Tullo Ostilio
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Tullo Ostilio

Il lupo di Roma - Il terzo re

  1. 348 pagine
  2. Italian
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Tullo Ostilio

Il lupo di Roma - Il terzo re

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Tullo non ama gli dei. Non capisce l'ostinazione con cui il suo re, Numa Pompilio, li onora e li compiace con feste e preghiere. Come se i numi, quegli esseri oscuri e capricciosi, fossero lì per ascoltare le richieste degli uomini. Le sue, di sicuro, non le hanno mai esaudite, neanche il giorno in cui hanno lasciato morire Clara, la sua splendida moglie, una ragazza in boccio che faceva invidia alle ninfe.

No, Roma non ha bisogno di sacrifici e orazioni; ciò che le serve è un sovrano che pensi al popolo, non a Giove. Un condottiero che renda l'Urbe sempre più forte, rispettata, temuta, perché nessuno osi attaccare i suoi cittadini. E quando, al funerale stesso di Numa, il popolo lo acclama come Lupo di Roma, suo terzo re, Tullo sa che la guerra e la conquista saranno l'unico scopo della sua esistenza.

Perché Tullo Ostilio è un uomo feroce, infelice e tormentato dai fantasmi del passato, dai sensi di colpa per la morte di Clara. Ma è anche un monarca che ama intensamente il suo popolo, e a quella gente, alla sua potenza, consacra la vita.

Le città vicine cadono sotto la straordinaria abilità dei guerrieri romani; anche l'odiata Alba Longa, la città fondata dal figlio di Enea, patria di Romolo, viene distrutta.

Rimane da combattere la battaglia più temeraria: quella contro gli dei.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707561
CAPITOLO SESTO

Guarda la mia ombra

1

Velia, 653 a.C.

Distesa al fianco del re di Roma, Lunaria accarezzava la pianta di cui portava il nome.
Tullo gliene aveva donato un ramoscello, venendo da lei. Adesso che i frutti piatti e tondeggianti si erano seccati, sembravano piccole lune argentee, brillanti alla luce del focolare.
La donna si strinse al re e sollevò la lunaria verso il soffitto, immaginando che il più bello di quei frutti fosse una luna piena che saliva al cielo, tonda come un ventre materno. A quel pensiero, si toccò la pancia.
«Cosa fai?» borbottò Tullo strappato al sonno. Si voltò verso di lei e strinse le palpebre, lottando contro il chiarore delle fiamme.
Lunaria sorrise. «Stavo pensando ai bambini che non ho mai avuto.»
«Ti dispiace non avere figli?»
«Non potrei continuare il mio mestiere, se ne avessi» rispose lei, premendosi la mano sul ventre con più forza. «La donna che mi ha cresciuta mi ha insegnato fin da quando ero piccola a riconoscere le erbe e a preparare la mistura che serve per non restare incinta. È così che si rimane libere.»
Tullo si sollevò sui gomiti. «Sei ancora giovane, potresti averne, se vuoi.»
Lunaria gli soffocò una risata sulla spalla.
Erano trascorsi nove anni dalla morte di Mezio Fufezio, e da allora Roma era diventata forte come mai lo era stata.
L’Urbe si era gonfiata come il petto di un guerriero che prende respiro prima di una battaglia, poi aveva rilasciato il fiato spargendosi nei territori intorno. Era diventata placida e serena, era invecchiata.
Anche Lunaria era invecchiata insieme alla città. I romani avevano cominciato a visitarla sempre più di rado, preferendole la compagnia di lupe più giovani che abitavano nelle curie, e quasi nessuno andava più a cercarla nel bosco della Velia. Ormai si recavano da lei solo per sapere quali erbe prendere per evitare di avere un bambino, oppure per placare una fastidiosa dissenteria.
Perfino Tullo Ostilio, che aveva abbandonato il colle per andare ad abitare sul Celio, la cercava di rado. Lui non poteva saperlo, ma ormai era l’unico che giaceva ancora con lei.
Tullo le pizzicò il fianco. «Perché ridi?»
«Non sono più così giovane come pensi. E questo significa che non lo sei nemmeno tu.»
«Se invecchio, è perché non ci sono più guerre a tenermi vivo.»
«Guerre?» Lunaria si sollevò a sua volta per guardarlo. «Adesso che hai sconfitto i nemici di Roma e hai reso la città due volte più grande di come l’hai trovata pensi ancora alla guerra?»
Tullo annuì. «Da anni i romani commerciano, coltivano la terra e si dedicano alle loro famiglie, che diventano sempre più numerose e ambiziose. Se non verranno a chiedermi di portare battaglia fuori dalle mura, presto si faranno la guerra tra di loro. Intanto io morirò.»
«Morirai?»
Il re le accarezzò i seni nudi. «Morirò di noia, Lunaria. Una di queste mattine qualcuno verrà a cercarmi e di me troveranno solo l’ombra.»
«Che esagerato.» La donna gli restituì il pizzicotto scherzoso al fianco. «Vorrà dire che ti faremo un bel funerale.»
«Voglio un’enorme pira funebre.» Tullo sollevò le braccia verso i fili di paglia che spuntavano dal tetto. «Con tanto di quel fumo da far lacrimare quel bastardo di Giove e insozzargli il cielo. E poi, dovrete gettare le mie ceneri nel Tevere.»
«E le donne a piangere per giorni accanto alle tue spoglie non le vuoi?»
«Cosa me ne faccio di un pugno di matrone disperate? Festeggiate, piuttosto! Fate un banchetto, ballate, accoppiatevi. Vi sentirò godere e ne sarò felice.»
Risero insieme, lei nell’incavo del collo di lui.
«Non morire, Tullo» gli mormorò all’orecchio. «Roma ha ancora bisogno di te.»
Le piaceva restare avvinghiata a lui, in quei pomeriggi, in cui il tempo sembrava fermarsi. Tullo rimaneva in silenzio a pensare, la linea della mascella che si induriva nel profilo severo, e lei giocava a indovinare cosa stesse rimuginando.
Non ne era innamorata. E, al tempo stesso, lo amava. Senza gelosia e senza il dolore delle lontananze, di Tullo le restava la parte migliore a cui attingere. Nessuno di loro due poteva rimanere ferito e nessuno pretendeva di più di quello che l’altro poteva dare. Un equilibrio perfetto.
Poi il re raccolse le vesti e si attardò a riattizzare il fuoco per lei, prima di andarsene.
Lunaria rimase a guardarlo sulla soglia finché Tullo non scomparve tra gli alberi, lasciandole il suo odore sul collo e nel giaciglio.
Con la sua presenza ancora così forte nella capanna vuota, rovistò tra le terrecotte dietro il focolare, cercando quella con la mistura di ruta ed erba sabina che aveva preparato la sera prima.
Si accarezzò il ventre un’ultima volta.
Appoggiato accanto alle pelli, il ramoscello avuto in dono brillava con tutte le sue lune d’argento. Lunaria lo osservò, seduta davanti al fuoco. Le sembrò un messaggio di Tullo per il loro bambino, anche se il re non sapeva nemmeno della sua esistenza.
Alla fine, ripose la ciotola senza berne il contenuto.
«Posso decidere anche domani» mormorò.

2

Roma, 653 a.C.

«Numa Pompilio sarebbe orgoglioso di te, se vedesse che razza di uomo sei diventato» commentò Melio lanciando un’occhiata a Tullo.
Lafrenio sghignazzò, pulendosi la bocca con il dorso del braccio, e rincarò: «Tutte queste comodità ti avrebbero fatto inorridire, da giovane. Non devi neanche andare a prenderti il vino da solo!». Fece un cenno a uno schiavo, che si affrettò a porgere a Tullo una brocca piena e a portare via quella vuota.
Tullo lo ringraziò con un cenno e allungò le gambe sulle stuoie colorate della reggia. Bevve anche lui, insieme a Melio e Lafrenio, e li lasciò ricordare i tempi passati.
Non si era mai pentito di aver lasciato la Velia. La reggia che aveva fatto costruire sulla sommità del Celio era simile a quella che Numa Pompilio aveva eretto nel foro. Grossi tronchi sostenevano le mura di argilla dipinta e il tetto di paglia intrecciata sapeva resistere alle piogge invernali così come ai raggi cocenti dell’estate.
E, soprattutto, non conteneva ricordi.
Tullo aveva ceduto alle insistenze del flamine diale, che aveva preteso che si circondasse di servitù, e la reggia si era colmata del chiacchiericcio delle fanciulle che riempivano i bacili e ravvivavano le braci e delle loro risate, quando il povero schiavo Lavinio zoppicava sui gradini per portargli le tuniche pulite.
In quella vitalità così fresca, gli incubi di Clara avevano allentato la morsa e lo avevano abbandonato quasi del tutto. Suo fratello Avilio non si era mai presentato, lì sul Celio, tra le abitazioni dei romani e degli albani, che erano ormai diventati un unico popolo. Era rimasto nella vecchia casa paterna, con il ventre sanguinante e la bocca aperta.
Tullo poteva dormire notti serene. Fin troppo tranquille.
«Roma finirà per tirare le cuoia, in tutta questa comodità» sbuffò.
Melio appoggiò sulla stuoia la terracotta col vino e gli batté una mano sulla spalla. «Smettila con questi discorsi. Siamo più vivi che mai.»
Lafrenio fece un cenno in direzione del Palatino. «La nostra forza non fa che aumentare. Da quando Alba Longa non esiste più, è a Roma che si guarda, come avevi previsto. E il risultato è che adesso tutti vogliono venire a vivere in città o poco lontano da qui. L’unico rischio che corriamo è di dover tirare su un’altra cerchia di mura, se continuiamo a espanderci a questa velocità.»
Tullo ammirava la schiettezza di Melio e l’ingenuità che Lafrenio non aveva perso in quegli anni. Ma sapeva bene che non tutti i patrizi erano come loro e che a Roma la troppa ricchezza aveva lo stesso effetto dell’eccessiva povertà. Creava malumori, tensioni sotterranee e troppe differenze tra i cittadini, che aumentavano sempre di più.
I primi a chiedere accoglienza erano arrivati dalle terre etrusche. Pochi alla volta, poi con frequenza sempre maggiore, nugoli di migranti si erano presentati alla porta Romanula e alla porta Mugonia portando con sé il poco che avevano.
I sabini li avevano seguiti. Da Cures e da Antemne erano arrivati giovani che si erano lasciati alle spalle case e famiglie. Altri ancora erano giunti dalle città latine, dai piccoli villaggi sulla costa a occidente, alla ricerca di quell’Urbe di cui si vociferava da colle a colle, da valle a valle.
Roma.
Quella parola aveva un suono così dolce, su quelle bocche che ne sussurravano il nome venendo da lontano.
“Dove li mettiamo?” si erano domandati i senatori, con la preoccupazione degli uomini che avevano sempre più ricchezza e sempre meno voglia di condividerla.
Tullo aveva dato disposizione che fossero tutti sistemati nella valle che divideva la cima dell’Arx dalla rupe Tarpea, poco più a meridione. L’Asylum si stendeva tra la pianura del foro e la riva del Tevere ed era stato Romolo a ordinare che in quel punto Roma avrebbe accolto chiunque lo avesse chiesto.
L’Urbe si era riempita di genti che parlavano lingue diverse e veneravano numi dai nomi nuovi. E tutte volevano una vita migliore, chiedevano una fetta di quella prosperità che i romani si erano guadagnati col sangue.
In un mattino d’autunno, Spurio Curzio venne a fargli visita accompagnato da un sabino e da sua moglie, che stringeva tra le braccia una bambina dalle guance rotonde.
«Vengono da Cures» glieli presentò. «E chiedono di essere accolti a Roma.»
La bimba lanciò uno strillo gioioso che riempì la reggia. Sua madre la strinse terrorizzata, chinando il capo, come se si aspettasse che Tullo la punisse per tanta impertinenza.
Tullo si avvicinò e sorrise alla bambina. «Tu chi sei, che urli così forte?»
«Si chiama Cuna» rispose il padre, tenendo lo sguardo basso. «Non abbiamo avuto un maschio e a Cures non possediamo più nemmeno una casa. Con una figlia femmina siamo destinati a diventare sempre più poveri, per questo speriamo di poter vivere qui.»
Il sabino si irrigidì, quando lui avvicinò il viso alla bambina. Tullo strabuzzò gli occhi, poi le mostrò la lingua, e Cuna gorgogliò una risata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tullo Ostilio
  4. Personaggi principali
  5. Antefatto
  6. Capitolo primo. La pace è per i morti
  7. Capitolo secondo. La guerra è per i vivi
  8. Capitolo terzo. L’aquila non partorisce la colomba
  9. Capitolo quarto. Un baratro davanti
  10. Capitolo quinto. I lupi alle spalle
  11. Capitolo sesto. Guarda la mia ombra
  12. Capitolo settimo. Vedrai la mia vita
  13. Epilogo
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright