autore de L'ombra del vento, l'omaggio letterario con cui Carlos Ruiz Zafón ha voluto congedarsi per sempre dai suoi lettori. «Posso evocare i volti dei bambini del quartiere della Ribera con cui a volte giocavo o facevo a botte per strada, ma non ce n'è nessuno che desideri riscattare dal paese dell'indifferenza. Nessuno tranne quello di Blanca.» Si apre così la raccolta di racconti che lo scrittore dell'indimenticabile saga del Cimitero dei libri dimenticati ha voluto la-sciare ai suoi lettori. Un ragazzino decide di diventare scrittore quando scopre che i suoi racconti richiamano l'attenzione della ricca bambina che gli ha rubato il cuore. Un architetto fugge da Costantinopoli con gli schizzi di un progetto per una biblioteca inespugnabile. Un uomo misterioso vuole convincere Cervantes a scrivere il libro che non è mai esistito. E Gaudí, navigando verso un misterioso appuntamento a New York, si diletta con luce e vapore, la materia di cui dovrebbero essere fatte le città. La città di vapore è una vera e propria estensione dell'universo narrativo della saga di Zafón amata in tutto il mondo: pagine che raccontano la costruzione della mitica biblioteca, che svelano aspetti sconosciuti di alcuni dei suoi celebri personaggi e che rievocano da vicino i paesaggi e le atmosfere così care ai lettori. Scrittori maledetti, architetti visionari, edifici fantasmagorici e una Barcellona avvolta nel mistero popolano queste pagine con una plasticità descrittiva irresistibile e la consueta maestria nei dialoghi. Per la prima volta pubblicati in Italia, i racconti della Città di vapore ci conducono in un luogo in cui, come per magia, riascoltiamo per l'ultima volta la voce inconfondibile dello scrittore che ci ha fatto sognare come nessun altro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707431

Il Principe del Parnaso

Un sole ferito di scarlatto si immergeva nella linea dell’orizzonte quando il gentiluomo Antoni de Sempere, che tutti chiamavano l’artefice di libri, si arrampicò in cima alla muraglia che sigillava la città e avvistò in lontananza il corteo che si avvicinava. Correva l’anno di grazia 1616 e una bruma che sapeva di polvere da sparo serpeggiava sui tetti di una Barcellona di pietra e polvere. L’artefice di libri girò lo sguardo verso la città e i suoi occhi si persero nel miraggio di campanili, palazzi e vicoli che palpitavano nei miasmi di una perpetua tenebra a stento interrotta da torce e carrozze che si trascinavano graffiando i muri.
“Un giorno cadranno le mura e Barcellona si spargerà sotto il cielo come una lacrima d’inchiostro sull’acqua benedetta.”
L’artefice di libri sorrise ricordando quelle parole che il suo buon amico aveva pronunciato lasciando la città sei anni prima.
“Porto con me la memoria, prigioniero della bellezza delle sue strade e debitore della sua anima scura, a cui prometto di tornare per rendere la mia e abbracciare il più dolce dei suoi oblii.”
L’eco degli zoccoli che si avvicinavano alla muraglia lo sottrasse alle sue fantasticherie. L’artefice di libri girò lo sguardo verso est e intravide il corteo che imboccava ormai la strada che conduceva alla grande porta di Sant’Antonio. La carrozza funebre era nera e decorata da rilievi e figure scolpite che serpeggiavano intorno a un abitacolo a vetri velato da tendaggi di velluto. Era scortata da due cavalieri. La tiravano quattro destrieri ornati di piume e nastri mortuari, mentre le ruote sollevavano al loro passaggio una nuvola di polvere che catturava l’ambra del crepuscolo. A cassetta si stagliava la sagoma di un vetturino con il volto coperto e dietro di lui, a coronare la carrozza come una polena, si innalzava la silhouette di un angelo d’argento.
L’artefice di libri abbassò gli occhi e sospirò afflitto. Capì allora di non essere solo e non ebbe quasi bisogno di girare lo sguardo per riconoscere la presenza dell’uomo accanto a lui. Sentì quel soffio di aria fredda e quel profumo di fiori secchi che sempre lo accompagnavano.
«Dicono che un buon amico è quello che sa ricordare e dimenticare allo stesso tempo» affermò l’uomo. «Vedo che non ha dimenticato l’appuntamento, Sempere.»
«Né lei il debito, signore.a»
L’uomo si avvicinò fino a fermare il suo volto pallido appena a un palmo dall’artefice di libri e Sempere poté vedere il proprio riflesso nello specchio scuro di quelle pupille che cambiavano colore e si stringevano come quelle di un lupo alla vista di sangue fresco. L’uomo non era invecchiato di un solo giorno e indossava gli stessi abiti eleganti. Sempere avvertì un brivido e un profondo desiderio di mettersi a correre, ma si limitò ad annuire cortesemente.
«Come mi ha trovato?» chiese.
«L’odore di inchiostro la tradisce, Sempere. Di recente ha stampato qualcosa di buono che mi può raccomandare?»
L’artefice di libri notò il volume che l’uomo aveva fra le mani.
«La mia è una stamperia modesta che non arriva a penne degne del suo palato. Inoltre, si direbbe che il signore abbia già da leggere per la serata.»
L’uomo sgranò il suo sorriso tramato di denti bianchi e aguzzi. L’artefice di libri spostò lo sguardo verso il corteo, che era già alle soglie della muraglia. Sentì la mano dell’uomo posarglisi sulla spalla e strinse i denti per non tremare.
«Non abbia paura, amico Sempere. Arriveranno prima alla posterità i rantoli di Avellaneda e del branco di meschini e invidiosi stampati dal suo amico Sebastián de Cormellas che l’anima del mio caro Antoni de Sempere all’umile locanda che gestisco. Non ha nulla da temere da me.»
«Ha detto qualcosa di simile a don Miguel quarantasei anni fa.»
«Quarantasette. E non mentivo.»
L’artefice di libri incrociò brevemente lo sguardo con il gentiluomo e per un istante di sogno credette di scorgere sul suo volto una tristezza grande quanto quella che pervadeva lui.
«Pensavo che questa fosse una giornata di trionfo per lei, signor Corelli.»
«La bellezza e la conoscenza sono l’unica luce che illumina questo miserabile porcile che sono condannato a percorrere, Sempere. La loro perdita è la più grande delle mie pene.»
Ai loro piedi, il corteo funebre stava superando la porta di Sant’Antonio. Il gentiluomo fece un gesto e invitò lo stampatore a fare strada.
«Venga con me, Sempere. Diamo il benvenuto al nostro buon amico don Miguel nella Barcellona che tanto ha amato.»
E a quelle parole il vecchio Sempere si abbandonò al ricordo e alla memoria di quel giorno lontano in cui, a non molta distanza da quello stesso luogo, aveva conosciuto un giovane chiamato Miguel de Cervantes Saavedra, il cui destino e la cui memoria sarebbero rimasti uniti al suo e a quello del suo nome nella notte dei tempi…

Barcellona, 1569

Erano tempi leggendari in cui la storia non aveva altro artificio se non la memoria del mai accaduto e la vita non aspirava ad altri sogni se non a quelli fugaci e passeggeri. In quei giorni gli apprendisti poeti portavano un ferro alla cintura e cavalcavano senza coscienza né destino sognando versi dalla lama avvelenata. Barcellona era allora città e fortezza cullata in grembo a un anfiteatro di montagne disseminate di banditi che si nascondeva alle spalle di un mare color del vino impregnato di luce e di pirati. Alle sue porte venivano impiccati ladri e malviventi per mettere in fuga l’avidità per le cose altrui, e tra le sue mura, che minacciavano di esplodere, si mescolavano commercianti, saggi, cortigiani e hidalgos di ogni condizione al servizio di un labirinto di congiure, denari e alchimie la cui fama raggiungeva gli orizzonti e le brame del mondo conosciuto e sognato. Si diceva che lì avessero sparso il loro sangue re e santi, che le parole e il sapere vi trovassero rifugio, e che con una moneta in mano e una menzogna sulle labbra qualunque avventuriero avrebbe potuto baciare la gloria, andare a letto con la morte e risvegliarsi benedetto fra torri di vedetta e cattedrali per farsi un nome e una fortuna.
In un simile luogo mai esistito e il cui nome era condannato a ricordare ogni giorno della sua vita, giunse una sera di San Giovanni un giovane hidalgo di quelli di penna e spada, montando un famelico ronzino che ormai riusciva a stento a reggersi sulle zampe dopo aver galoppato per diversi giorni. Portava in groppa l’allora diseredato Miguel de Cervantes Saavedra, originario di nessun luogo e di tutti, e una ragazza il cui viso si sarebbe detto rubato dalla tela di uno dei grandi maestri. E si sarebbe detto bene, perché si seppe in seguito che la giovane si chiamava Francesca di Parma e aveva conosciuto la luce e la parola nella Città Eterna appena diciannove primavere prima.
Volle il destino che il macilento somaro, concluso il suo eroico trotto e cacciando schiuma dal muso, crollasse esanime a pochi passi dalle porte di Barcellona e che i due amanti, poiché tale era la loro segreta condizione, si mettessero a camminare sotto un cielo sanguinante di stelle sulla sabbia della spiaggia fino a raggiungere il confine delle mura e, vedendo l’alito di mille fuochi che si innalzava in cielo e tingeva la notte di rame liquido, decidessero di cercare ospitalità e rifugio in quel luogo che assomigliava a un palazzo di tenebre costruito giusto sopra la fucina di Vulcano.
In termini simili, ma meno fioriti, venne riferito più tardi l’episodio dell’arrivo a Barcellona di don Miguel de Cervantes e della sua amata Francesca al pregevole artefice di libri, don Antoni de Sempere, con bottega e domicilio accanto alla porta di Santa Ana, da un ragazzo zoppo dagli umili lineamenti, naso imponente e vivace ingegno chiamato Sancho Fermín de la Torre, il quale, comprendendo le necessità dei due nuovi arrivati, si era offerto di buona volontà di guidarli in cambio di qualche moneta. Fu così che la coppia trovò alloggio e sostentamento in un immobile lugubre e ritorto su se stesso come un tronco schivo. E fu così che, per ventura delle arti di Sancho e alle spalle del destino, l’artefice di libri fece conoscenza con il giovane Cervantes, al quale l’avrebbe unito una profonda amicizia fino alla fine dei suoi giorni.
Poco sanno gli studiosi delle circostanze che precedettero l’arrivo di don Miguel de Cervantes nella città di Barcellona. Gli iniziati in tali materie riferiscono che molte penurie e disgrazie avevano preceduto quel momento della vita di Cervantes e che molte altre, da battaglie a ingiuste condanne e prigionie o alla virtuale perdita di una mano in combattimento, lo attendevano prima di poter godere di pochi anni di pace al tramonto della sua vita. Quali che fossero state le complicazioni del destino che l’avevano condotto fin là, in virtù di ciò che poté dedurre il presuntuoso Sancho, un grave affronto e una minaccia ancora più grande gli stavano alle calcagna.
Sancho, uomo appassionato dei racconti di calde avventure amorose e di sacre rappresentazioni dalla solida morale, giunse a inferire che al cuore di un simile intrigo dovesse agire da fulcro e patata bollente la presenza di quella ragazza dalla bellezza e dal fascino sovrannaturali di nome Francesca. Era la sua pelle un alito di luce, la sua voce un sospiro che faceva palpitare i cuori, e il suo sguardo e le sue labbra una promessa di piaceri la cui glossa sfuggiva alla metrica del povero Sancho, al quale l’incantesimo suggerito dalle forme che si delineavano sotto quegli abiti di seta e pizzi alterava il battito del cuore e la ragione. Determinò così Sancho che con ogni probabilità il giovane poeta, avendo bevuto di quel veleno celestiale, fosse al di là di ogni salvezza perché non poteva esistere sotto il cielo un uomo onesto che non avrebbe venduto l’anima, la cavalcatura e le staffe per un istante di riposo fra le braccia di quella sirena.
«Amico Cervantes, non tocca a un triste zoticone come me dire a sua eccellenza che un volto e delle fattezze simili offuscano la ragione di qualunque maschio in stato respiratorio, però il naso, che dopo la trippa è il mio organo più sagace, mi porta a pensare che, da dovunque lei abbia sottratto un simile pezzo di femmina, non gliela perdoneranno e che non c’è abbastanza mondo per nascondere una Venere di un calibro tanto delizioso» asseverò Sancho.
Va detto che, ai fini del dramma e della messa in scena, le parole e la musicalità dell’eloquio del buon Sancho sono state ricomposte e stilizzate dalla penna di questo vostro umile e sicuro narratore, ma che l’essenza e la saggezza del suo giudizio restano incolumi e non adulterate.
«Ah, amico mio, se le raccontassi…» sospirò un Cervantes allarmato.
E raccontò, poiché nelle sue vene scorreva il vino della narrazione e il cielo aveva voluto che fosse una sua pratica raccontare prima a se stesso le cose del mondo per poterle comprendere e poi raccontarle agli altri, vestite con la musica e la luce della letteratura, perché intuiva che se la vita non era un sogno era almeno una pantomima, dove la crudele assurdità del racconto fluiva sempre dietro le quinte, e non esisteva tra cielo e terra vendetta più grande e più efficace che scolpire la bellezza e l’ingegno a colpi di parole per scoprire il senso nel nonsenso delle cose.
Il racconto di come fosse arrivato a Barcellona fuggendo da tremendi pericoli e di quali fossero l’origine e la natura di quella prodigiosa creatura chiamata Francesca di Parma venne riferito da don Miguel de Cervantes sette sere dopo. Su richiesta di Cervantes, Sancho lo aveva messo in contatto con Antoni de Sempere, poiché a quanto pareva il giovane poeta aveva composto un’opera drammatica, una sorta di storia di incantesimi, sortilegi e passioni sfrenate, che d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota del curatore
  4. La città di vapore
  5. Blanca e l’addio. (Dalle memorie mai accadute di un certo David Martín)
  6. Senza nome
  7. Una signorina di Barcellona
  8. Rosa di fuoco
  9. Il Principe del Parnaso
  10. Leggenda di Natale
  11. Alicia, all’alba
  12. Uomini in grigio
  13. La donna di vapore
  14. Gaudí a Manhattan
  15. Apocalisse in due minuti
  16. Bibliografia
  17. Copyright