Il tempo di vivere con te
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Il tempo di vivere con te

  1. 168 pagine
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Il tempo di vivere con te

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Giuseppe Culicchia tiene in serbo queste pagine da più di quarant'anni. Perché la morte di Walter Alasia, al cui nome è legata la colonna milanese delle Brigate Rosse, è una storia dolorosa che lo tocca molto da vicino: per il Paese è un fatto pubblico, uno dei tanti episodi che negli anni di Piombo finivano tra i titoli dei quotidiani e dei notiziari televisivi; per lui e la sua famiglia è una ferita che non guarirà mai.

Walter Alasia, di anni venti, era figlio di due operai di Sesto San Giovanni. Giovanissimo aveva cominciato la sua militanza in Lotta Continua, ma poi era entrato nelle fila delle Brigate Rosse. Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 la polizia fece un blitz a casa dei suoi genitori per arrestarlo. Lui aprì il fuoco, e nel giro di pochi istanti persero la vita il maresciallo dell'antiterrorismo Sergio Bazzega e il vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani. Subito dopo tentò di scappare, ma venne raggiunto dai proiettili della polizia.

Giuseppe all'epoca ha undici anni e Walter è suo cugino. Ma in realtà è molto di più: è il fratello maggiore con cui non vede l'ora di passare le vacanze estive, che gli insegna a giocare a basket, che lo carica sul manubrio della bicicletta e disegna per lui i personaggi dei fumetti che ama. È un ragazzo affettuoso, generoso, paziente, e agli occhi di Giuseppe incarna un esempio.

In questo memoir asciutto e allo stesso tempo accorato Culicchia ricostruisce ciò che da bambino sapeva di Walter, scavando nei propri ricordi alla ricerca dei germi di ciò che sarebbe stato, e lo confronta con quello che crescendo ha appreso di lui dalla sua famiglia, ma anche dai giornali e dai libri di storia. E così facendo racconta gli anni della lotta armata e del terrorismo da una prospettiva assolutamente unica.

Non c'è vittimismo, non c'è retorica, c'è il dolore di un bambino che a undici anni perde in una sola notte un affetto immenso e tutte le certezze che credeva di avere, unito alla lucidità di un grande scrittore che ha cercato per oltre quarant'anni la giusta distanza per raccontare questa storia.

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Informazioni

1

Che anno è.
Che giorno è.
È, questo, il tempo di vivere con te.
L’altra notte ti ho sognato. Sono passati più di quarant’anni eppure tu ne avevi sempre venti. Ed eri bello come un giglio tra i rovi e ridevi e io bambino tornavo a ridere con te. Eravamo nella vecchia casa di Grosso Canavese. Io mi arrampicavo sulla scala a chiocciola, tu mi facevi il solletico. E sapevo di potermi staccare e cadere perché c’eri tu, pronto a prendermi tra le tue braccia.
La notte.
La notte tra il 14 e il 15 dicembre.
La notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976.
La notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 tu Walter dormi. Anch’io dormo. Tu a Sesto San Giovanni. Io a Grosso Canavese. Tu vivi a Sesto San Giovanni con i tuoi. Io vivo a Grosso Canavese con i miei. Tu hai vent’anni. Io undici. Tu Walter sei alto, con gli occhi blu. E le nostre madri dicono che abbiamo le mani uguali e che ci somigliamo. Tua madre è Ada. La mia Elisabetta. Ada ed Elisabetta sono sorelle. Tu e io siamo cugini. Ma per me tu Walter sei un fratello. Il fratello che non ho mai avuto, visto che ho una sorella. Tu Walter invece un fratello ce l’hai. Mia sorella si chiama Gabriella. Tuo fratello Oscar. A mia sorella voglio bene ma tra noi ci sono sei anni di differenza, io ancora bambino lei già adolescente, io ancora alle prese coi miei giochi lei già alle prese con le sue cotte. A te invece non voglio bene. Io di te Walter sono innamorato. Innamorato pazzo. E i nove anni e i centocinquanta chilometri che ci dividono non hanno alcuna importanza. Con te Walter ci si vede quasi solo d’estate, quando per le vacanze vieni coi tuoi a Nole Canavese nella casa dei nonni e però finisci sempre per stare da noi a Grosso. Perché non sono il solo ad amarti, Walter. Anche mia sorella ti ama. Anche mia madre ti ama. Anche mio padre ti ama. Non amarti è impossibile, Walter. Perché tu Walter sei sempre di buonumore. E tanto affettuoso. E così generoso. Quando imbracci la chitarra e intoni una canzone di Battisti, tu Walter hai una voce calda, bellissima. Ma sei felice di mollare la chitarra, comprata dopo averla a lungo desiderata d’accordo con tua madre e di nascosto da tuo padre, a cui hai raccontato che te l’ha lasciata un amico partito per il militare, e aiutarci a dare il bianco in casa anche se sei in vacanza. E mentre sgobbi sei capace come nessun altro di combinare scherzi e prenderti gioco di chiunque. Tu, Walter. Ecco: tu Walter sei fatto così. E mentre scrivo cerco di ricordarti esattamente com’eri. Com’eri per me e per chiunque ti abbia conosciuto. E se chiudo gli occhi ti rivedo preciso, i capelli lunghi, i jeans a zampa, la camicia azzurra. E quei tuoi occhi blu come quelli di tua madre. E quel sorriso, vivo.
Ora invece tu Walter sei morto.
Tu Walter sei morto all’alba di quel 15 dicembre 1976.
Tu Walter sei morto e io ora cerco di farti rivivere almeno un po’.
Tu Walter sei morto all’alba di quel 15 dicembre 1976 perché ti hanno ammazzato.
Tu Walter prima di morire hai ucciso a tua volta senza che nessuno di noi sapesse che eri entrato nelle Brigate Rosse. Nessuno tranne tua madre Ada. Che per me era una seconda madre. Ed era la madre di Walter Alasia.

2

La notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976, a Sesto San Giovanni, tu Walter dormi e forse sogni in una casa popolare in via Giacomo Leopardi. Che cosa sogni non lo sapremo mai. Quanto a me, sinceramente non ricordo. Forse sogno Valeria, la compagna di classe di cui mi sono invaghito sulla soglia della pubertà, dimenticandomi dei giochi, dei fumetti, dei libri e dei disegni che fino a quel momento hanno riempito la mia infanzia. O forse sogno la prossima partita di basket, in programma giovedì 16 nella palestra della scuola media che frequento a Mathi Canavese. Anche tu Walter giochi a basket a Sesto San Giovanni. A sentire te sei un grande campione. Anzi, il più grande campione di tutta Sesto San Giovanni. No, di tutta Milano. Perché tu Walter sei fatto così. Sei capace di raccontare qualsiasi cosa. Di come sai andare a canestro con una facilità che nemmeno le stelle della NBA. Della tua esperienza come allenatore di una squadra femminile. Delle mosse segrete che in veste di allenatore della squadra femminile insegni alle giocatrici, che ti ammirano naturalmente per la bravura ma anche per la bellezza. Io, mentre ascolto te Walter che mi racconti quanto sei bravo sia come giocatore sia come allenatore, non so se crederti fino in fondo. Ma a Grosso Canavese, che a dispetto del nome è un paesino di appena novecento anime a poco più di venti chilometri da Torino, un campo da basket non c’è. Non posso metterti alla prova. Devo fidarmi di te. Come mi fido quando sulla bicicletta di mia madre ci precipitiamo giù dalla discesa tutta curve che porta in paese dai prati della Vauda, io seduto sul manubrio, tu Walter che lasci i pedali e non tocchi i freni e ridi dietro di me e io con te, la gioia pazza della velocità, del vento in faccia, dell’estate, del profumo degli alberi.
In realtà ti chiami Giuseppe come me. Giuseppe Walter Alasia. Entrambi dobbiamo il primo nome a nostro nonno materno Giuseppe Tibaldi, che in gioventù appena diciottenne partecipò come squadrista alla Marcia su Roma. Ma in famiglia nessuno ti ha mai chiamato Giuseppe. Per tutti noi sei sempre stato Walter. Walter come Walter Audisio, il partigiano a cui era stata attribuita l’esecuzione di Mussolini? Può darsi: tuo padre Guido, per me lo zio Guido, e tua madre Ada, per me la zia Ada, sono entrambi operai e comunisti. Lui lavora alla Ortofrigor, come modellista. Lei alla Sapsa, Gruppo Pirelli. Entrambi sono iscritti al PCI. E lei è tra coloro che si battono all’interno della fabbrica per migliorare le condizioni lavorative in un contesto in cui l’azienda impone il cottimo: se c’è un corteo, la Ada è sempre in prima fila a reggere lo striscione. Ma perché allora un altro nome tedesco, Oscar, per tuo fratello? Forse perché tuo padre Guido durante la guerra era stato prigioniero a Mauthausen, deportato proprio in quanto operaio per lavorare nell’industria bellica del Reich? Aveva forse un debito di riconoscenza nei confronti di un Walter e di un Oscar incontrati durante la prigionia? Lo avevano aiutato o addirittura salvato? Non si sa. Tuo padre di Mauthausen non riesce a parlare. Basta accennare al nome di quel lager che i suoi occhi diventano lucidi, anzi, prende, si alza e se ne va in un’altra stanza, e dire che tutti lo conoscono come un grande affabulatore, con quel suo vocione da baritono. Ma quand’è così, tace. Anche tua madre è una grande chiacchierona, alla pari di mio padre Francesco, originario di Marsala. Quando le nostre due famiglie si riuniscono diventando una sola, non c’è un attimo di silenzio. E mentre tua madre e mio padre fanno a gara a chi fuma di più, lo zio Guido parla sempre di Milano, di quanto è grande e moderna Milano, di come sia diverso vivere in una metropoli industriale come Milano rispetto alla provincia, alla campagna, che si tratti di Grosso oppure di Nole. La zia Ada invece parla della fabbrica, della sua condizione di operaia a Sesto, dei turni di lavoro e dello sfruttamento padronale, ma anche della sua infanzia e della sua adolescenza a Nole, visto che le ha condivise con mia madre. Poi, giovanissima, è rimasta incinta di Oscar, si è sposata con Guido e ha lasciato Nole per Milano, anzi per Sesto, che comunque stando a sentire lo zio sempre Milano è. Mio padre invece parla di Marsala, della Sicilia, della sua esperienza di ventenne che lasciata la terra dov’era nato si è ritrovato a Torino nel 1946, quando a un meridionale nessuno dava un lavoro se non aveva la residenza, e nessuno dava la residenza se non aveva un lavoro. Solo mia madre per fortuna parla un po’ meno: interviene a integrare i ricordi della sorella, che risalgono al tempo della guerra, quando c’era la tessera del pane e si pativa la fame, oppure al primo dopoguerra, quando ci si divertiva con niente, bastava ottenere il permesso di andare a ballare sulle scarpe dalla suola di sughero oppure prenderselo. Quanto a noi figli, tu Walter e tuo fratello Oscar e io e mia sorella Gabriella, ascoltiamo i racconti degli adulti, e naturalmente scherziamo, giochiamo. Di noi quattro, tu che hai preso da tua madre sei quello più simpatico ed estroverso, sempre pronto a fare una battuta capace di far ridere tutti quanti. E io imparo da te.
È il 1968. Io ho tre anni. Tu dodici. Siamo a Nole a casa dei nonni. La casa che poi, alla loro morte, passerà a tua madre. E dove continuerete a venire in vacanza da Sesto in estate. Il nonno Giuseppe siede a capotavola. La nonna Giuseppina non vuole farsi fotografare e gira la testa dall’altra parte. Il fotografo è tuo padre. Tuo fratello Oscar è in piedi alle spalle del nonno. Io siedo in braccio a mia madre. Di fianco a lei mia sorella e subito dopo mio padre. La zia Ada siede di fronte a me a sinistra della nonna. Mio padre e tua madre alzano i bicchieri per brindare. Tu, abbracciato al nonno, bevi un sorso di vino rosso. È il mese di agosto. Il Maggio francese riverbera ancora. Sta per arrivare l’Autunno caldo. E con questo i cortei e gli scioperi, le stragi di Stato, la Strategia della tensione, le prime bombe, i primi morti. Nessuno di noi sa che uno di quei morti sarai tu, otto anni dopo questa fotografia.

3

In radio passano Lucio Battisti e i Rolling Stones, Patty Pravo e i Doors, Francesco Guccini e Jimi Hendrix. Da qualche tempo, complice la nascita oltreoceano del movimento hippie, anche in Italia è arrivata la moda dei “capelloni”. Quando la mia maestra delle elementari si mette in congedo perché incinta e viene sostituita da un giovane supplente con i jeans a zampa, una camicia militare americana con il simbolo della pace ricamato su una manica, gli occhiali da sole con le lenti a goccia rosa e le lunghe chiome bionde, i genitori di tutta la classe, compresi i miei, riescono a farlo sostituire nel giro di un mese da un rassicurante maestro coi capelli corti, completo di giacca e cravatta, occhiali da vista e fervore cattolico. In tivù esistono solo due canali, chiamati familiarmente il Primo e il Secondo. Il televisore è un Emerson in bianco e nero, marca americana ma produzione toscana. Come milioni di altri bambini italiani la sera vado a dormire dopo “Carosello”. Ma faccio in tempo a vedere il telegiornale. E allora lo schermo in bianco e nero rimanda immagini che nulla hanno a che vedere con le avventure di Caballero e Carmencita, o con il colonnello Calindri che beve imperturbabile in mezzo al traffico il suo Cynar. Spesso sono immagini cruente: nel Sud Est asiatico per esempio si combatte in Vietnam e in Cambogia, in Nigeria infuria la guerra civile, Che Guevara è stato ucciso in Bolivia dove voleva dare inizio a una nuova rivoluzione. Ma non solo. Perché nel resto del mondo c’è la Guerra fredda tra russi e americani e a Berlino ci sono il Muro, la striscia della morte e il ponte delle spie. Da noi, però, non si è ancora sentita l’espressione “strage di Stato”. Intanto il numero delle manifestazioni di piazza indette a partire dal 1968 e la scia dei morti per motivi politici sono destinati ad allungarsi. Davvero nessuno di noi può immaginare che un giorno tra quei morti ci sarai anche tu.
C’è Aldo Moro alla presidenza del Consiglio quando il 1° marzo 1968 a Valle Giulia si verificano i primi violenti scontri tra universitari e polizia, e si assiste alla frattura tra studenti di sinistra e di destra, che fino a quel momento avevano protestato assieme. A provocarla, la scelta di Almirante di schierare i suoi dalla parte delle forze dell’ordine, poi difese da Pier Paolo Pasolini nel famoso articolo pubblicato dall’“Espresso”: “Perché i poliziotti sono figli di poveri, che vengono da subtopie, contadine o urbane”. I nomi e i fatti che intercetto distrattamente in quegli anni seduto a tavola con la mia famiglia, il televisore Emerson acceso durante i pasti specie il sabato a pranzo dopo aver visto “Oggi le comiche” condotto da Renzo Palmer oppure a cena negli altri giorni, a me che sono ancora un bambino non dicono granché. Ma per te è diverso, Walter. I nomi sono quelli di Junio Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas decorato dai tedeschi durante la guerra con la Croce di Ferro di prima classe. Jan Palach, studente praghese che si dà fuoco contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. Richard Nixon, presidente USA in visita a Roma dove in scontri con la polizia muore lo studente Domenico Congedo. Mentre io gioco a palla in cortile o passo dal mio triciclo alla bicicletta con le rotelle spingendomi lungo i sentieri costeggiati dai campi di granoturco intorno a Grosso Canavese, tu a Sesto stai diventando adolescente e registri fatti che a me sfuggono: la nascita a Torino del movimento Lotta Continua, l’Autunno caldo. Quando a Milano il 12 dicembre 1969 scoppia la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura con i suoi diciassette morti e ottantotto feriti io ho quattro anni. Tu Walter ne hai tredici. E da lì in avanti, è una vertigine. Alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato secondo il giudice Gerardo D’Ambrosio a causa di un “malore attivo” da una finestra della questura di Milano, segue l’arresto dell’altro anarchico Pietro Valpreda, accusato di essere l’autore materiale della strage. La Signora con la falce portata sul grande schermo da Ingma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tempo di vivere con te
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. Elenco vittime delle Brigate Rosse. (Tratto da Wikipedia)
  17. Elenco brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine. (Su Wikipedia non c’è)
  18. Ringraziamenti
  19. Crediti
  20. Copyright