Le porte del peccato
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Le porte del peccato

I sette vizi capitali

  1. 308 pagine
  2. Italian
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Le porte del peccato

I sette vizi capitali

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Fonte di peccato e di condanna morale per le religioni, all'origine di ogni "cattivo piacere" per i moralisti, il vizio ha suscitato in ogni epoca l'interesse dell'etica, dell'arte e della filosofia. Ma che cos'è veramente il vizio e come mai da sempre ci lusinga, ci attrae e ci seduce molto più della virtù? Gianfranco Ravasi ci accompagna in un percorso affascinante e originale alla scoperta dei "sette vizi capitali" - superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e pigrizia -, dimostrandoci come siano tratti permanenti e sempre attuali della realtà umana. Una ricostruzione ricca di citazioni colte e aneddoti sottili, in cui "ogni vizio ha la sua trattazione specifica, secondo le sue tipologie e il diverso rilievo che occupa nella gerarchia dell'immoralità", che può anche risultare "un sano esercizio di autocoscienza: si potrà dire di conoscere bene se stessi quando si scopriranno in sé più difetti di quanti gli altri riescano a vedere".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835708131
I

I vizi capitali

I vizi ci aspettano nel corso della vita come ospiti dai quali prima o poi bisogna passare. Dubito che l’esperienza servirebbe a farceli evitare nel caso ci fosse concesso di fare due volte la stessa strada.
FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD, Massime
È difficile sottrarci all’accusa che ci rivolge lo scrittore moralista del Seicento in una delle sue circa cinquecento Riflessioni o sentenze e massime morali (tale era il titolo completo della sua raccolta pubblicata nel 1664), quella che abbiamo posto in apertura al nostro itinerario nell’orizzonte infuocato dei sette vizi capitali. Con molta sincerità e realismo dobbiamo riconoscere che nell’elenco di peccati che fra poco perlustreremo ci sono i lineamenti della fisionomia etica di ogni persona, naturalmente con le opportune variazioni e i differenti dosaggi. Quando si è di fronte alla strada comoda e larga del vizio, abbellita di luci e colori e segnata da cartelli invitanti, girare verso il sentiero di altura, netto e ripido, della virtù richiede una decisione gravosa.

La legge di Newton dell’anima

L’immagine delle due vie, simbolo della libera scelta, fa parte di tutte le culture. La si trova nell’Israele biblico: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene ma anche la morte e il male» (Dt 30,15). Riappare con una suggestiva variante nelle parole del Discorso della montagna di Gesù: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è, invece, la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono coloro che la imboccano!» (Mt 7,13-14). Ma anche il poeta greco Esiodo nel VII secolo a.C. ammoniva che «facile e agevole è scegliere il male, una via piana a noi molto vicina. Gli dei hanno imposto il sudore per la virtù: lunga e difficile è, infatti, la sua strada e, all’inizio, aspra. Quando, però, si raggiunge la vetta, diventa agevole ciò che prima era arduo».
Non per nulla era stata proprio la civiltà classica a creare il mito di Ercole al crocevia (per esempio, Senofonte nei suoi Memorabili 2, 1, 22-23): a un incrocio si presentano due donne i cui nomi sono un programma, Aretè, Virtù, e Kakía, Vizio, Malizia; starà all’eroe incamminarsi lungo la via percorsa dalla Virtù. Il regista americano Woody Allen, in un suo scritto ironico, Effetti collaterali (1980), scherzava sul fatto che ben più fitta è la folla di chi preferisce inoltrarsi sul viale del vizio, nella convinzione che «a essere buoni si dorme meglio, ma i cattivi da svegli si divertono di più». Sarà anche per una certa retorica magniloquente, ma la tradizione moralistica ha fatto di tutto per rendere poco attraente la virtù, trasformandola in una figura pedante, altezzosa, noiosa, saccente. Ha avuto, così, mano libera il vizio che, comunque, già di suo ha la capacità di mettere in azione le risorse dell’adescamento, lusingando, seducendo, blandendo anche secondo i canoni della pubblicità.
«Il male, al contrario del bene» osservava lo scrittore pessimista Emile Cioran, «ha il duplice privilegio di essere affascinante e contagioso.» Noi stessi, trattando il bene nel saggio Ritorno alle virtù, ce la siamo cavata con poco più di un centinaio di pagine. Ora, invece, il vizio ci costringerà ad attardarci ben più a lungo, mobilitando un vasto repertorio di temi, immagini, tonalità, autori e testi. La perversione è, sì, più complicata di sua natura, ma sa essere più convincente e accattivante, più pittoresca e meno austera rispetto alla moralità, anche perché, come diceva Honoré de Balzac nel suo più noto romanzo, Papà Goriot (1835), «i vizi sono vasti sentimenti concentrati» ove, come vedremo, si trova di tutto, persino la virtù travestita o deformata.
Certo è che «si può notare in modo costante che gli uomini, quando iniziano a decadere, sembrano obbedire alla legge di Newton: precipitano verso l’abiezione con rapidità crescente». Queste ultime sono parole desunte dall’opera Il libro Le Grand (1826) di Heinrich Heine, importante poeta tedesco. Esse coniano una «legge di Newton» dell’anima: quando si comincia a cedere al vizio, sia pure lievemente, ricorrendo a una scusante, non è che ci si fermi al primo girone. Il varco aperto si allarga e, spesso insensibilmente, si arriva al punto di non ritorno, quando dal peccato occasionale si passa al vizio stabile. Quei facili ma «tortuosi e obliqui sentieri» conducono «verso il regno delle ombre da cui non si fa ritorno», come ammoniva l’antico sapiente biblico (Prv 2,15.18-19). Forse, come diceva il titolo del film di Luigi Comencini del 1974, si esclama: «Mio Dio, come sono caduta in basso!», ma poi ci si rassegna, sguazzando nelle acque melmose della corruzione.
Eppure, anche in ambito etico, non è tutto oro quel che luccica: esiste una fatica del vizio e non solo a livello morale o psicologico di rimorso e di senso di colpa. C’è tutta una tradizione letteraria che leva l’indice ammonitore; a partire da uno che della sfrenatezza aveva fatto la sua divisa, il poeta quattrocentesco François Villon, il quale nella sua Ballata in francese antico proclamava: «Pour un plaisir, mille douleurs!». Uno a mille è, dunque, l’equazione che connette piacere a dolore, perché, come imparavamo a scuola studiando La quiete dopo la tempesta (1829) di Leopardi, è il «piacer figlio d’affanno», e George Gordon Byron, in quel Don Giovanni (1819-24) che avremo occasione di riprendere in mano, non esitava a ricordare che «non esiste moralista più severo del piacere» e formulava un’altra curiosa equazione: «Il piacere è peccato e qualche volta il peccato è un piacere».
Il sano realismo, che prima abbiamo evocato per giustificare il maggior impatto emotivo che suscita il vizio, ci costringe allora a una considerazione antitetica. Per evitare di marcarla troppo moralisticamente formulandola noi stessi, la affidiamo a due voci al di sopra di ogni sospetto apologetico. La scrittrice francese Colette in uno dei romanzi della serie Claudine (apparsi fra il 1900 e il 1903), e precisamente in Claudine en ménage, dichiarava senza mezzi termini: «Il vizio è il male che si fa senza piacere». Ed Ennio Flaiano, autore mordace e tutt’altro che bacchettone, nel suo Diario notturno (1956) annotava: «Certi vizi sono più noiosi della stessa virtù. Soltanto per questo la virtù spesso trionfa».

Abitudine inveterata e pratica costante

«Vitiis nemo sine nascitur»: stando alle Satire (1, 3, 68) di Orazio, nessuno nasce senza vizi, tesi accolta con entusiasmo da san Girolamo e dai pensatori medievali, che evidentemente rimandavano alla dottrina del peccato originale. La tesi sarà rielaborata a suo modo da Tacito, il quale nelle Storie (4, 74, 2), ribadiva: «Vitia erunt, donec homines», finché avremo sulla faccia della terra uomini e donne, i vizi non mancheranno mai. Come dice il proverbio, «Ogni farina ha la sua crusca» e nessuno, «dal più vecchio all’ultimo», può afferrare una pietra per colpire l’adultera, raccogliendo l’invito di Gesù: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7.9). Il tema del vizio deve, dunque, interessare tutti, in teoria e nella pratica. Noi, prima di mostrare i vari volti che esso riesce ad assumere, cercheremo di individuarne il fondo comune, il genere permanente, la struttura costante.
Cominciamo da un tentativo di definizione, a partire dal nome che, in greco, di fatto era ed è assente, tant’è vero che si ricorreva a kakía o kakótes (termini che di per sé significano semplicemente cattiveria, malvagità, male) o, nella tradizione cristiana, a loghismói, pensieri, ragionamenti perversi. L’italiano, l’inglese e il francese attingono al latino vitium che genera le voci «vizio» e «vice». Quale sia l’etimologia è difficile dire, come ammoniscono nel loro fondamentale Dictionnaire étymologique de la langue latine (1931 e 19944) due importanti latinisti, Alfred Ernout e Antoine Meillet, che sbrigativamente concludono: «L’origine e la storia della parola sono troppo oscure perché si possa determinare con certezza il senso primitivo». Nel tedesco Laster si ha un derivato del verbo lasten, gravare, per cui il vizio è un Last, un peso che opprime l’anima come un macigno. È curioso notare, però, che il nostro vocabolo «vizio» riesce a produrre una fioritura di termini non sempre negativi. Certo, ci sarà anche un «vizzo» e «avvizzito» che svelano l’esito finale di aridità, di inconsistenza, di vuoto, di polvere che l’immoralità provoca; ma di altro tenore sono derivati eleganti e aggraziati come «vezzo», «vezzoso», «vezzeggiare», «vezzeggiativo», o più decisi ed efficaci come «avvezzare», «divezzare» o «svezzare».
Si dice, però, che da «vizio» discenda anche «vituperare», verbo che con larghezza i moralisti coniugheranno proprio per condannare i vizi. Naturalmente attorno al vocabolo centrale che stiamo studiando si dispone a corona una costellazione lessicale di sinonimi come peccato, male, colpa, immoralità, perversione, depravazione, degenerazione, corruzione, perdizione, errore, sbaglio, cattiva abitudine, ma anche, in tonalità minore, difetto, mania, malvezzo, capriccio, imperfezione, pecca, neo, magagna, alterazione, scorrettezza e così via, oltre ad aggettivi più corposi e vigorosi come traviato, dissoluto, scellerato e altri ancora. A questo punto s’impone una definizione. Proviamo a cercarla nel Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (vol. 5, 1988): «Abitudine inveterata e pratica costante di ciò che è, o viene considerato, male».
Una conferma la troviamo nel Grande Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia (vol. 21, 2002), che alla voce «vizio» recita: «Abituale disposizione al male, al peccato o, genericamente in modo abietto, ad assumere abitudini e comportamenti moralmente riprovati». Cogliamo in entrambe le definizioni il germe generatore del vizio, ossia l’abitudine maligna. Il vizio, anche se parte da un atto e si esprime in atti, è una tendenza perversa di base che si impasta con la persona stessa. Per questo la letteratura morale cristiana greca amava parlare di loghismói, cioè di stato mentale operativo, oppure di pnéumata, di principi perversi in azione. Il vizio è la ripetizione non occasionale del singolo peccato, è la tendenza a compierlo in modo sistematico. Questa particolare qualità se, da un lato, non esclude la colpevolezza e la responsabilità etica, trattandosi di uno stato creato e alimentato da scelte libere, d’altro lato può introdurre in casi specifici e da vagliare di volta in volta una certa deresponsabilizzazione e, quindi, una diminuzione o anche un’assenza di colpa.
Proprio per tale dimensione di abitudinarietà, non è corretto identificare il vizio con il peccato in senso stretto: quest’ultimo è un atto cattivo singolo con le sue connotazioni proprie; l’altro è un costume acquisito, una disposizione abituale che è generata dal peccato iniziale e a sua volta genera peccati in modo costante e continuo. È più corretto, allora, conservare la dizione italiana comune dei «sette vizi capitali», rispetto alle altre lingue che adottano il termine «peccato»: les sept péchés capitaux, the seven deadly sins, die sieben Todsünden, los siete pecados capitales… Certo, il vocabolo «vizio» può assumere altre accezioni metaforiche. Così si parla di «vizio di mente» per designare uno stato di infermità mentale; in sede giuridica il termine può denotare una non conformità ai dispositivi di una legge o norma (per esempio, un «vizio di legittimità»); in ambito fisico può segnalare un’alterazione funzionale o ambientale («aria viziata»); in filosofia si parla di «circolo vizioso» quando si procede da premesse non dimostrate per approdare a una conclusione usata come argomento per dimostrare le premesse di partenza. È interessante notare – e lo ribadiremo quando entreremo nel territorio a luci rosse della lussuria – che nel linguaggio comune la parola «vizio» si è ristretta attorno alla depravazione sessuale: «vizio carnale», «vizio contro natura», «vizio solitario», «vizietto», «persona viziosa», «atti viziosi» evocano una sola dimensione, quella della colpa in ambito sessuale.

«Ci sono vizi vicini alle virtù»

Il vizio è, in sintesi, una categoria morale che denota una condotta negativa rispetto a un determinato sistema di valori, codificato a livello naturale (e quindi sulla base di un’antropologia filosofica) o a livello trascendente (qui entra in causa la morale religiosa) o in ambito sociale e comportamentale. La virtù è il suo antipodo, dato che essa è armonia con quelle norme o dominio della coscienza personale e della ragione su impulsi intimi o esterni. In entrambi i casi alla base c’è l’esercizio della libertà personale. Bisogna, però, riconoscere che esiste una lunga tradizione che ha cercato, e non a torto, un nesso o una certa continuità/discontinuità fra virtù e vizio. Avremo occasione di mostrare come una virtù impazzita, esasperata o ipocrita possa scivolare nelle paludi del vizio. È san Girolamo – il quale l’aveva desunto forse dal retore latino Quintiliano, e ripetuto più volte – che proclama: «Vicina sunt vitia virtutibus», ci sono vizi vicini alle virtù.
Infatti, le frontiere morali non sono cortine di ferro e, come diceva Seneca nelle sue Epistulae (120, 8), «ci sono vizi che confinano con le virtù». Talvolta, anzi, cercano di scimmiottarle, oppure le deformano nell’eccesso o nell’insufficienza. Il grande moralista francese Montaigne (1533-1592) nei suoi Saggi confessava di «trovare che la miglior virtù ha in sé qualche sospetto di vizio», mentre uno che proprio esemplare non era, come l’abate Giovanni Battista Casti (1724-1803) nelle sue Novelle galanti, in verità licenziose, osservava non a torto che «dentro giusti confin virtù si tiene, / se oltrepassarli vuol, vizio diviene». Non si deve, poi, dimenticare che talora accade quello che La Rochefoucauld nelle Massime già citate esprimeva con realismo, ossia la consapevolezza che la fragilità della natura umana combina in sé pregi e limiti, senza possibilità di rigide e nette distinzioni: «I vizi entrano nella composizione della virtù, come i veleni nella composizione dei rimedi. La saggezza li mescola e li tempera e se ne serve utilmente contro i mali della vita».
Nel giudizio sull’immoralità di una persona non si deve, perciò, procedere in modo categorico e farisaico. Il detto popolare secondo il quale «ogni ladrone ha la sua devozione» ha un’indubbia anima di verità. Quando Torquato Tasso fu invitato a tenere la prolusione in occasione dell’«aprirsi dell’Accademia ferrarese», nella sua città di adozione, affermò fra l’altro: «Chiaramente si raccoglie che ’l vizio, ancorché sia reo per se stesso, e d’odiosa e malvagia natura, può aver però qualche compagnia e qualche congiunzione colle cose buone e lodevoli». Non è, poi, mai mancato anche nella morale tradizionale, oltre che nella prassi giudiziaria, il ricorso alle attenuanti: esse non giustificano radicalmente il comportamento corrotto, ma ne possono ridimensionare la gravità a causa del contesto, dei condizionamenti e delle scusanti. Certo, quando nelle sue Epistulae (116, 2) dichiarava che «non c’è vizio che non abbia scusa», Seneca voleva bollare l’ipocrisia del peccatore che accampa alibi e allega giustificazioni e motivazioni a sua discolpa. Questo, però, non esclude che la gravità di una colpa possa talvolta essere ridotta e fin annullata da una serie di ragioni addotte a spiegazione di uno stato particolare, nel quale la persona era priva delle condizioni perché ci fosse piena coscienza e responsabilità. Sta di fatto, comunque, che questa rimane un’eccezione – importante, certo, per un corretto e giusto giudizio morale – ferma restando la norma permanente. Dopotutto, c’è un altro proverbio che non fa sconti: «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio».
Abbiamo, dunque, definito il vizio, ne abbiamo abbozzato la fluidità dei confini pur nella sua sostanziale identità negativa, ora dovremmo determinarne la classificazione: detto in termini più tradizionali e un po’ schematici, il numero. Il desiderio di elencazione fa parte di una primordiale aspirazione all’ordine e alla completezza. Si pensi, per esempio, che i primi papiri «scientifici» egizi, come quello denominato Anastasi, erano basati su lunghi elenchi, in cui ogni nome era una sorta di stampo definitorio che isolava e conteneva il singolo animale, vegetale o minerale a cui era assegnato. Questo procedimento valeva anche per le realtà morali. È il caso dei vizi, la cui codificazione fu appunto fissata attraverso il ricorso a un numero, il tipico settenario che, come è noto, nell’immaginario biblico e in un’antica simbologia numerologica era indizio di completezza e pienezza. A dire il vero, però, le cose in principio non andarono proprio così.

Gli otto peccati capitali «orientali»

Era nato a Vienna nel 1903, ricevette il Nobel per la medicina nel 1973 e morì in Austria nel 1989: Konrad Lorenz, psicologo e zoologo, è, come molti sanno, il fondatore dell’etologia, cioè lo studio del comportamento degli animali in libertà e del loro «imprinting» o apprendimento istintivo e primordiale. Accanto a opere di grande successo come L’anello di re Salomone (1949) e uno studio sull’aggressività, Il cosiddetto male (1963), Lorenz ha composto un interessante studio di indole socio-antropologica intitolato Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), mentre il filosofo Constantin Noica, appartato ma originale pensatore rumeno, aveva diagnosticato le Sei malattie dello spirito contemporaneo (1978). Ora, il ricorso al numero otto per elencare i vizi capitali fa parte di un’antica tradizione cristiana orientale che forse attingeva all’etica stoica, la quale enumerava quattro passioni fondamentali (tristezza, paura, invidia, piacere) e quattro vizi opposti alle virtù (irrazionalità, pigrizia, ingiustizia e intemperanza).
Sta di fatto che uno degli autori spirituali più acuti e originali del IV secolo, il monaco Evagrio Pontico, nella sua opera Praktikós, composta di cento capitoli, propose una serrata analisi degli «otto pensieri generici», in greco loghismói, termine che, come già detto, era destinato a indicare i vizi capitali, concepiti come scelte coscienti della persona. La sua lista ha impostazione «ascendente», procede cioè dal minore per ascendere al male maggiore, forse anche sulla base di una tripartizione che l’autore aveva concepito nella sua analisi della vita spirituale: il primo livello, la práxis, ossia il comportamento concreto e immediato, assorbiva i primi tre vizi; la deutéra theoría, la «riflessione secondaria» umana, contrastava i successivi tre e, infine, la theoría protéra, la «riflessione primaria», puntava contro i v...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le porte del peccato
  4. Introduzione
  5. I. I vizi capitali
  6. II. Superbia
  7. III. Avarizia
  8. IV. Lussuria
  9. V. Ira
  10. VI. Gola
  11. VII. Invidia
  12. VIII. Pigrizia
  13. Bibliografia
  14. Copyright