Sembrava bellezza
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Sembrava bellezza

  1. 240 pagine
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Sembrava bellezza

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Ad accoglierci tra le pagine di questo romanzo è una donna, una scrittrice, che dopo essersi sentita ai margini per molti anni ha finalmente conosciuto il successo. Vive un tempo ruggente di riscatto, che cerca di tenersi stretto ma ogni giorno le sfugge un po' di più. Proprio come la figlia, che rifiuta di parlarle e si è trasferita lontano.

Combattuta tra risentimento e sgomento per il tempo che si consuma la coglie Federica, la più cara amica del liceo, quando dopo trent'anni torna a cercarla. E riporta nel suo presente anche la sorella maggiore Livia - dea di bellezza sovrannaturale, modello irraggiungibile ai loro occhi di sedicenni sgraziate -, che in seguito a un incidente è rimasta prigioniera nella mente di un'eterna ragazza.

Come accadeva da adolescenti, i pensieri tornano a specchiarsi, a respingersi e mescolarsi. La protagonista perlustra il passato alla ricerca di una verità, su se stessa e su Livia, e intanto cerca di riafferrare il bandolo della propria esistenza ammaccata: il lavoro, gli amori.

Livia era e resta un mistero insondabile: miracolo di bellezza preservata nell'inconsapevolezza? O fenomeno da baraccone? Avvolti nelle spire di un'affabulazione ammaliante, seguiamo la protagonista in un viaggio che è insieme privato e generazionale, interiore e concreto. E mentre lei aspira a fermare l'attimo per non perdere la gloria, la sorte di Livia è lì a ricordare cosa può succedere se la giovinezza si cristallizza in un presente immobile: una diciottenne nel corpo di una cinquantenne, una farfalla incastrata nell'ambra.

Sembrava bellezza è un romanzo sull'impietoso trascorrere del tempo, e su come nel ripercorrerlo si possano incontrare il perdono e la tenerezza, prima di tutto verso se stessi. Un romanzo di madri e di figlie, di amiche, in cui l'autrice, con una scrittura che si è fatta più calda e accogliente, senza perdere nulla della sua affilata potenza, mette in scena con acume prodigioso le relazioni, tra donne e non solo. Un romanzo animato da uno sguardo che innesca la miccia del reale e, senza risparmiare nessun veleno, comprende ogni umana debolezza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835707080
Argomento
Literature

LIBRO PRIMO

1

Quando mi chiedono cosa si prova a essere famosi, e io rispondo niente, sto mentendo. Voi non immaginate lo stordimento, l’ebbrezza di fronte al pubblico che applaude. Su un palco, dietro un leggio, al di qua di un tavolo, davanti a un microfono come stasera.
Non credo di essere la migliore, dico. Solo una persona normale, una donna come tante. Sorrido, inclino la testa. Ho grande fiducia nel genere umano, questo sì, continuo, tutto dipende da noi, coltivare il bene significa raccogliere il bene – e qui sto davvero recitando, mentre le luci dietro la telecamera irradiano la mia persona, facendo di me una figura evanescente. E io guardo dritto, proprio a voi che mi vedrete da casa, tutti voi al di là dello schermo.
Fermiamoci a questo momento preciso, dicembre 2018. Chi sono io, nella sala comunale al cospetto di un pubblico e della telecamera della televisione locale, le cui riprese saranno messe in rete.
Dalla tv ho scoperto di essere diventata bella. Non lo sono mai stata, come il romanzo a cui devo la fama racconta indugiando sull’impatto con la realtà di una mente alterata che si sente splendida, amatissima – me stessa adolescente, me stessa bambina.
Nello schermo contemplo un’altra me che ha vinto l’inadeguatezza. Dimagrita, capelli del castano biondo scelto dal parrucchiere per meglio illuminare il viso. Sebbene abbia denti bianchi, valuto uno sbiancamento. Più bianchi. E poi? Come intervenire per rimanere a questo istante perfetto? Botulino.
Ecco chi sono innanzitutto: una persona di successo.
Vado dal parrucchiere. Compro vestiti, scarpe. Chiedo informazioni su possibili sconti: se un personaggio noto (personalità che va a incontri pubblici venendo fotografata magari non singolarmente, magari in gruppo), se quel personaggio decide di farsi vestire da un unico marchio, non avrebbe diritto a un cinquanta per cento, o addirittura a una sponsorizzazione?
Viaggio. Parlo nelle città d’Italia, come stasera in questa sala comunale, dove qualcuno dal pubblico urla: sei grande.
Davanti a una telecamera, dietro un leggio, succede che il pensiero vada a chi non mi ha compresa. Riappaiono i venticinque volti adolescenti, occhi azzurri, apparecchi ortodontici, denti perfetti, lentiggini, guance scavate, guance piene, capelli schiariti dal sole, gonne al ginocchio, gambe snelle, liceo Goffredo Mameli, Parioli, Roma. Sotto il canestro del cortile, la foto di classe che mostra le venticinque creature che siamo e che, di anno in anno – riprendiamo le foto, disponiamole in ordine cronologico –, si trasformano, raggiungono la forma adulta.
Passano trent’anni, e l’ultima in alto a sinistra della foto cambia posizione. Una forza centripeta la spinge al centro, la luce su di lei, e voi in ombra.
Come si diventa scrittori? chiedono dal pubblico. Sacrificio, dedizione, ribatto – la telecamera sempre a riprendere. Aggiungo: insieme a un po’ di egoismo a cui questo mestiere spesso costringe, la famiglia per esempio, di certo avrei potuto passare maggior tempo con mia figlia – e su questo, solo su questo, sono sincera.
Quindi riprendo a mentire. Che città sorprendente, voglio tornare, tornerò, prometto a vanvera.
Tutto un fingere, non vedere l’ora di andarsene.
Eccomi, bardata nel cappotto troppo leggero, ad attraversare la piazza deserta nella notte sottozero, ad avvolgere la sciarpa sciolta e risciolta dal vento. Eccomi nella stanza d’albergo, sguardo alla finestra, alla valle col chiarore sul fondo, forse un campo sportivo da cui provengono urla giovanili. Deve essere in corso un allenamento. Se solo mi vedeste, lettori, se mi vedeste ora in pigiama di pile, continuereste ad amarmi?
Col successo ho dovuto allontanare persone.
Parenti e amici di colpo pressanti.
Gente mai vista che sostiene di essermi cugino di secondo grado, zio. Sconosciuti che si complimentano, la storia commovente nella quale si sono identificati, per concludere: vorrei raccontarti la mia infanzia di persona.
Vecchi compagni di scuola. Sì, i ragazzi del liceo Goffredo Mameli, sezione C, sono tornati.
Nei letti, sotto maschi eccitati, io vedo loro, tutti loro che non mi hanno amata, imprimendo sulla mia persona fragile un marchio. Dunque: non è di quei ragazzi, degli ex compagni di scuola, la colpa dell’infedeltà, di me che ho iniziato a tradire mio marito? Non dipende forse dall’adolescenza l’adulto che sei?
“Ho sentito che nevica”, messaggio sul telefono.
Raggomitolata sotto le coperte, sparite le urla giovanili in lontananza, rispondo: “Al momento niente neve”.
E vorrei aggiungere: vieni a prendermi. A prescindere dal mittente, parlando a una qualsiasi persona in pena per me, maschio, femmina, figlia, amante: siamo ancora giovani, talmente giovani. Tutta questa tenerezza sprecata, quanta tenerezza a sperdersi qua sotto. Portami via (e qui immagino un maschio).
Pensate pure che questa storia sia iniziata il giorno in cui nel letto l’uomo sposato chiedeva: lasceresti tuo marito per me? Pensatelo, sbagliate.

2

La luce del giorno illumina lo sfasciacarrozze – mattina. Altro che vallata sconfinata, urla giovanili. In questa desolazione l’unico rumore è lo schianto di lamiere.
E no, non ha nevicato. Niente neve a Cagliari. Vi chiederete perché la scrittrice di fama, la donna biondo castana dal guardaroba fornito, non sia a New York, a Parigi, bensì a Cagliari.
In questi anni – per l’esattezza tre dall’uscita del libro – ho girato l’Italia forzando la natura sedentaria pur di mantenere il ruolo di primo piano. E che fosse un ruolo di primo piano lo confermava il numero di telefonate a cui non rispondevo, la casella di posta intasata di inviti. Le persone del passato – ripeto, sottolineo. Va bene, di ex compagni di scuola ne era ricomparsa solo una, bastava. Quell’una avrei piegato a valere per tutti.
Ottobre – adesso siamo a dicembre, tenetelo a mente –, Federica (di cui non dirò il cognome poiché trattasi di personaggio reale) rientrava nella mia esistenza con un lungo messaggio nel quale manifestava la gioia di avermi ritrovata, i pensieri che ha avuto per me negli anni. L’orgoglio leggendo del mio successo, vedendo la persona importante che sono diventata, del resto lei lo ha sempre saputo che ero speciale.
Breve cenno alla madre morta, al padre che mi legge sui giornali – anche lui orgoglioso! Va per i novanta, pieno di acciacchi, pover’uomo, la sua non è stata una vita facile.
Se avessi vent’anni. Se il successo fosse arrivato a vent’anni mi sarei ubriacata, drogata, avrei illuso ragazzi, usandoli per brevi periodi allo scopo di accrescere la mia vanità. Sarei stata rincorsa da giovani maschi. Tutti a desiderarmi.
Invece ne ho quarantasette e a cercarmi sono cinquantenni alle prese con genitori in fin di vita, se non morti. Gente a cui si infiammano gomiti, bloccano schiene, adulti insoddisfatti, separati, intenzionati a rifarsi una seconda vita, figli a cinquant’anni. Sotto psicofarmaci, stressati come me che perdo sangue. Ciclo sballato, penso, vedendo la macchia. Che vuoi che sia un po’ di sangue, lungi da me redigere la storia del mio ciclo, vi basti sapere che non ho mai segnato la cadenza. Colta ogni volta alla sprovvista, macchio lenzuola, sedie. Andando indietro nel tempo risento la voce di mia madre: come una bestia, dice. Parliamo tuttavia di una donna semplice, nonostante la laurea in Medicina – a proposito di sangue, sangue plebeo scorre nelle sue vene: non butta gli avanzi, rifà il letto da sola. E sempre a quel tempo, il tempo del liceo, noi che ci trasferiamo a Roma, esplodeva la vergogna: perché era capitata a me una madre inadeguata, talmente diversa dalle altre madri da portarmi a dire: vengono le mie amiche, chiuditi in camera.
Tu che non hai la pelliccia (ce l’hai, ma non la indossi), che non metti gioielli, e quelli non li hai sul serio – te li sei venduti, scoprirò dopo la tua morte. Tu che un giorno con il buco dei denti caduti – inutile giurare che è stata una dimenticanza, lo hai fatto intenzionalmente –, quel giorno, col buco dei denti che ostini a non farti impiantare, non hai soldi, dici, aprirai la porta alle due ragazze che chiedono di me e, spalancando bene la bocca, risponderai: non c’è.
Una delle due si chiama Federica, e andrà in giro a dire che tu, mamma, sei una barbona.
È con Federica dunque che ho più conti da pareggiare, e è da lei che, a ottobre, arriva il messaggio.
Tutto questo si svolgeva due mesi fa, con me che progettavo di prendere tempo prima di rispondere, magari dopo altri tentativi a vuoto da parte sua. Sensazione a essere ignorati, amica?
Facendo un esame di coscienza la mia intera vita va letta sotto la luce del desiderio di rivalsa. Ogni rapporto, dentro e fuori casa, ha preso la forma del torto da vendicare. Cos’è del resto il romanzo che mi ha dato fama se non una vendetta contro i miei genitori morti? E contro me stessa – se solo voi detrattori foste in grado di leggere le metafore, sforzatevi.
Non che tutto sia metafora. Non lo è lo sfasciacarrozze su cui si affaccia la stanza, non questa città, Cagliari, non lo sono io appena sveglia a raccogliere gli effetti personali da riporre nel trolley. Men che meno la persona che continua a scrivermi.
“Vengo a prenderti in aeroporto?”
“Ho intervista” rispondo.
In quanto scrittrice affermata, collaboro con varie testate giornalistiche, in particolare con un quotidiano nazionale per il quale intervisto personalità come attori e intellettuali. Spesso sono le personalità stesse a chiedere di me.
Ce l’ho fatta – parlo agli ex compagni di scuola, in un discorso interiore che dura da anni, in una fantasia che me li riporta davanti, ricchi, superbi.
Assemblaggi di ormoni addomesticati, niente in loro era fuori controllo, addirittura gli appetiti, al pari dei desideri, tanto da desiderarsi tra loro in un’istintiva difesa della stirpe.
Parlo a voi, di continuo a voi, immaginazione, sogno – capita di sognarvi, piccoli egoisti, quanto eravate pericolosi nell’incapacità di prevedere le conseguenze delle azioni, agire incoscienti, ridere leggeri.
Qualcuno potrebbe obiettare che sono passati troppi anni per serbare rancore.
E allora io – sempre nella fantasia – raddrizzo le spalle, schiarisco la voce, dico no. Impossibile dimenticare, dico. Come cancellare il momento in cui candidata a rappresentante di classe contro due emarginate (Ciriello di Napoli, Curcio diabetica), sicura di vincere, sulla lavagna vicino al mio nome non compare alcuna x?
Quando sarebbe svanito il ricordo di me sulla scalinata della villa cinquecentesca, di me in abito lungo ad accogliere gli invitati per festeggiare i diciott’anni, e non arriva nessuno, quando si sarebbe rimarginata la ferita? (Nella realtà qualcuno si presentò, quindici/venti persone su duecento invitate, e la villa sembrava vuota, e io nei giardini, nei saloni, grassa.)

3

Esiste una foto dove siamo io, Federica, Livia, Simona. Alle nostre spalle Massimo, e un biondo di cui non ricordo il nome.
Abbiamo sedici anni, Livia diciassette. Deve essere un mese prima della sparizione, l’ultima foto di Livia prima della sparizione.
Ma rimaniamo su di me, la me alla sinistra di Federica.
Chi sono al tempo? Un’adolescente di provincia trasferitasi in città per la separazione dei genitori. Padre notabile di paese (avvocato, medico, poco conta), madre nullafacente.
Chi sono io nella scuola del quartiere residenziale popolata da figli di professionisti? Chi se non una ragazzona triste, impaurita, complessata, derisa, rabbiosa, piena di rabbia tanto da urlare: vado a scuola, e faccio una strage, mamma. Se a quei tempi ci fosse stato internet, se il bullismo fosse stato codificato, sarei finita in un carcere minorile, o in un istituto rieducativo, anziché essere l’individuo sgraziato che alza il telefono, compone un numero: tu non mi conosci, io ti amo, dice. O anche: suo figlio si droga. Telefonate anonime. Insulti, dichiarazioni d’amore al di qua di una cornetta.
E per un periodo la persona di fianco a me è Federica.
Provando vergogna per casa mia (vivevamo con la nonna come i poveri, i meridionali), ero io ad andare da lei.
Distesa sul tappeto azzurro di camera sua, Federica sospirava: certe volte vorrei fuggire dall’altra parte del mondo, tipo Alaska.
Giorni, mesi. Noi chiuse in camera.
Era questa l’adolescenza? I film parlavano d’altro: dov’è il sesso praticato nelle macchine? E i tentati suicidi sventati dagli innamorati? Le pasticche di Xanax ingurgitate a barattoli, e i tagli sulle braccia? Dove sono i pericoli di morte, le violenze nei sottopassaggi, le molestie familiari, le pillole del giorno dopo (all’epoca non esistevano)? Dov’è tutta la droga che ci avete promesso? Quando arrivano i maschi in questa nostra storia?
Due adolescenti sovrappeso che ragionavano tra di loro, pativano l’isolamento. Due adolescenti sovrappeso ma di piglio, che sullo stesso tappeto su cui giacciono a lamentarsi si rianimano: se la vita va male ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sembrava bellezza
  4. LIBRO PRIMO
  5. LIBRO SECONDO
  6. Appendice
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright