Una storia americana
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Una storia americana

Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire

  1. 204 pagine
  2. Italian
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Una storia americana

Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire

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Il mondo sta per cambiare, di nuovo. Al termine di un anno sconvolto da avvenimenti inimmaginabili, gli americani hanno scelto il 46° presidente degli Stati Uniti in una delle elezioni più contese della storia. Joe Biden e Kamala Harris sono il nuovo volto della Casa Bianca. La loro vittoria ha catalizzato le speranze di decine di milioni di persone, ma la sfida che hanno davanti non è semplice: sarà interessante osservare come proveranno a traghettare gli Stati Uniti fuori dal momento più delicato della storia recente. Il modo migliore per conoscere come sarà la Casa Bianca di Joe Biden e Kamala Harris è conoscere chi sono e cosa hanno fatto fin qui. Perché la politica e il potere non cambiano le persone: le rivelano per quello che sono. Francesco Costa traccia quindi un ritratto della nuova presidenza percorrendo le straordinarie biografie dei due protagonisti, e i momenti che hanno segnato le loro vite. Dalla campagna elettorale del 1972, con cui Joe Biden diventò il più giovane senatore degli Stati Uniti, alla vicepresidenza al fianco di Barack Obama, dall'infanzia di Kamala Harris nei quartieri-ghetto per afroamericani della West Coast alla carriera da avvocata e procuratrice che l'ha portata a scrivere il suo nome nella storia americana ancora prima di diventare la prima donna, la prima persona di colore e la prima indiana-americana vicepresidente degli Stati Uniti d'America. Le vittorie, le sconfitte, gli errori ci raccontano qualcosa non solo del tipo di presidente e vicepresidente che governeranno la più grande potenza mondiale, ma anche delle lezioni che hanno imparato nel corso delle loro vite, di come hanno affrontato avversari e ostacoli. Soprattutto, quelle vittorie, sconfitte ed errori sono rappresentativi «di una comunità che va molto oltre le loro persone». Perché «nelle loro qualità e nei loro limiti, Joe Biden e Kamala Harris somigliano all'America».

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Informazioni

VIII

La battaglia

La manifestazione che era stata organizzata a Charlottesville, in Virginia, il 12 agosto 2017, non cominciò mai. La polizia la annullò in mattinata, prima che partisse, dopo le tensioni e gli scontri del giorno precedente. Ma non fu sufficiente comunque a evitare il disastro.
Centinaia di persone erano arrivate da tutto il paese, ufficialmente per protestare contro la rimozione da un parco cittadino della statua di Robert E. Lee, il famoso generale che guidò l’esercito sudista durante la Guerra di secessione, difendendo la schiavitù. C’erano i neonazisti affiliati al giornale «Daily Stormer», quelli del National Socialist Movement, quelli del Traditionalist Worker Party. C’erano i suprematisti bianchi del Ku Klux Klan, della League of the South e del National Policy Institute. C’erano membri della Atomwaffen Division, che molti considerano un gruppo terrorista a tutti gli effetti, insieme con agitatori professionisti su YouTube, miliziani coperti di armi, complottisti paranoici che passano le giornate su Reddit e 4chan, gruppi antimmigrati, anarco-libertari, razzisti nostalgici della segregazione. Quasi tutti uomini, quasi tutti fra i venti e i trent’anni. Avevano le torce, i cappucci bianchi, le bandiere confederate o quelle con la svastica. E la statua del generale Lee era soltanto un pretesto per il loro raduno.
Il titolo della manifestazione era «Unite the Right», riunire la destra. Gli attivisti l’avevano presentata e discussa nelle settimane precedenti come una dimostrazione di forza. Donald Trump si era insediato alla Casa Bianca appena sei mesi prima, abbracciando le priorità, i toni e le parole d’ordine di quel movimento radicale. Il principale consigliere e stratega politico di Trump, Steve Bannon, era da anni il carismatico editore di Breitbart, il principale punto di riferimento online della cosiddetta alt-right, la nuova estrema destra americana misogina, razzista e assetata di provocazioni: ora lavorava alla Casa Bianca, insieme con altri personaggi emersi dallo stesso sottobosco.
La sera precedente due o tre centinaia di manifestanti si erano radunati attorno alla statua di Lee brandendo le loro torce (in realtà delle fiaccole antizanzare alla citronella: visti abbastanza da vicino, i neonazisti sono tutti piuttosto ridicoli). Urlavano «Blood and soil», sangue e terra, lo slogan usato dai nazisti per descrivere la purezza della razza ariana, oppure «Jews will not replace us», gli ebrei non ci sostituiranno, figlio della teoria del complotto secondo cui sarebbe in corso un «genocidio bianco». Parlavano con disinvoltura e spavalderia di una nuova guerra civile, del culto della violenza, della necessità di «riprenderci il nostro paese» a qualsiasi costo dalle élite globaliste e multietniche che secondo loro lo avevano dominato per anni. Avevano con sé mazze, coltelli, pistole, scudi, fucili d’assalto e spray urticante. Chi non era vestito di bianco indossava magliette con simboli nazisti o scritte contro i neri o gli ebrei, i cappellini «Make America Great Again» erano troppi per poter essere contati, alcuni la svastica ce l’avevano tatuata addosso.
Il raduno non era autorizzato, ma la polizia non intervenne. A un certo punto i neonazisti si imbatterono in una trentina di studenti universitari che tenendosi a braccetto proteggevano una statua di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, nato a Charlottesville e autore principale della Dichiarazione d’indipendenza. I cori contrapposti diventarono insulti, che diventarono spintoni, che diventarono una rissa. Era l’antipasto di quello che sarebbe successo il giorno dopo. La manifestazione dei neonazisti doveva cominciare nel primo pomeriggio, ma già dalla mattina le strade del centro di Charlottesville erano affollate di persone. Non c’erano solo i neonazisti: le associazioni studentesche, i gruppi antifascisti e gli attivisti di Black Lives Matter avevano organizzato una contromanifestazione.
L’atmosfera era elettrica. I manifestanti si muovevano a piccoli gruppi, come stormi, sciamando da una strada all’altra, correndo l’uno verso l’altro e poi scappando via con la stessa rapidità. Le vie si affollavano e si infiammavano in pochi secondi, generando improvvisamente qualche minuto di caos totale tra sassaiole, pugni, mazzate, coltelli, spray urticante e lattine di gas lacrimogeno. Poi all’improvviso tutti correvano via, il fumo si diradava, le strade si svuotavano: lo scontro sarebbe riapparso pochi minuti dopo da un’altra parte. Gli antifascisti, armati di maschere antigas e scudi fatti in casa, resistevano e le prendevano, ma la seconda molto più della prima. Tra i neonazisti qualcuno aveva riempito di urina delle bottiglie di plastica e le lanciava aperte verso i giornalisti. Un uomo affiliato al Ku Klux Klan di Baltimora sparò a freddo verso un attivista afroamericano, mancandolo di poco. Un gruppo di miliziani armati si appostò fuori da una sinagoga mentre era in corso la preghiera del mattino. La polizia fece uscire i fedeli da una porta sul retro, i rabbini portarono via con sé anche i rotoli delle Torah. Quattro neonazisti inseguirono un attivista nero fino a un parcheggio sotterraneo, poi lo pestarono con cinghie e bastoni davanti alle telecamere di sorveglianza.
Alle 11 del mattino la città di Charlottesville dichiarò lo stato di emergenza e annullò la manifestazione, ma le persone per strada continuarono a scontrarsi e picchiarsi per ore: il peggio doveva ancora arrivare e sarebbe stato trasmesso in diretta, in streaming, dalle molte persone presenti che stavano documentando le proteste. Alle 13.45 una via del centro città, 4th Street, era piena di manifestanti antifascisti. Reggevano scudi e cartelli, urlavano «Whose streets? Our streets!». Di chi sono le strade? Le strade sono nostre. Da una di quelle strade si sentì un gran frastuono, un trambusto di cose che cadono e si rompono, finché dalla folla emerse un’auto in corsa e davanti a lei persone che venivano sbalzate a destra e a sinistra, sopra il cofano, sotto le ruote. L’auto si fermò soltanto quando andò addosso a un’altra macchina, ferma al capo opposto della strada. Qualcuno tra le urla corse verso le persone travolte, ma non ebbe nemmeno il tempo di inginocchiarsi perché l’auto ingranò la retromarcia e ripartì all’indietro, graffiando l’asfalto con il paraurti che si era sganciato da un lato, travolgendo altri manifestanti e scappando da dove era arrivata. Trentacinque persone erano rimaste a terra, sanguinanti, con le ossa rotte. Cinque erano in gravi condizioni.
Heather Heyer, trentadue anni, lavorava da poco in uno studio legale e la sera arrotondava facendo la cameriera. La sera prima aveva deciso con un’amica di non andare alla manifestazione, pensando che fosse troppo pericoloso. La mattina dopo si erano decise a partecipare comunque. Un attimo prima che l’auto arrivasse, l’amica era stata spinta via con un riflesso dal suo fidanzato, che l’aveva notata. Poi era stato investito. Anche Heyer era stata investita. I vigili del fuoco arrivarono dopo appena due minuti ma sul torace di Heyer era già apparso un grosso ematoma, il segno di un trauma fortissimo. Il cuore non batteva. I medici dell’ambulanza ne constatarono la morte. L’uomo alla guida dell’auto era un ventenne che era venuto apposta dall’Ohio, nove ore di macchina. Passava le giornate davanti al computer o ai videogiochi, in passato aveva picchiato e minacciato sua madre, tutti sapevano della sua passione per Adolf Hitler e il nazismo, ma pensavano fosse una stupidaggine immatura. Fu arrestato e poi condannato all’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale.
Nonostante la sua nota rapidità nell’utilizzo di Twitter per commentare i fatti di cronaca e quello che vedeva in televisione, il presidente Trump attese due ore prima di parlare in qualche modo dei fatti di Charlottesville. Quando lo fece, si limitò a pubblicare un tweet che condannava «le violenze commesse da più parti», invitando le autorità a riportare «legge e ordine». Sui forum frequentati dai neonazisti le reazioni erano entusiaste. Trump non andò a Charlottesville, non condannò i neonazisti, non si mise in contatto con la famiglia di Heyer, non fece cioè le cose che avrebbe fatto qualsiasi presidente del passato, di qualsiasi partito.
Ci vollero due giorni perché, dopo una montagna di critiche e su pressione del suo staff, ritornasse sull’accaduto, leggendo senza grande convinzione un comunicato scolastico. «Chiunque sia stato coinvolto nella violenza razzista di questo fine settimana ne sarà ritenuto pienamente responsabile. Faremo giustizia. Il razzismo è il male, e coloro che causano violenza in nome del razzismo sono criminali e teppisti, inclusi il Ku Klux Klan, i neonazisti, i suprematisti bianchi e gli altri gruppi ripugnanti che diffondono odio.» Troppo poco, troppo tardi, ma meglio di niente. Se non fosse che tre giorni dopo, parlando a braccio, Trump rivelò di nuovo i suoi pensieri più autentici: «C’erano brave persone da entrambe le parti. Alcune volevano solo protestare contro la rimozione di una statua molto importante». Condannò di nuovo i suprematisti bianchi ma in modo soltanto formale, tanto da dire erroneamente che in piazza c’era tanta altra gente a difendere la statua del generale Lee e definendo «una protesta molto tranquilla» il raduno del Ku Klux Klan con le torce avvenuto la sera precedente all’attacco.
Nei giorni – e mesi, e anni – successivi Trump continuò a parlare molto solo delle statue, e della «sinistra estrema sempre più violenta». Ogni sua dichiarazione faceva gongolare i gruppi di estrema destra. Steve Bannon disse che i fatti di Charlottesville e le successive dichiarazioni di Trump erano stati un «momento decisivo», ed elogiò il presidente per essersi schierato «con la sua gente» e non con «i globalisti» e «il branco ragliante dei giornalisti».
Dieci giorni dopo i fatti di Charlottesville, Joe Biden parlò attraverso le pagine di una prestigiosa rivista americana, l’«Atlantic Monthly». L’articolo si intitolava We Are Living Through a Battle for the Soul of This Nation, siamo davanti a una battaglia per l’anima di questa nazione. «A Charlottesville,» scrisse Biden «la lunga scia di odio e violenza che ha percorso sottotraccia tutta la nostra storia è riemersa davanti agli occhi del mondo intero. I volti folli e arrabbiati illuminati dalle torce. I cori che riecheggiano la stessa bile antisemita dell’Europa degli anni Trenta. I neonazisti, i membri del Ku Klux Klan e i suprematisti bianchi usciti dall’oscurità e dall’anonimato del web, in una città dalla storia così importante per il nostro paese.» Quasi due anni dopo, quando ha annunciato la sua terza candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, a settantasei anni, lo ha fatto pubblicando un video che era un manifesto, e descriveva la portata storica delle elezioni presidenziali del 2020 e la ragione che aveva motivato la sua decisione. La prima parola che Biden disse nel video: Charlottesville. Lo slogan della sua campagna elettorale: «Battle for the Soul of the Nation».
«Charlottesville, in Virginia, era la casa dell’autore di uno dei più grandi documenti nella storia dell’umanità» disse guardando in camera. «Lo conosciamo a memoria. “Noi riteniamo che queste verità siano autoevidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali; che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti”. Abbiamo sentito così spesso queste parole che sono diventate un cliché. Ma questo è quello che siamo. Non abbiamo sempre tenuto fede a questi ideali, neanche Jefferson lo fece. Ma non abbiamo mai deciso deliberatamente di andare nella direzione opposta.» In un video senza fronzoli lungo tre minuti e mezzo, scritto con l’aiuto di uno dei più importanti storici americani, Jon Meacham, Biden rivolse una delle più pesanti arringhe mai pronunciate dai Democratici contro Donald Trump, accusandolo davanti alla Storia con la esse maiuscola, accostandolo alla nascita del nazionalsocialismo degli anni Trenta. «Con quelle parole che hanno scioccato il mondo e le coscienze degli americani, il presidente degli Stati Uniti ha stabilito un’equivalenza morale tra chi diffonde l’odio e chi ha il coraggio di opporsi all’odio. In quel momento ho capito che la minaccia contro la nostra nazione era diversa da qualsiasi altra che avessi mai visto. All’epoca parlai di una battaglia per l’anima di questa nazione. È ancora più vero oggi. È in corso una battaglia per l’anima di questa nazione.»
Non c’è modo di sapere come sarebbero andate le cose se Joe Biden nel 2016 avesse sfidato Donald Trump, al posto di Hillary Clinton. Ci sono buoni argomenti per sostenere che sarebbero andate diversamente, e buoni argomenti per sostenere che no. Ma qui bisogna fare un piccolo sforzo di empatia e di immedesimazione, e mettersi nei panni di Joe Biden. Ha avuto una vita che ne contiene quattro, da almeno trent’anni pensava di essere in grado di fare il presidente degli Stati Uniti e nel 2016 era sicuro di avere qualcosa da dire e da offrire al paese. È stato vicepresidente per otto anni, oltre che uno dei parlamentari più importanti e influenti in circolazione. A settantasei anni non aveva più molto da chiedere alla sua vita e alla sua carriera, ed evidentemente non era guidato dall’ambizione personale. In condizioni normali si sarebbe ritirato in un felice pensionamento, scrivendo un libro, magari insegnando all’università: ma ogni giorno che passava era un promemoria che gli ricordava che quando persino suo figlio morente gli aveva chiesto di candidarsi, lui non lo aveva fatto.
E quelle elezioni da cui si era sfilato chi le aveva vinte, alla fine? Donald Trump. Un uomo che aveva lanciato la sua carriera politica sostenendo senza prove che il primo presidente nero degli Stati Uniti fosse nato in Africa, che promuoveva odio e bugie, che fin dal giorno del suo insediamento si era impegnato a svilire il discorso pubblico, insultare gli avversari, minacciare i giornalisti e smantellare le iniziative più importanti portate a termine da Biden negli otto anni con Obama, dalla riforma sanitaria all’accordo sul clima di Parigi, dalle norme sull’immigrazione al patto sul nucleare iraniano. Un uomo che incarnava tutto il contrario di quello che Biden aveva fatto e detto in cinquant’anni di carriera – l’umanità e l’empatia alla base di ogni ragionamento politico, l’uguaglianza tra le persone, la sacralità delle istituzioni, il rifiuto dell’estremismo –, spingendosi addirittura a sdoganare il neonazismo e snobbare un attentato terroristico avvenuto sul suolo americano. Non possiamo nemmeno immaginare il senso di fallimento avvertito da Biden, e allo stesso tempo la chiamata a un dovere più alto. Questa storia lo riguardava personalmente, riguardava le sue scelte, la sua famiglia. La battaglia per l’anima della nazione sarebbe stata anche la battaglia della vita di Joe Biden.
Nel corso del Novecento, battere un presidente uscente è stato tremendamente complicato. Lo squilibrio di poteri tra i due candidati è gigantesco, e la capacità del presidente di determinare l’agenda politica del paese e le priorità dei media è impareggiabile. Salvo eccezioni rarissime, i presidenti uscenti decidono su quale terreno giocarsi la rielezione, e questo è quasi sempre un vantaggio decisivo. Dall’altra parte, però, Donald Trump aveva vinto le elezioni prendendo tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton, stava affrontando uno scandalo dopo l’altro e il suo tasso di popolarità non aveva mai superato il 50 per cento: dentro il Partito democratico erano in molti a pensare che sarebbe stato possibile batterlo, e quindi a valutare la possibilità di candidarsi. Senza contare che negli Stati Uniti non si candida alla presidenza solo chi vuole effettivamente diventare presidente, ma anche chi vuole salire per un po’ sul carro della campagna elettorale per fare esperienza e guadagnare notorietà e influenza da investire poi in una successiva candidatura alla presidenza, dopo quattro anni, oppure in una candidatura al Congresso o a governatore, o ancora in una carriera da opinionista televisivo.
La prima a candidarsi fu la senatrice Elizabeth Warren, un’ex professoressa molto cara alla sinistra, e tutti davano per scontato che si sarebbe ricandidato Bernie Sanders, il senatore del Vermont che nel 2016 aveva dato filo da torcere a Hillary Clinton mobilitando tantissimi giovani e spostando a sinistra l’asse del partito. La candidatura che attrasse più attenzioni, però, fu inizialmente un’altra. Il 21 gennaio 2019, infatti, nel giorno dedicato alla memoria del reverendo Martin Luther King, annunciò la sua candidatura una donna che era diventata senatrice soltanto tre anni prima, dopo essere stata procuratrice generale in California e procuratrice distrettuale a San Francisco: Kamala Harris. Il suo slogan era la frase che ogni procuratore deve pronunciare in tribunale all’inizio di un dibattimento. «For the people». Per il popolo.
La candidatura di Kamala Harris partì col botto. Nelle prime ventiquattr’ore dopo l’annuncio raccolse donazioni per un milione e mezzo di dollari da oltre 38.000 americani, una media di 37 dollari a testa, eguagliando il record stabilito da Bernie Sanders nel 2016. Al suo primo comizio trovò ad ascoltarla oltre 20.000 persone, più di quante parteciparono al primo comizio di Barack Obama nel 2008. Analisti ed esperti consideravano Kamala Harris tra i favoriti per la vittoria delle primarie, se non la favorita in assoluto: gli elettori del Partito democratico avrebbero cercato qualcuno che fosse radicalmente diverso da Trump non solo sul piano delle proposte politiche ma anche sul piano dell’identità, e quindi chi meglio di una donna nera figlia di immigrati? Inoltre, Harris era carismatica e popolare, era stata eletta prima procuratrice e poi senatrice in uno Stato più grande e popoloso di quasi tutte le nazioni europee ed era nota per essere una macchina da raccolta fondi. Si era fatta notare durante le audizioni al Senato sfruttando la sua esperienza da procuratrice per grigliare le persone scelte dal presidente Trump per far parte della sua amministrazione, mettendole in difficoltà con domande affilate e impedendo loro di divagare o cavarsela con formule di circostanza, una cosa che era stata molto apprezzata a sinistra, ma non era possibile descriverla come un’estremista o un’irresponsabile rivoluzionaria: aveva passato la sua intera carriera a far rispettare la legge, a combattere il crimine e guidare le forze dell’ordine della California. Sembrava che non le mancasse niente, e quando nel primo dibattito televisivo incalzò Biden per via della sua opposizione alla pratica del busing, a molti sembrò di aver visto in diretta un cruento passaggio di testimone. Ecco la nuova classe dirigente del Partito democratico che si prende spazio e potere anche a costo di accoltellare i suoi padri.
In estate Harris crebbe molto nei sondaggi – intanto i candidati erano diventati più di venti –, ma la sua campagna elettorale non decollò mai, perché si incartò in quello che nel corso del 2019 sembrava il tema più importante e pressante per la maggioranza degli elettori del Partito democratico. Alle elezioni di metà mandato del 2018, infatti, i Democratici avevano ottenuto una larga vittoria decidendo di parlare meno di Donald Trump, per quanto la sua presenza fosse ingombrantissima, e più di questioni concrete che toccassero le vite degli americani. Tra queste nessuna era più urgente della sanità. Per tre anni il presidente Trump aveva provato a smantellare la storica riforma approvata durante l’amministrazione Obama, provocando un aumento dei costi delle assicurazioni. La stessa riforma, poi, aveva bisogno di manutenzione: e vista con gli occhi del 2019, agli elettori più giovani e di sinistra del Partito democratico sembrava decisamente poco ambiziosa.
La principale differenza tra il nostro sistema sanitario e quello americano non è che in America «la sanità si paga», bensì che mentre noi la paghiamo con le nostre tasse, loro la pagano individualmente comprando una polizza assicurativa. La maggior parte degli americani che lavorano riceve una polizza assicurativa come parte del proprio salario, pagata dalla propria azienda, e può coprire con quella polizza l’intera famiglia. Esistono poi due programmi governativi che forniscono copertura sanitaria a costi molto agevolati ai più poveri (il Medicaid) e a chi ha più di sessantacinque anni (il Medicare). La principale differenza tra il nostro sistema sanitario e quello americano è che il nostro è un sistema universale, e quindi copre tutti senza distinzioni: anche chi non paga le tasse. Tutti abbiamo diritto a essere curati in quanto esseri umani, punto. In America chi non è assicurato non viene lasciato «morire per strada», come da altro noto luogo comune: chi ha bisogno di cure viene curato. Poi però gli viene presentato il conto ed è sempre un conto salatissimo, perché le prestazioni sanitarie costano molto e perché il sistema americano è complessivamente inefficiente. Se il paziente non ha un’assicurazione che possa sobbarcarsi almeno una parte dei costi, dovrà pagarli lui o lei integralmente; se i soldi non li ha, c’è sempre la possibilità di pagare a rate oppure ottenere un prestito e indebitarsi.
Non è che il sistema non abbia i suoi lati positivi: le persone sanno quanto pagano per la sanità ed entro certi limiti possono decidere di cambiare piano, di cambiare assicurazione, di spendere di meno o di più; la qualità media del servizio è buona, e i cittadini possono scegliere con una certa autonomia dove farsi curare e da chi. Per gli americani, con il loro culto della libertà e della responsabilità individuale, non c’è niente di meglio: e del resto anche in Europa gli Stati non provvedono ad altri bisogni fondamentali e insostituibili delle persone, come il cibo o la casa. I lati negativi, però, superano di molto quelli positivi. Il fatto che la polizza assicurativa sia spesso legata ai contratti di lavoro comporta che chi perde il lavoro perda contemporaneamente anche la propria polizza, che spesso copre la sua intera famiglia. Circa 25 milioni di persone negli Stati Uniti si trovano in questa co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una storia americana
  4. I. L’agnello sacrificale potrebbe riscrivere la storia
  5. II. Quella ragazzina ero io
  6. III. Una vertigine costante
  7. IV. Tolleranza zero
  8. V. «E tu chi diavolo sei?»
  9. VI. La scorsa catastrofe
  10. VII. Se avessi potuto scegliere
  11. VIII. La battaglia
  12. Ringraziamenti
  13. Copyright