Civiltà
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L'arte nel tempo

  1. 208 pagine
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Civiltà

L'arte nel tempo

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«Civiltà» è da sempre un concetto delicato, da maneggiare con cura. Una categoria ambigua, controversa, spesso definita per contrapposizione: da una parte «noi», i civilizzati, dall'altra «loro», i «barbari», vale a dire tutti quelli che non condividono i nostri valori. Anch'essi, però, hanno una loro storia da raccontare e persino una loro idea di arte. In realtà, con il termine «civiltà» dovremmo intendere una pluralità di mondi che si confrontano e dialogano fra loro attraverso il linguaggio dell'arte. E che attraverso l'arte ci parlano.

Ma di cosa parlano le opere d'arte? Secondo Mary Beard, la grande classicista di Cambridge, al cuore della creazione artistica ci sono due questioni coinvolgenti e controverse: la rappresentazione del corpo umano e la raffigurazione della divinità. Dai colossali faraoni egizi di Luxor alle ceramiche degli antichi greci, dalla statua di Afrodite ai guerrieri di terracotta sepolti insieme al primo imperatore della Cina, la figura umana è la chiave per comprendere non solo la rappresentazione del potere e la definizione dei ruoli sociali, ma anche la sessualità, l'erotismo, la virtù morale e politica, i valori di una comunità. Al punto che una particolare rappresentazione del corpo, risalente alla Grecia classica, ha contribuito a fissare i canoni della bellezza e della perfezione formale con cui per secoli l'Occidente ha valutato le altre culture. La seconda questione riguarda invece la raffigurazione visiva del sacro, un dilemma che tutte le religioni - spesso in bilico tra vanità idolatra e furore iconoclasta - hanno dovuto affrontare, giungendo a soluzioni superbe e affascinanti, come testimoniano lo splendore delle immagini musive della basilica di San Vitale a Ravenna, la Moschea Blu di Istanbul o le pitture rupestri delle grotte di Ajanta, che ritraggono il Buddha in cerca dell'illuminazione.

Civiltà è un viaggio attraverso alcune delle pagine più emozionanti e meno note della storia dell'arte. Portando alla luce i tesori nascosti delle civiltà antiche, Mary Beard guarda oltre il canone tradizionale dell'immaginario occidentale e si rivela una guida preziosa per educare lo sguardo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707158
Argomento
Art
Categoria
Art General
Parte prima

COME GUARDIAMO?

Prologo

LE TESTE E I CORPI

Ci sono molti luoghi sulla terra in cui possiamo trovarci faccia a faccia con il mondo antico, ma pochi sono così sorprendenti come quell’angolo della giungla messicana che ospita una testa di pietra colossale di circa tremila anni fa. Di dimensioni così grandi da creare quasi sgomento – è alta più di due metri (con pupille di quasi trenta centimetri di diametro) e un peso di circa venti tonnellate –, è stata scolpita dagli Olmechi, la civiltà dell’America centrale più antica fra quelle a noi note. La scultura è più dettagliata di quanto non appaia a prima vista. Fra le labbra di questa testa quasi certamente maschile si intravedono i denti; gli occhi hanno le iridi; la fronte aggrottata, con le ciglia un po’ scomposte, è coronata da un elmo con un disegno elaborato. È difficile non lasciarsi emozionare da questo incontro ravvicinato con il volto di un essere proveniente da un passato tanto lontano. Nonostante la distanza temporale abissale, e sebbene si tratti soltanto di un volto di pietra, si fa fatica a non provare un senso di umanità condivisa.
Più la osserviamo, però, più la testa diventa enigmatica. Dal 1939, quando è stata portata alla luce, ha resistito a tutti i tentativi di spiegazione. Perché è così grande? Quell’uomo era un capo o forse un dio? È il ritratto di un individuo particolare o è qualcosa di meno specifico? E perché solo una testa (fra l’altro incompleta, in quanto recisa sotto il mento)? A che cosa serviva quest’immagine? È stata scolpita utilizzando solo strumenti di pietra, da un unico blocco di basalto, proveniente da oltre ottanta chilometri di distanza dal luogo del ritrovamento. La sua realizzazione ha sicuramente richiesto un’enormità di tempo e di fatica, nonché ingenti risorse umane. Ma perché?
Due teste colossali, provenienti dal sito olmeco di La Venta, in uno stile straordinariamente simile, entrambe senza collo. L’esemplare di grande effetto descritto in queste pagine è quello a destra; fra le labbra semiaperte si intravedono i denti.
Due teste colossali, provenienti dal sito olmeco di La Venta, in uno stile straordinariamente simile, entrambe senza collo. L’esemplare di grande effetto descritto in queste pagine è quello a destra; fra le labbra semiaperte si intravedono i denti.
Escluse l’arte e l’archeologia, gli Olmechi hanno lasciato di sé soltanto pochi indizi e nessun documento scritto: tracce di città, villaggi e templi, ceramiche, sculture in miniatura e almeno altre sedici teste colossali. Non sappiamo neppure quale fosse il loro vero nome: furono gli Aztechi nel XV e XVI secolo a chiamare «Olmechi» – che significa «popolo della gomma» – gli abitanti della regione, e questa è diventata una comoda etichetta con cui indicare le popolazioni preistoriche insediate in quei territori. Ma fino a che punto lo «stile olmeco» nell’arte rispecchi un popolo unificato, con una sua identità, una cultura e una politica condivise, è ancora una questione aperta. In ogni caso, al di là del mistero che li circonda, gli Olmechi ci hanno lasciato un inequivocabile promemoria: ovunque, quando l’umanità ha cominciato a produrre arte, l’ha fatto parlando di sé. Fin dai primordi, l’arte ha riguardato noi.
Questa sezione esamina le prime immagini del corpo umano realizzate in tanti luoghi della terra: dalla Grecia e dalla Roma classiche all’antico Egitto e ai primordi della Cina imperiale. L’intento è trovare una risposta ad alcune delle domande che l’enorme testa olmeca solleva con tanta chiarezza. Qual era lo scopo di queste immagini corporee? Che ruolo avevano nelle società che le creavano? Come le vedevano e le interpretavano gli uomini e le donne che vivevano in mezzo a loro? L’attenzione si concentrerà sulle persone che guardavano le immagini non meno che sugli artisti che le realizzavano. E questo accadrà non soltanto per il passato: uno degli obiettivi di questo libro è mostrare come sia stato possibile che una particolare rappresentazione del corpo, risalente direttamente alla Grecia classica, sia diventata – e sia ancora – più influente di tutte le altre nel forgiare le modalità di visione del mondo occidentale. Tornando infine agli Olmechi, vedremo che il modo in cui guardiamo può offuscare o addirittura distorcere la comprensione delle civiltà che non appartengono al nostro mondo.
Ma prima, a migliaia di chilometri dalla giungla messicana e quasi mille anni dopo, prepariamoci ad assistere alla visita di un imperatore romano nell’antico Egitto.

LA STATUA CHE CANTA

Nel mese di novembre del 130 d.C. l’imperatore Adriano arrivò con il suo seguito nella città egizia di Tebe, l’attuale Luxor, a circa ottocento chilometri dalla costa mediterranea. Il corteo imperiale – non soltanto Adriano e la moglie Sabina, ma presumibilmente un intero seguito di servitori e schiavi, consiglieri e confidenti, personale domestico e guardie del corpo e un numero imprecisato di cortigiani – era in viaggio, per terra e per acqua, da mesi. Pare che Adriano, il più solerte ed entusiasta viaggiatore fra tutti gli imperatori romani, sia andato ovunque, in parte da turista curioso, in parte da pellegrino devoto e in parte da sovrano astuto, desideroso di controllare quanto succedeva nei suoi domini. Quel giorno l’atmosfera intorno all’imperatore doveva essere un po’ tesa, perché appena qualche settimana prima era scomparso il suo grande amore: non la moglie Sabina ma il giovane Antinoo, che faceva anch’egli parte del corteo imperiale, annegato misteriosamente nelle acque del Nilo. Omicidio, suicidio o strano rituale sacrificale sono fra le ipotesi suggerite.
Ma né la tragedia personale né i sensi di colpa riuscirono a distogliere Adriano dalla visita a uno dei monumenti più famosi d’Egitto, una delle massime attrazioni turistiche di tutto il mondo antico: le due gigantesche statue del faraone Amenofi III (ventuno metri d’altezza), erette nel XIV secolo a.C. e poste a guardia della sua tomba. Ai tempi di Adriano, ossia quasi millecinquecento anni dopo, il loro legame con il faraone era andato quasi interamente perduto, tanto che una delle due sculture era ormai considerata la statua del mitico re egizio Memnone, figlio di Eos, dea dell’aurora, che, secondo il mito, aveva combattuto a fianco dei Troiani durante la guerra contro i Greci ed era stato ucciso da Achille. Il colosso richiamava i turisti romani non tanto per la sua mole straordinaria quanto per un’altra caratteristica più sorprendente: cantava. Se si era fortunati e si arrivava al mattino presto, si poteva provare la meraviglia di ascoltare il grido di Memnone, che salutava la madre allo spuntare dell’alba. Quel grido, disse un antico visitatore un po’ cinico, assomigliava al suono di una lira con una corda rotta.
Questo bassorilievo in marmo di Antinoo, con una ghirlanda in mano, pare sia stato ritrovato nella villa di Adriano a Tivoli, alle porte di Roma, nel 1753, e sarebbe stato commissionato dall’imperatore stesso in ricordo del giovane amato. Alcuni archeologi, però, trovano l’immagine, con il suo erotismo soft, troppo bella per essere vera e ipotizzano che sia un falso o il risultato di un restauro molto creativo.
Questo bassorilievo in marmo di Antinoo, con una ghirlanda in mano, pare sia stato ritrovato nella villa di Adriano a Tivoli, alle porte di Roma, nel 1753, e sarebbe stato commissionato dall’imperatore stesso in ricordo del giovane amato. Alcuni archeologi, però, trovano l’immagine, con il suo erotismo soft, troppo bella per essere vera e ipotizzano che sia un falso o il risultato di un restauro molto creativo.
Quale fosse di preciso la fonte di quel canto resta un mistero. Gli scettici sospettavano che si trattasse di uno scherzo; che qualche ragazzo, nascosto dietro il monumento, strimpellasse un vecchio strumento malandato. La teoria che prevale oggi ha carattere più scientifico: al mattino, quando il sole la scaldava e l’asciugava, la statua, che era stata danneggiata da un terremoto, emetteva un sibilo attraverso le fenditure. Certo è che, dopo gli importanti lavori di ristrutturazione eseguiti dai Romani, Memnone smise di cantare. Ma anche quando era ancora in gran forma, non è detto che cantasse tutti i giorni; se succedeva, però, era di buon auspicio. Durante la visita di Adriano, il primo giorno Memnone rimase risolutamente muto: un vero disastro per le relazioni pubbliche, ma un chiaro indizio che a produrre il suono non era qualcosa di così prevedibile e manipolabile come «qualche ragazzo nascosto» dietro il colosso.
La notizia di quella prima mattina così sfortunata ci è giunta perché un personaggio al seguito di Adriano mise in versi l’accaduto. L’autrice era una dama d’alto rango, Giulia Balbilla: cortigiana, principessa mediorientale e sorella di Filopappo, il cui mausoleo, sulla collina che ne porta il nome, è ancora uno dei monumenti più noti di Atene. I versi, oltre cinquanta in lingua greca, suddivisi in quattro composizioni, furono incisi sul piede e sulla gamba sinistra della statua, e sono ancora visibili e leggibili insieme a molti altri, tributati a Memnone e ai suoi poteri, dai viaggiatori antichi. Non è però il caso di immaginare che Balbilla o altri turisti – poeti, di solito danarosi – si arrampicassero sulla statua e, scalpello in mano, vi incidessero i loro versi. È molto più probabile che li scrivessero su papiro e li consegnassero a qualche funzionario o artigiano locale, il quale, dietro pagamento, trovava uno spazio vuoto su quella gamba, che nei primi anni del II secolo d.C. doveva essere già piuttosto gremita, ed eseguiva il compito. I versi di Balbilla non sono di qualità letteraria eccelsa («alcuni sono atroci» ha detto con brutale sincerità un critico moderno), ma sono i graffiti più straordinari lasciati dalle élite, quasi un diario dell’esperienza della visita di Adriano a Memnone, e sono una testimonianza oculare delle sensazioni che il monumento suscitava nei visitatori. Balbilla riesce a inventare una scusa lusinghiera per spiegare il silenzio iniziale della statua. Nella poesia Quando, nel primo giorno, non sentimmo Memnone, scrive (con il suo tipico stile impacciato e pesante):
Nelle pagine seguenti: I «colossi di Memnone» (a destra, la statua che canta).
Nelle pagine seguenti: I «colossi di Memnone» (a destra, la statua che canta).
Mi è stato concesso di salire sul piede della statua, come sicuramente facevano tanti secoli fa gli scribi, pagati per incidervi le impressioni dei turisti, meravigliati o meno dal canto miracoloso.
Mi è stato concesso di salire sul piede della statua, come sicuramente facevano tanti secoli fa gli scribi, pagati per incidervi le impressioni dei turisti, meravigliati o meno dal canto miracoloso.
A destra: Questa sezione del piede di Memnone (la fenditura verticale è visibile anche nella fotografia in alto) dà un’idea abbastanza precisa della moltitudine di graffiti (per lo più brevi composizioni in greco) che riempivano ogni centimetro di «pelle» della statua. All’estrema sinistra si trova un’altra composizione di Giulia Balbilla: «Io, Balbilla, ho sentito attraverso la pietra che parla la voce divina di Memnone…».
A destra: Questa sezione del piede di Memnone (la fenditura verticale è visibile anche nella fotografia in alto) dà un’idea abbastanza precisa della moltitudine di graffiti (per lo più brevi composizioni in greco) che riempivano ogni centimetro di «pelle» della statua. All’estrema sinistra si trova un’altra composizione di Giulia Balbilla: «Io, Balbilla, ho sentito attraverso la pietra che parla la voce divina di Memnone…».
Ieri Memnone accolse in silenzio lo sposo,
perché di nuovo tornasse la bella Sabina,
infatti il bell’aspetto della mia regina ti dà gioia …
Quando finalmente un’altra mattina, a un’ora più tarda, Adriano sente cantare Memnone, il tono di Balbilla si fa trionfale. Quel suono è simile al «rintocco del bronzo», non a una lira con le corde rotte, e i gridi sono tre, non più uno come al solito, segno del favore speciale che gli dèi riservano all’imperatore. Poi la poetessa si spinge al punto di predire che Memnone vivrà in eterno: «Io non penso che questa tua statua possa perire». Sono certa che sarebbe felice di sapere che è ancora al suo posto.
C’è qualcosa di toccante nel poter seguire, quasi duemila anni dopo, le orme del corteo di Adriano e condividerne lo sguardo, anche se purtroppo non possiamo più sentire il canto di Memnone. Ma la storia contiene un elemento d’importanza anche maggiore: ci tramanda uno dei modi in cui gli antichi interpretavano le statue e le immagini umane dipinte, viste non come opere d’arte passive, bensì come agenti con un ruolo dinamico nella vita di chi le osservava. Che il suo canto fosse una forma di pubblicità, un imbroglio o un miracolo naturale, Memnone ci ricorda inequivocabilmente che spesso le immagini agivano. I versi di Giulia Balbilla, in particolare, ci dicono che la storia dell’arte non è soltanto una vicenda di artisti, di uomini e donne che dipingevano o scolpivano. È anche la storia di persone che, come lei, guardavano e interpretavano quello che vedevano, ed è la storia dei modi mutevoli in cui questo avveniva.
Per capire davvero le immagini del corpo è indispensabile reintrodurre nel quadro l’osservatore. E non c’è luogo migliore per farlo di un altro sito del mondo antico, anch’esso fra i prediletti dell’imperatore Adriano, che spesso vi profondeva denaro e altrettanto spesso vi si recava in visita. Si tratta, ovviamente, di Atene, di cui possiamo esplorare la cultura molto da vicino e quasi dall’interno, grazie alle migliaia di immagini e ai milioni di parole – fra poesia, prosa, teorie scientifiche e speculazione filosofica – che gli antichi Ateniesi ci hanno lasciato.

I CORPI GRECI

A partire dal 700 a.C. circa, vale a dire settecento anni dopo la costruzione dei grandi colossi egizi, gli Ateniesi si imbarcarono in uno degli esperimenti di vita urbana più radicali. Atene non è mai stata una città grande nel senso attuale del termine (forse erano appena trentamila i cittadini di sesso maschile che partecipavano alla vita democratica alla metà del V secolo a.C.), ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CIVILTÀ
  4. Introduzione. Le Civiltà e la barbarie
  5. Parte prima. COME GUARDIAMO?
  6. Parte seconda. L’OCCHIO DELLA FEDE
  7. Postfazione. La civiltà e le civiltà
  8. Cronologia
  9. Ulteriori letture e riferimenti
  10. I siti e le località più importanti
  11. Ringraziamenti
  12. Fonti iconografiche
  13. Copyright