Settimana nera
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Settimana nera

  1. 144 pagine
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Settimana nera

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Informazioni sul libro

Mogadiscio, anni Cinquanta. Gli ex colonizzatori italiani sono stati invitati dalle Nazioni Unite a tornare in Somalia per "insegnare la democrazia" e traghettare il paese verso l'indipendenza. In questo clima, ancora coloniale, abusi, violenze e prevaricazioni assumono forme più subdole, tra cui quella dello sfruttamento sessuale. Ne subirà le conseguenze Regina, una donna somala di grande bellezza, costretta di giorno a fare la domestica e di notte la concubina di Farnenti, un ex fascista riciclatosi come possidente terriero. Regina subisce passivamente le voglie del padrone, che di fatto ha in mano la sua vita. A nulla sembrano servire il suo coraggio e la sua intelligenza: i maschi bianchi vedono in lei solo un corpo disponibile. Anche il protagonista-narratore, un uomo di affari italiano, è colpito da Regina, quando Farnenti gli offre di trascorrere una settimana nella sua casa: lì «c'è tutto, anche la Regina». E, come già in epoca coloniale, la donna africana diventa merce di scambio tra due uomini bianchi, incuranti dei suoi sentimenti e della sua paura. L'anonimo protagonista è quasi accecato dal desiderio morboso di quel corpo nero che viola sistematicamente, ogni volta ingannando se stesso per assolversi da ogni colpa. La donna invece sembra accettare remissiva il suo destino, ma il silenzio è solo una forma di resistenza alle sopraffazioni che subisce. La sua dignità - a differenza di quella degli sfruttatori - rimane intatta.

Uscito nel 1961, da molti critici accostato a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947), Settimana nera ha ancora molto da dire: un vero e proprio «pugno nello stomaco», come afferma la scrittrice di origine somala Igiaba Scego.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835708568
Argomento
Literature
Categoria
Classics

1

A me pareva d’aver trovato un buon lavoro. Partivo la mattina, lasciando l’albergo Croce del Sud quando ancora gli inservienti somali con le lunghe vestaglie bianche e i piedi scalzi non erano venuti per la pulizia. Mi mettevo sulla Land Rover: era una jeep robusta come un ippopotamo e andavo a vedere gli uomini che avevo organizzato per catturare le scimmie.
A me piaceva anche il paesaggio nel quale avevo trovato il mio lavoro. Uscendo da Mogadiscio percorrevo una strada asfaltata, che nei sogni imperiali doveva finire ad Addis Abeba e nei primi tempi mi appariva piena di ricordi. L’avevo vista carica di carri armati, gli M11 e gli M13, che andavano verso l’Etiopia con la violenza della guerra e su quella strada, duecento chilometri nell’interno, ero stato ferito da un cacciatore aereo inglese.
La pianura che attraversavo mi era sembrata nei primi tempi monotona, poi avevo imparato a conoscerla ed era varia, sul principio con papaie e manghi, con acacie e poi con animali che sembravano creati dalla fantasia e anche viva di misteri: segni cotti dal sole o slavati dalla pioggia, che bisognava saper interpretare per non cadere in qualche trappola. All’orizzonte c’erano sempre macchie d’alberi, mossi dal vento, che seducevano e ingannavano; oppure, nelle nebbie del mattino, se si andava dalla parte del fiume, si scorgevano montagne azzurre, una dopo l’altra, come le quinte d’un infinito palcoscenico. Era un altro inganno.
Pensavo d’essere a posto con me stesso e con gli altri – finalmente – perché al di fuori di quelle macchie d’alberi e di quelle montagne, che appartenevano alla realtà della fantasia e che per questo avevano la seduzione delle cose irreali, più niente poteva ingannarmi. Anche su quelle terre c’era stata la pazzia della violenza conquistatrice: ma oramai mi faceva sorridere. L’avevo vista sul dorso di tanti muletti che sgambettavano ostinati sotto il peso delle casse di munizioni o dentro autocarri, che andavano l’uno dietro l’altro, come i segmenti d’un serpente senza capo, senza coda, che sopravviveva quasi senza accorgersene o sopra le spalle di molti soldati, che marciavano dondolando la testa perché sapevano che la strada non portava da nessuna parte. Ogni tanto passava anche sopra automobili mimetizzate e cariche di ufficiali: capitani, maggiori, colonnelli e se c’erano i motociclisti voleva dire che dietro veniva almeno un generale.
Dopo pochi chilometri, adesso, finita la violenza, mi distaccavo da quella strada e certe volte procedevo su una pista andando verso lo Scebeli. Se non era stagione di pioggia davanti alla jeep comparivano con allegria bellissimi uccelli: le ali azzurre, le pettorine bianche, i becchi gialli o neri e qualcuno aveva sulla testa un ciuffo rosso o arancione o verde. Dicevo ad Abdì, seduto vicino a me in macchina: «Come chiamate?».
Non sapendo rispondere Abdì sorrideva.
Così andavo nei miei villaggi, a Balad, a Uer Gab, a Mucui Der, a Mereire per ritirare le scimmie. Dovevano essere giovani, non ferite e non babuini, amadriadi o macachi, ma soltanto cercopitechi, d’un bel grigio verde. Ne raccoglievo quaranta-cinquanta per giorno, avevo imparato a valutarle in modo veloce, a non ascoltare le lunghe proteste del cacciatore quando se ne vedeva scartata qualcuna; e due volte la settimana facevo la spedizione a New York, per via aerea, mettendole in gabbiette di legno, che io stesso avevo disegnato e andavano all’Ocima Company. Dai reni d’ogni scimmia, in quei laboratori che non vedrò mai, ricavavano non so quante fiale di vaccino contro la poliomielite.
I villaggi oramai li conoscevo, ognuno aveva un suo odore e quelli di Balad e di Mucui Der, proprio sulla sponda dello Scebeli, funzionavano bene. In una sacchetta di tela tenevo i somali d’argento e patriarcalmente, all’ombra d’una acacia o sulla soglia d’una capanna, pagavo sette somali per ogni scimmia. Era come un giuoco tra me e loro. Loro avevano imparato a mettere le trappole sugli alberi, tra un ramo e l’altro, oppure a nasconderle coprendole di sterpi nei punti di passaggio obbligato – erano come quelle dei topi, con lo sportello che cadeva all’improvviso alle spalle della scimmia e in ogni villaggio avevo nominato un responsabile raccoglitore al quale facevo piccoli regali segreti.
A me pareva proprio d’aver trovato un buon lavoro. Ogni mattino dalla Croce del Sud andavo al mio deposito, che era sulla strada per Afgoi, e allora Abdì metteva nel cassone della jeep le gabbie vuote, vicino al canestro delle provviste e al grande thermos pieno di birra, che rimaneva ghiacciata sino a sera. Avevamo i nostri punti per riposare verso mezzogiorno all’ombra di qualche boschetto – e per mangiare e chiacchierare.
«Abdì, sai perché comperiamo tante scimmie?»
«Per l’imperatore d’America.»
«In America non c’è l’imperatore.»
«Allora non sapere.»
«Non vuoi saperlo?»
Abdì rideva coprendosi il volto con le mani, implorando di non dargli spiegazioni inutili perché tutto quello che non poteva vedere e giudicare con i suoi occhi gli era inutile e io sentivo che il mio animo tornava infantile e tollerante.
«Allora dormiamo un momento.»
Abdì toglieva il sedile della jeep, che messo per terra mi serviva da schienale o da poggiatesta. Con gli occhi socchiusi guardavo la grande pianura che si allargava verso l’Etiopia, e pareva salire verso il cielo con un orizzonte altissimo, nell’aria calda del mezzogiorno: era come un tendone color ocra, leggermente mosso dal vento. Se mi capitava di vedere una famiglia d’elefanti correre in cerca di pastura mi divertivo come ad un sogno del dormiveglia.
Tornavo prima che venisse notte. Il portico della Croce del Sud a quell’ora era pieno di tavolini, che venivano sparpagliati col calar del sole e intorno ai tavolini c’era sempre tanta gente, che pareva s’incontrasse per raccontarsi le avventure degli ultimi dieci anni: ma parlavano di quel pomeriggio o della mattina o della notte precedente. Dopo d’aver portato le scimmie raccolte nella giornata al mio deposito, dove Abdì si era costruito una capanna, mettevo la jeep contro il marciapiede, di fronte alla Croce del Sud, attraversavo le siepi delle chiacchiere serali, piene di toni bassi e di occhiate, di veloci sorrisi e andavo nella mia camera. Il letto era sotto la cupola di garza della zanzariera e mi riposavo mezz’ora, non di più. Alla mia destra avevo un balcone protetto da un graticcio fitto di legno e se lasciavo socchiusa la porta d’ingresso creavo una rinfrescante corrente d’aria. Una volta la settimana arrivavano per via aerea i giornali e li ritiravo ogni martedì sera dalla cartolibreria vicina all’albergo; ma non li guardavo subito tutti. Sull’esempio di un famoso esploratore, di cui non ricordo il nome, mettevo i sei numeri della «Stampa» sul comodino e ogni sera, con un ritardo quindi di sei giorni, me ne leggevo uno. Poi facevo la doccia, mi sbarbavo e scendevo a mangiare.
La Croce del Sud era una costruzione quadrata d’un solo piano, con un largo loggiato intorno ai quattro lati sul quale si affacciavano tutte le camere e così il cortile risultava una specie di “patio” spagnuolo. Lì, all’aperto, si mangiava ed era come a bordo d’una nave, durante una traversata, perché gli avventori non cambiavano mai ed avevamo persino imparato a riconoscerci al buio: bastava sentire la voce.
Una sera la mia tavola era vicina a quella di Farnenti, che da venticinque anni abitava in città ed era proprietario d’una concessione verso Genale, che tutti dicevano meravigliosa. Avevo giocato con lui a poker qualche volta e mi pareva di sapere molte cose sul suo carattere, come se lui avesse cercato di illustrarmelo con lunghe confessioni. Era un carattere che non mi piaceva.
Quella sera quando vide che bevevo il caffè venne al mio tavolo. «Domani» mi disse «ho qualche amico a casa. Per un giorno lascia stare le tue scimmie. Passo a prenderti con la macchina un po’ prima dell’una.»
Il giorno dopo era un mercoledì; e il mercoledì non andavo in giro nei villaggi, ma provvedevo alla spedizione delle scimmie, in aereo volavano da Mogadiscio a Roma, un mio uomo di fiducia le ripuliva, si sbarazzava di nascosto di qualcuna che era morta, per evitare l’intervento dell’ufficio d’igiene, e caricava le altre sull’aereo per New York. Io andavo al campo d’aviazione con le scimmie sulla jeep verso le nove del mattino e sorvegliavo come le gabbie venivano sistemate, perché nei primi tempi era stato un disastro: non ci eravamo accorti che bisognava proteggerle dal freddo dell’alta quota. Alle undici tutto era pronto e una volta avevo l’abitudine di rimanere sul campo per assistere al decollo dell’apparecchio; poi lo spettacolo non mi interessò più.
Guardavo Farnenti che stava in piedi vicino al mio tavolo, prepotente anche negli inviti e in un attimo di pigrizia gli risposi: «All’una, d’accordo».

2

La macchina, rallentando ad una curva, fu avvolta dalla polvere che sollevava, spinta dal vento che più veloce di noi correva nella nostra stessa direzione.
«Devi metterti come me, così» disse Farnenti. Aveva le braccia nude, la camicia con le maniche corte gli si apriva sul collo e sul petto, che era arrossato come quello di certe vecchie signore inglesi. Abbassai gli occhi. Le ginocchia grosse, due pezzi di coscia uscivano dai calzoncini molto corti, bianchi e attillati. Portava calzettoni bianchi leggeri e scarpe di camoscio morbide, che si vantava di farsi fare a Nairobi.
«Quasi ci siamo» disse un attimo dopo per consolarmi. Di là del finestrino vedevo un terreno vago, polveroso e anche sugli alberi di cocco la polvere avviliva il verde come un vapore su uno specchio. Poi la macchina superò un cancello di legno e il rumore delle ruote cambiò all’improvviso perché adesso giravano sulla ghiaia fine d’un viale. Due alti eucalipti erano davanti alla porta della casa e sembravano difenderla.
Nell’ombra riposante della prima stanza due persone ci aspettavano. Con aria sbrigativa Farnenti disse: «Vi faccio portare un aperitivo. Un momento».
Era scomparso da una porta in fondo alla stanza; e la stanza era disadorna, un divano, due poltrone di cuoio, il mobiletto della radio, qualche brutta stampa alle pareti e una mostrava la Mole di Torino. La guardai e gli altri due fecero altrettanto. Ad uno dei due dovette ricordare qualche cosa perché domandò all’altro suo compagno: «Da quanti anni la moglie di Farnenti non viene più qua?».
«Almeno da vent’anni.»
«L’hai conosciuta?»
«Molto bene. Ma adesso Farnenti non ricorda neanche più d’essere stato sposato.»
«Lo sapevo.»
Farnenti tornò portando in modo goffo il vassoio degli aperitivi, e borbottava incerto se metterlo sul mobile della radio o su una poltrona: «Quella cretina» annunciò distratto «non ha voluto mostrarsi perché dice che non è ancora vestita».
Mentre mi tendeva il bicchiere gli domandai chi era “quella cretina”.
«Loro la conoscono» disse Farnenti guardando i due altri ospiti. «La conoscerai anche tu.»
«È la grande Regina» disse uno di quei due, magro e pallido, con un accento toscano.
«Regina di che cosa?»
«No, regina di niente» spiegò Farnenti. «Ma una volta, nei primi tempi che l’avevo in casa, viene qua il Piccoli, che allora allevava ragazze per giocarci poi sopra, la vede e dice: “Ma questa bisogna nominarla regina”. Da allora l’ho chiamata Regina.»
Cominciarono a parlare del Piccoli, che io non avevo conosciuto, con la felicità di chi trova un argomento e desidera goderselo a poco a poco perché il pomeriggio è lungo, la notte lontana e l’insonnia angosciante. Gli aneddoti ricoprirono subito la figura del Piccoli come una polvere squamosa e brillante: lui aveva battezzato Regina la persona che non aveva voluto servire gli aperitivi. Questo era stato il pretesto che l’ombra della stanza rendeva comodo e che la presenza di soli uomini faceva distensivo. La Regina proliferava altre donne, che rimbalzavano tra gli interlocutori e non riuscivo mai a capire se erano reali o inventate in quel momento, per smuovere la fantasia.
Ad un tratto Farnenti si mise a ridere guardando verso la porta che era in fondo alla stanza: «Eccola» disse e batté le mani per richiamare la nostra attenzione. Intravidi a mala pena una figura femminile, che ci guardò un attimo in silenzio e poi scomparve. Allora Farnenti avvertì che potevamo andare a tavola e mentre gli passavo davanti, per precederlo nella sala da pranzo, mi disse: «L’hai vista? È meglio delle tue scimmie».
La Regina ricomparve con il grande piatto degli antipasti. Passava dall’uno all’altro con calma, senza guardare il piatto che aveva appoggiato sulla mano e sull’avambraccio, senza guardare nessuno di noi, senza guardare né il pavimento né il soffitto; in un modo suo, distratto e insensibile, teneva gli occhi rivolti sempre alla finestra aperta, che dava su una macchia di bellissimi frangipane dalle foglie strette, lunghe, con le nervature biancastre, il fiorellino giallo, che in quella luce non aveva quasi più colore.
«Il Piccoli tanti anni fa è venuto da Lugh con due ragazzine, poi una è morta non si sa come.»
«Ne voleva sempre una per mano.»
«Era l’epoca in cui si divertiva coi profumi, me lo ricordo. Le ubriacava coi profumi, l’incenso mi pare.»
«Poi una è morta.»
Guardavo i piedi nudi di Regina mentre serviva Farnenti, che sedeva a capotavola – ed io ero al suo fianco. Erano piedi piccoli, dalle dita sottili, lunghe, con le dieci macchie rosse delle unghie e poggiando ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Igiaba Scego
  4. SETTIMANA NERA
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. Copyright