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L'atlante delle nuvole

  1. 624 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'atlante delle nuvole

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Informazioni sul libro

Tutto inizia - o finisce - con un giovane notaio americano dell'Ottocento in viaggio tra le isole del Pacifico, alla scoperta delle popolazioni indigene. Poi via via si risalgono gli anni e i continenti e si incontrano nuovi personaggi: un giovane musicista in cerca della composizione perfetta nell'Europa degli anni Trenta; una coraggiosa giornalista californiana che, nel 1975, indaga su una centrale nucleare; un editore britannico in fuga da un gruppo di gangster. La narrazione prosegue fino ad arrivare a un prossimo futuro, in cui Seul sarà sommersa dalle acque e popolata di cloni, e oltre, all'alba di un nuovo mondo post-apocalittico. Come in una matrioska, ogni storia ne contiene un'altra, le vite si rincorrono, i destini si rispecchiano, le anime si incontrano.

Finalista al Booker Prize, al Nebula e all'Arthur C. Clarke, diventato nel 2012 un film di culto, Cloud Atlas - L'atlante delle nuvole è un libro unico nel suo genere, un romanzo a incastro nel quale sei linee narrative collegate in modi imprevedibili generano altrettanti mondi, per esplorare le diverse sfaccettature della letteratura, e dell'animo umano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835708483
Argomento
Literature

Mezze vite

Il primo caso di Luisa Rey

1

Rufus Sixsmith si sporge dal balcone e calcola la velocità del proprio corpo quando questo si schianterà sul marciapiede, azzerando i suoi dilemmi. Un telefono squilla nella stanza buia. Sixsmith non ha il coraggio di rispondere. Musica disco rimbomba nell’appartamento a fianco dove impazza una festa, e Sixsmith si sente più vecchio dei suoi sessantasei anni. Lo smog oscura le stelle, ma in direzione nord e sud, lungo la costa, scintillano le mille luci di Buenas Yerbas. A ovest, l’eternità del Pacifico. A est, il nostro denudato, eroico, funesto, venerato, assetato e frenetico continente americano.
Una giovane donna esce dalla festa dei vicini e si sporge sul balcone lì accanto. Ha i capelli corti, l’abito viola è elegante, ma ha un’aria terribilmente triste e sola. “Proponile un suicidio combinato, perché no?” Sixsmith non dice sul serio. Non ha nemmeno intenzione di saltare, non finché resta viva in lui una scintilla d’umorismo. “E poi, una disgrazia qualunque è esattamente quello che vorrebbero Grimaldi, Napier e quegli altri delinquenti rileccati.” La sirena di un’ambulanza fende l’incessante frastuono del traffico. Sixsmith si trascina dentro, dove il telefono muore improvvisamente. Si versa un altro generoso bicchiere di vermut dal minibar del suo ospite, ora assente. Infila le mani nel portaghiaccio e si strofina la faccia. “Esci di qui e vai a telefonare a Megan, è l’unica persona amica che ti rimane.” Lui sa benissimo che non lo farà. “Non puoi trascinarla in questo delirio mortale.” Il ritmo ossessivo della musica gli rimbomba nelle tempie, ma è un appartamento in prestito e non gli sembra opportuno protestare. “Buenas Yerbas non è mica Cambridge. A ogni modo, ti stai nascondendo.” Il vento fa sbattere la porta del balcone. Impaurito, Sixsmith rovescia mezzo vermut. “No, vecchio stupido, non è stato un colpo di pistola.”
Asciuga la chiazza con uno strofinaccio da cucina, accende la tv con il volume abbassato e cambia canale in cerca di M*A*S*H. “Deve esserci da qualche parte. Basta cercare.”

2

Luisa Rey sente un rumore sul balcone del vicino. «Chi c’è?» “Nessuno.” Lo stomaco le dice di posare l’acqua tonica. “Ti serviva un cesso, non una boccata d’aria,” ma non ha la forza di attraversare la bolgia e, poi, “è troppo tardi” – vomita lungo la facciata del palazzo: una volta, due volte, uno sprazzo di pollo viscido, una terza volta. “Questa” si stropiccia gli occhi “è la terza cosa più schifosa che ho mai fatto in vita mia.” Si pulisce la bocca, sputa gli ultimi tocchetti in un vaso di fiori dietro un paravento. “Ti stai rovinando da sola.” Si asciuga le labbra con un fazzoletto e cerca una mentina nella borsa. “Vattene a casa e inventa di sana pianta quelle trecento parole di merda. Tanto la gente guarda solo le foto.”
Un uomo troppo vecchio per andare in giro in pantaloni di pelle, torso nudo e gilet zebrato esce sul balcone. «Luiiisaa!» La barba bionda tagliata con cura e una croce egiziana di giada e pietra di luna intorno al collo. «Ehilà!»
Luisa si chiede se la puzza possa metterlo ko, ma lui è troppo brillo per accorgersene. «Richard» dice lei.
«Sei uscita ad ammirare le stelle, eh? Scherzo. Bix ha portato due etti di neve, cazzo. È fuori di testa. Ehi, te l’ho detto nell’intervista? Sto provando il nome “Ganja”. Maharaj Aja dice che Richard contrasta con il mio io ayurvedico.»
«Chi lo dice?!»
«Il mio guru, Luiiisaa, il mio guru! È alla sua ultima reincarnazione, prima del…» schiocca le dita, a simboleggiare il Nirvana. «Vieni a un incontro. Di solito c’è una lista d’attesa infinita, sai, ma noi discepoli della croce di giada otteniamo subito un incontro privato. Voglio dire, che senso ha andare al college e seguire tutta quella merda se con Maharaj Aja puoi imparare tutto su… tutto.» Inquadra la luna con le dita. «Le parole sono così… formali… Lo spazio… invece… capisci, no? È così totale. Fai un tiro? Acapulco Gold. Me l’ha dato Bix.» Si avvicina con quell’atteggiamento che le donne sanno subito riconoscere. «Ehi, Lu, che ne dici di sballarci assieme dopo la festa. Io e te da soli, a casa mia, eh? Ti beccheresti un’intervista davvero esclusiva. Potrei anche dedicarti una canzone e inserirla nel prossimo album.»
«No grazie.»
Il musicista rock di second’ordine la guarda di traverso. «Hai le tue cose, vero? Che ne dici della settimana prossima? Pensavo che le tipe dei media andassero avanti a pillola.»
«Bix ti vende anche le frasi per rimorchiare?»
Lui ridacchia. «Ehi, Bix ti ha raccontato qualcosa?»
«Richard, voglio essere chiara: salterei giù dal balcone piuttosto che venire a letto con te, ora o tra un mese. Sul serio.»
«Wow!» Ritrae la mano come punto. «Ma sentila! Chi cazzo ti credi di essere? Joni Mitchell? Sei solo una cazzo di reporter di gossip per una rivista che non legge nessuno!»

3

L’ascensore si chiude proprio quando Luisa Rey sta per entrare, ma dall’interno una persona ne blocca le porte con il bastone da passeggio. «Grazie» dice Luisa all’anziano signore. «Fa piacere vedere che esiste ancora la cavalleria.»
L’uomo annuisce, serio in volto.
“Diavolo,” pensa Luisa “sembra che gli hanno appena diagnosticato una settimana di vita.”
Luisa schiaccia la T del piano terra. Il vecchio ascensore inizia la sua discesa. Una lancetta lenta conta i piani. Il motore cigola, i cavi scricchiolano, ma tra il decimo e il nono piano scoppia un gat-gat-gat-gat che sfocia poi in un fzzz-zzz-zz-z. Luisa e Sixsmith cadono a terra. La luce va e viene, prima di stabilizzarsi su un ronzante color seppia.
«Tutto bene? Riesce ad alzarsi?»
L’anziano a terra tenta di ricomporsi. «Niente ossa rotte, credo. Ma preferisco restare seduto, grazie.» Il suo accento inglese d’altri tempi ricorda a Luisa la tigre del Libro della giungla. «La luce potrebbe tornare all’improvviso.»
«Cristo» mormora Luisa. «Un blackout. Degna conclusione di questa splendida giornata.» Schiaccia il pulsante d’emergenza. Niente. Schiaccia l’interfono, e grida: «Ehi! C’è nessuno?». Un fischio elettrostatico. «C’è un’emergenza qui! Riuscite a sentirci?»
Luisa e l’anziano si guardano con la coda dell’occhio, tendono l’orecchio.
Nessuna risposta. Solo deboli suoni sottomarini.
Luisa ispeziona il soffitto. «Deve esserci per forza un’apertura…» Non c’è. Solleva la moquette: un pavimento d’acciaio. «Giusto nei film, mi sa.»
«È ancora contenta» domanda l’uomo anziano «che esista la cavalleria?»
Luisa cerca di sorridere, appena. «Forse ci toccherà restare qui un bel po’. Il blackout del mese scorso è durato sette ore.» “Be’, perlomeno non sono capitata con uno psicopatico, un claustrofobico o con Richard Ganga.”

4

Sessanta minuti dopo, Rufus Sixsmith siede nell’angolo e si tampona la fronte con il fazzoletto. «Mi sono abbonato a “Illustrated Planet” nel 1967 per leggere i resoconti dal Vietnam di suo padre. E, come me, hanno fatto migliaia di persone. Lester Rey è stato uno dei quattro o cinque giornalisti capaci di raccontare la guerra dal punto di vista dell’Asia, quindi sono curioso di sapere com’è che un poliziotto sia diventato uno dei migliori corrispondenti della sua generazione.»
«Se proprio ci tiene.» La vicenda si raffina ogni volta che lei la racconta di nuovo. «Papà era entrato nella polizia di Buenas Yerbas poche settimane prima di Pearl Harbor. E così ha trascorso la guerra qui anziché nell’Oceano come suo fratello Howie, saltato poi in aria su una mina giapponese mentre giocava a beach-volley nelle isole Salomone. Ben presto, è risultato che papà era un caso da decimo distretto ed è là che l’hanno sbattuto a lavorare. C’è un distretto del genere in ogni città del paese: è una specie di recinto, dove mandano tutti i poliziotti onesti che non si lasciano corrompere e che non sono disposti a chiudere un occhio. A ogni modo, la sera del V-Day, Buenas Yerbas era tutta in festa e, come lei può ben immaginare, i poliziotti scarseggiavano. Papà riceve una chiamata per una rapina giù al molo Silvaplana, una specie di terra di nessuno tra il decimo distretto, la capitaneria di porto di Buenas Yerbas e il quartiere Spinoza. Chi abbia avvertito la polizia e perché – forse una soffiata, o qualcuno che faceva il doppio gioco, o magari un errore, uno scherzo di cattivo gusto finito malissimo – non si è mai saputo, ma papà e il suo collega, un tizio di nome Nat Wakefield, partono in auto a dare un’occhiata. Parcheggiano tra due container, spengono il motore, proseguono a piedi e vedono una ventina di uomini che caricano le casse di un magazzino su un camion corazzato. C’era poca luce, ma non sembravano portuali e non indossavano nemmeno l’uniforme militare. Wakefield dice a papà di andare a chiamare rinforzi via radio. Non appena papà raggiunge l’auto, arriva una chiamata in cui viene revocato l’ordine di verifica sulla rapina. Papà racconta quello che ha visto, ma l’ordine viene ripetuto, così lui torna di corsa al magazzino, giusto in tempo per vedere il collega illuminato da una torcia e ucciso con sei colpi di pistola nella schiena. Papà mantiene il sangue freddo, si precipita verso l’auto e riesce a lanciare un codice 8 – un SOS – prima che l’auto venga crivellata di proiettili. È circondato da ogni lato, eccetto dalla parte dei dock, così si lancia con l’auto giù dalla banchina in un misto di benzina, immondizia, acqua di fogna e mare. Nuota sotto la banchina – all’epoca, il molo Silvaplana era una struttura d’acciaio, una specie di gigantesca passerella, diversa dalla penisola di cemento che è oggi – e risale da una scaletta di servizio, zuppo, senza una scarpa e con la rivoltella fuori uso. Non può fare altro che stare a guardare gli uomini che finiscono di caricare. All’improvviso, spuntano un paio di auto della polizia del distretto Spinoza. Prima che papà possa attraversare lo spiazzo per avvertire i poliziotti, scoppia un disperato conflitto a fuoco che vede la polizia in minoranza: i banditi bersagliano le due auto a colpi di mitragliatrice. Una viene messa fuori uso. Il camion parte, i banditi salgono a bordo e lasciano il porto, lanciando un paio di granate dal retro del camion. Chissà se l’hanno fatto con l’intento di uccidere o solo per scoraggiare i più valorosi. Fatto sta che una ha beccato in pieno mio padre, trasformandolo in un portaspilli umano. Si è svegliato due giorni dopo in ospedale senza l’occhio sinistro. I giornali hanno parlato dell’incidente come di un raid improvvisato gestito da una banda di ladri che hanno avuto fortuna. Gli uomini del decimo distretto erano convinti che un gruppo coinvolto nel traffico d’armi durante la guerra avesse deciso di spostare le giacenze ora che la guerra era finita, visto che i controlli sarebbero stati più severi. Ci furono pressioni per indagini più approfondite sulla sparatoria di Silvaplana: tre poliziotti uccisi facevano ancora scalpore nel 1945, ma l’ufficio del sindaco si oppose. Tragga le sue conclusioni. Anche papà lo ha fatto e loro hanno incrinato la sua fiducia nella giustizia. Quando lasciò l’ospedale, otto mesi più tardi, aveva già concluso un corso da giornalista per corrispondenza.»
«Santo cielo» dice Sixsmith.
«Il resto forse lo sa già. Corrispondente dalla Corea per “Illustrated Planet”, poi reporter di punta dall’America Latina per “West Coast Herald”. È stato in Vietnam per la battaglia di Ap Bac e ha scelto di restare a Saigon fino al primo collasso nel marzo scorso. È un miracolo che il matrimonio dei miei sia durato tutti questi anni – sa, il periodo più lungo che ho trascorso con lui è stato da aprile a luglio di quest’anno, in clinica.» Luisa resta in silenzio. «Mi manca, Rufus, costantemente. Continuo a scordarmi che non c’è più. Mi viene sempre da pensare che sia in missione chissà dove, e che debba tornare da un momento all’altro.»
«Sarà stato orgoglioso di lei. Il fatto di seguire le sue orme…»
«Oh, Luisa Rey non è Lester Rey. Ho buttato via un sacco di anni a fare la ribelle, la libera, a fingermi poetessa e a lavorare in una libreria di Engels Street. Non ci credeva nessuno alle mie pose, la mia poesia era così “inutile da non essere nemmeno brutta” – ha detto Lawrence Ferlinghetti – e la libreria ha chiuso. Quindi sono ancora solo una scribacchina.» Luisa si stropiccia gli occhi stanchi e ripensa all’ultima frecciata di Richard Ganga. «Nessun articolo pluripremiato dalle zone di guerra. Avevo grandi speranze quando sono passata a “Spyglass”, ma scrivere stupidi gossip sui party delle celebrità è per ora la cosa che più si avvicina alla vocazione di mio padre.»
«Ah, ma questi stupidi gossip sono scritti bene?»
«Oh, sono scritti a meraviglia.»
«Allora non deve ancora fasciarsi la testa. Mi perdoni se porto come esempio la mia esperienza personale, ma lei non ha assolutamente idea di che cosa sia una vita spesa male.»

5

«Hitchcock adora le luci della ribalta» dice Luisa; la pressione sulla vescica si fa problematica. «Ma odia le interviste. Non ha risposto alle mie domande perché non le ha nemmeno sentite. I suoi film migliori, ha detto, sono delle montagne russe che fanno morire di paura chi ci sale sopra, ma alla fine ti fanno scendere ridendo e con la voglia di fare un altro giro. Ho chiesto al maestro se il segreto della finta paura sia la separazione, il contenimento: finché il Bates Motel è isolato dal resto del mondo vogliamo sbirciare al suo interno come nella teca di uno scorpione. Ma un film che ritrae il mondo intero come un gigantesco Bates Motel, be’, allora… è roba da Buchloe, da distopia, da depressione. Siamo disposti a sfiorare un universo di predatori, amorale e senza Dio – ma solo con la punta del piede. La risposta di Hitchcock è stata» – Luisa ne fa un’imitazione piuttosto riuscita – «“Sono un regista di Hollywood, signorina, non l’Oracolo di Tebe.” Gli ho domandato perché Buenas Yerbas non comparisse mai nei suoi film. Hitchcock ha risposto: “Questa città unisce il peggio di San Francisco e il peggio di Los Angeles. È una città inutile”. Pronu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. Tratto dal romanzo di
  4. CLOUD ATLAS
  5. Il diario dal Pacifico di Adam Ewing
  6. Lettere da Zedelghem
  7. Mezze vite. Il primo caso di Luisa Rey
  8. La tremenda ordalia di Timothy Cavendish
  9. Il Verbo di Sonmi-451
  10. Sloosha Crossing e tutto il resto
  11. Il Verbo di Sonmi-451
  12. La tremenda ordalia di Timothy Cavendish
  13. Mezze vite. Il primo caso di Luisa Rey
  14. Lettere da Zedelghem
  15. Il diario dal Pacifico di Adam Ewing
  16. Ringraziamenti
  17. Copyright