Paesaggio con rovine
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Paesaggio con rovine

Irpinia: un terremoto infinito

  1. 228 pagine
  2. Italian
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Paesaggio con rovine

Irpinia: un terremoto infinito

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Irpinia. 23 novembre 1980. La terra trema. La catastrofe. Le rovine. L'immagine di Conza della Campania dopo il terremoto torna sui giornali dopo il 24 agosto 2016: lo scatto in bianco e nero di allora torna a dire che, anche ad Amatrice, la storia si ripete. Nonostante i progressi annunciati, le prevenzioni intimate, le lezioni impartite. È da qui che comincia il racconto di Paesaggio con rovine. Generoso Picone, giornalista e scrittore, indaga, esattamente quarant'anni dopo, nel groviglio di quel che resta, intercetta continuità e buchi neri, restituisce e aggiorna una vicenda che è specchio del Mezzogiorno e dell'Italia tutta. L'Irpinia povera e marginale di allora oggi è un luogo spopolato, abbandonato, irrilevante. Da una frattura all'altra, come se niente intanto fosse accaduto. E invece molto è accaduto. E una verità ci deve pur essere tra queste rovine. Picone si rende conto che per quarant'anni in ogni libro letto, documento, riferimento, e in ogni nuova catastrofe, ha cercato di rispondere alle domande scaturite il 23 novembre 1980. La verità, perseguita con vigile ossessione, non è appaltata esclusivamente ai verdetti giudiziari o appesa all'intricato catalogo di accuse e polemiche su ritardi, inadempienze, sfruttamenti, convenienze, ruberie e cinismo: il racconto di Picone chiede materiali non usurati, chiede una "ricostruzione" che ripercorre le imprese di chi da tanta tragedia ha tratto profitto, di chi ha speculato sulle aspettative maturate, di chi continua a utilizzare questa terra come mezzo e non come fine.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835705796
Categoria
Sociology
1

Un’autobiografia del terremoto

Il tempo puro

Qualcuno dice che da quassù una volta ha visto il mare. Quassù, cioè dai mille metri del crinale che oggi la toponomastica del parco eolico denomina “Creste del gallo”, in una giornata di cielo azzurro terso come soltanto da queste parti può succedere. Dalla casetta gialla del Boschetto abitata da una coppia di anziani ospitali e cortesi, pacificati nella loro radicata solitudine, il mare sembrava essere quel riverbero di luce lontano all’orizzonte, al limite della fertilissima Piana del Sele che degrada verso Paestum.
Oggi non si riesce a vederlo, forse neanche allora e dev’essere stato una sorta di miraggio, di fuga nella fantasia, di proiezione fantastica di un desiderio. Alla Sella di Conza non resta che specchiarsi nel lago artificiale della diga, nelle acque ferme che riflettono i contorni del paesaggio circostante, nel mare di montagna tra le balle di fieno, le mucche che pascolano, i tigli e i quercioli, le ginestre e le betulle che il grecale, il vento che viene dai Balcani, d’inverno scuote e flette.
Per arrivare a questa ruga dell’Appennino meridionale che separa la valle adriatica dell’Ofanto da quella tirrenica del Sele, un dorso con i monti Alburni a oriente e i Picentini a occidente, si percorre una strada di asfalto ingobbito dalle frane. Intorno, una vegetazione selvaggia e fitta, rotta da qualche antico casolare che deve aver vissuto una stagione di dignitosa bellezza, ora scoperchiato con le travi di legno in vista, e dalle nuove abitazioni lasciate incomplete e abbandonate con i mattoni e i sacchi di cemento all’ingresso, che comunque sarebbero state brutte e indecenti. La casa cantoniera che segnala la linea di confine tra le province di Avellino e Salerno è un rudere invaso dai rampicanti. Sulla tabella del segnale stradale c’è, ormai ingiallito, un manifesto pubblicitario di una ditta specializzata in carotaggi e taglio di cemento armato, quasi siano state queste una volta le specialità della zona. Di fronte, con due assi di ferro avanzati dalla costruzione di un solaio, è stata montata una croce e su, con fili di plastica, un crocefisso piccolo che luccica al sole, qualche fiore di plastica tra l’erba alta, è un ex voto della religione del lutto. Più avanti c’è Castelnuovo di Conza, il comune del salernitano di cui la Sella è contrada rurale, il paese che domina da decenni la triste graduatoria dei centri con più emigrati all’estero: a dar retta all’ultima rilevazione, rispetto ai 595 che ancora ci vivono se ne contano 2860 sparsi nel mondo, in questo caso in Ecuador, Colombia, Belgio, Svizzera, Salvador, Germania, Venezuela. Quaranta anni fa i residenti a Castelnuovo erano più di mille.
Quaranta anni fa. Davanti a me ho una fotografia del 1980. La collina della Sella di Conza – 697 metri di altezza, secondo le mappe – si presenta interamente coperta di vegetazione, nella totale assenza di traccia umana. Una natura intatta e acquietata, sospesa in un equilibrio vigile e minaccioso, come se conservasse una trattenuta energia pronta a esplodere. Oggi le pale eoliche si innalzano nei loro profili di mulini a vento d’acciaio, hanno sostituito gli impianti delle cave le cui armature sono ridotte a scheletri, il loro roteare meccanico è vorticoso e inconcludente in attesa di un Don Chisciotte che mai verrà: creste metalliche – come le creste del gallo del loro parco – lasciate a presidiare il lago a valle formato dall’invaso della diga allo sbarramento del fiume Ofanto, lontano ricordo del flusso tauriforme cantato da Orazio, “quando inferocisce e trama un’orrenda alluvione sui campi coltivati”. Tutto ciò rammenta, comunque, che ci si trova nel cuore di un ricchissimo bacino idrografico all’interno del quale ci sono le sorgenti di approvvigionamento di larga parte di tre regioni, la Campania, la Basilicata e la Puglia. Giù, nell’oasi naturalistica, ama sostare l’aquila imperiale, in alto vigilano i falchi e chissà quanti altri uccelli delle cento specie rare censite dal WWF. Lungo l’anello, che nel lessico del codice stradale è la circumlacuale, corrono i percorsi sconnessi amati dai motociclisti.
Il Sud dell’osso è fatto di pietra, acqua e vento.
Tanti materiali malmessi di un presente sbandato, rovine dell’inesauribile contingenza che impediscono al paesaggio di scivolare verso la dimensione dello stato di natura, scorie di una modernità goffamente inseguita e che appena sfiorata risulta già eccessiva e fuori posto portano disordine e squinternano la linea d’armonia un giorno vissuta o magari soltanto sognata. Questo è un posto che non riproduce integralmente alcun passato e allude però a una molteplicità di passati. I ruderi che scorgo sembra che invitino a entrare nell’interno degli abitati e delle case, di oggi e di ieri, magari a scrutare l’anima delle persone che le abitavano. Ma nonostante tutto, avverto che la sensazione di asprezza da luogo inaccessibile, la parvenza di selvaggeria tra boschi densi e sentieri sterrati, conservano la purezza del tempo. Puro nel senso di non databile, come di un qualcosa che sfugga al racconto della Storia e per paradosso riesca a rivelarla nella sua sostanza: a cogliere la verità degli accadimenti che ha contenuto. È un luogo di ricongiunzione delle epoche che sarebbe potuto entrare nell’Aleph di Jorge Luis Borges, dove il tempo si piega su se stesso quasi a volersi difendere dalle insidie e dalle pretese di chi vuole collocarlo nelle caselle dei calendari, differenziarlo nelle ripartizioni di passato, presente e futuro, sfilacciandone così il corso unitario e l’eternità circolare.
Nella vertigine di quest’altura almeno per un attimo accarezzo la certezza che il tempo puro possa essere quello restituito dalle immagini delle rovine, dal loro spettacolo e dalla loro coscienza. Dal loro significato. Qui il tempo è in rovina: ma che cosa è il tempo puro se non la consapevolezza delle rovine?
C’è un brano del Viaggio elettorale di Francesco De Sanctis – la sua Morra è a un passo – in cui si legge che qui “l’occhio non appagato, navigando per quell’infinito, si stende là dove i contorni appena sfumati cadono in balia dell’immaginazione, e a dritta indovina Salerno e Napoli e vede il Vesuvio quando fiammeggia, e a macchina corre là dov’è Melfi e dov’è Campagna. Non c’è quasi casa che non abbia il suo bello sguardo, e non c’è quasi alcun morrese che non possa dire: io posseggo con l’occhio vasti spazi di terra”. Nell’esplicito omaggio a Giacomo Leopardi mi colpisce l’insistere di De Sanctis sull’atto del vedere e la convinzione che attraverso lo sguardo – soltanto attraverso lo sguardo – sia possibile abitare la realtà. Magari arrivare a capirla. Di fronte ai frammenti dell’esistenza individuale e collettiva, ai momenti scheggiati che l’hanno determinata, ai brandelli di anni, secoli e millenni in cui è ridotta – in fondo, le macerie e le rovine non sono altro che questo – mi accorgo di pensarlo anch’io.
La Sella di Conza è il punto di tessitura di un dramma, la superficie di una profondità da cui è esplosa la tragedia. Nel suo ventre, a dieci chilometri, il 23 novembre 1980 si mise in movimento una faglia lunga sessantamila metri e larga quindicimila che in novanta secondi stirò il territorio del centro-sud d’Italia facendolo slittare verso il Tirreno e l’Adriatico. Il movimento della placca adriatica che preme sugli Appennini. La terminologia tecnica non riesce a consegnare l’entità di quanto avvenne. Tre fenomeni di rottura in quaranta secondi: prima nel ventre dei monti Marzano, Carpineto e Cervialto, poi la rottura della faglia verso sud-est, quindi l’ultima a nord-est. Erano le 19.34 – c’è chi indica con precisione digitale le 19.34 e 52.8 secondi, qualcuno ricorda le 19.35, altri le 19.36, se ciò può avere valore – di una domenica incredibilmente calda, la partita di calcio prima allo stadio e poi in televisione, i ragazzi al bar, la gente in strada, la luna piena a illuminare una serata di festa: il processo di tipo estensionale produsse una scossa di terremoto di magnitudo 6,9 gradi, intensità 10 della scala Mercalli-Cancani-Sieberg che segnala la completa distruzione. Dopo c’è la catastrofe e quindi l’inferno. Carlo Maria Rosini, sacerdote e filologo napoletano vissuto tra il 1748 e il 1836, nominato nel 1797 da papa Pio VI vescovo di Pozzuoli, qualche decennio dopo l’inizio degli scavi a Pompei indicò la data dell’eruzione proprio nel 23 novembre del 79 dopo Cristo, affiancandosi nelle ipotesi al 24 agosto rilevato dalle lettere a Tacito di Plinio il Giovane e al 24 ottobre emerso da una scritta a carboncino sul muro di un’abitazione. Il 23 novembre di ogni epoca, dunque, giornata dell’apocalisse.
Gli effetti furono tali: 2914 morti, 8848 feriti, 280.000 sfollati, nella stima di maggiore attendibilità.
Interi paesi rasi al suolo, Conza della Campania, Calabritto, Castelnuovo di Conza, Laviano, Lioni, San Mango sul Calore, Sant’Angelo dei Lombardi, Santomenna, Teora, Senerchia, Balvano e altri centri ancora, in una geografia della disperazione che si estese fino ad Avellino, alle province d’Irpinia, di Salerno e di Potenza, una scarpata di faglia ben visibile per trentacinque chilometri, che dall’alto si rivelò come una ferita inferta da una mano spietata. Un taglio che non si sarebbe mai sanato, che nelle previsioni scientifiche in proporzioni simili si potrebbe riprodurre dopo un paio di millenni e che insisteva su sfregi di cui sono impregnati i secoli. Complessivamente oltre 77.340 case furono distrutte e 275.260 gravemente danneggiate.
L’Irpinia, del resto, è teatro antico di cataclismi: quello del 5 dicembre 1456 uccise trentamila persone; pochi anni dopo ce ne fu un altro, il 15 gennaio 1466, che ebbe per epicentro ancora la Sella di Conza; quindi tra il Formicoso e la Baronia il 29 marzo 1517; nell’alto Ofanto l’8 settembre 1694; nella valle del Calore il 4 marzo 1702; a Grottaminarda il 29 novembre 1732; alle sorgenti del Sele il 9 aprile 1853; a Calitri il 7 giugno 1910, nella valle del Calaggio il 27 luglio 1930; tra valle del Miscano e Ufita il 21 agosto 1962.
La sera del 23 novembre 1980 si verificò la più grave sciagura per numero di vittime ed entità del danno verificatasi in tempo di pace in Italia, dopo quella provocata da un altro terremoto, a Messina, il 28 dicembre 1908.

La misura del dolore

Scrive Manuel Vilas in In tutto c’è stata bellezza: “Magari si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con parole incerte. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto, e il dolore fosse materiale e misurabile. Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo. Ci sono esseri umani che riescono a sopportarlo, io non lo sopporterò mai”.
Non so se Vilas abbia mai osservato le macerie causate da un terremoto, gli edifici crollati e i cadaveri tra la polvere, i volti dei superstiti e la rabbia di chi scava a mani nude: non posso sapere se gli sia capitato di vedere la fotografia di Luciano D’Alessandro scattata a Sant’Angelo dei Lombardi con il tetto del palazzo di improbabile cemento collassato su se stesso e l’anziana donna a terra, sfiancata da una notte a rimuovere pietre e sassi o forse morta, distesa sull’asfalto lesionato dalla scossa, come attraversata da quella stessa fenditura. O l’altro scatto delle bare di Laviano, accatastate una sull’altra accanto alle macerie degli edifici crollati, pronte ad accogliere le vittime. Simboli di una crudezza estrema. Di certo Vilas ha avuto modo di vedere le immagini che Emanuele Di Terlizzi ha ripreso con un telefono cellulare nella tarda serata del 18 marzo 2020, in piena emergenza da Coronavirus. Hanno fatto il giro del modo e hanno composto il raggelante e muto racconto di un’altra stagione di morte.
Di Terlizzi, originario di Napoli, è un assistente di volo della Ryanair allo scalo di Orio al Serio, l’aeroporto di Bergamo. Si trova nel suo appartamento di Borgo Palazzo quando sente pesanti rumori in strada e pensa che si tratti del passaggio di mezzi che finalmente facciano arrivare materiali, merci, attrezzature sanitarie, medicine, viveri per gli ospedali di quell’angosciante prima linea. Guarda fuori e si accorge subito che la colonna di camion militari che transita lenta e solenne trasporta bare: quelle delle vittime della pandemia per le quali non c’è più posto in tutta la regione. Con un telefonino, dalla finestra, riesce a catturare e rendere l’atmosfera di una tragedia come i grandi della fotografia di guerra hanno saputo fare in altre parti del mondo e in altre epoche della storia.
Oggi, davanti alla manifestazione scandalosa di un dolore tanto inedito da sembrare fantascientifico, la fotografia arretra e pare arrendersi, ammette di non essere all’altezza dell’immane compito consegnato dall’imperversare di un virus. A conferma, insomma, che la morte non è raccontabile, perché il suo istante fatale rivela sempre un fatto elementare, ridotto alla “quoddità” di Vladimir Jankélévitch: l’istante della morte nella sua essenza diventa una data sul calendario e un secondo di cronometro, “pertanto non c’è nulla da raccontare in questo istante indivisibile, nessuna estensione discorsiva da svolgere, nessuna profondità comprensiva da inventare”.
L’indicibilità nella rappresentazione della morte, soprattutto, smonta definitivamente la retorica bellica che automaticamente si applica a qualsiasi a tragedia: non si può più impancare lo schema del noi contro loro, dei buoni contro i cattivi, del male contro il bene. Non si può adottare questo modulo oggi, e probabilmente già quarant’anni fa, con il terremoto dell’Irpinia, un impianto tanto manicheo e così paradossalmente rassicurante non riusciva a contenere, tradurre e restituire nella sintesi di un racconto quanto successo. Bisognerebbe scavare, introdursi negli interstizi delle immagini, porre interrogativi, aspettare risposte. Pretendere di sapere. Come fa il caporal maggiore Tommaso Chessa, uno dei militari alla guida dei camion che caricano le bare delle vittime della pandemia per condurle, anonime, da Bergamo ai cimiteri perduti nell’Italia attonita. Delle otto persone che accompagna nell’ultimo viaggio, soltanto di una riesce a conoscere l’identità. Non gli può bastare e tra la commozione esprime il pietoso desiderio: “Pagherei per conoscere tutti i parenti delle otto persone e poter dire loro che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore. Vorrei conoscere le persone care dei miei compagni di viaggio, ma se così non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”.
Le settimane della pandemia hanno rimandato scene assai uguali da ogni latitudine dove il Coronavirus abbia imperversato: raccapriccianti dalle favelas brasiliane e dalle periferie delle città dell’Ecuador, dove i cadaveri nei sacchi di iuta venivano ammonticchiati in stanze spoglie di sudici ospedali, abbandonati accanto ai cassoni della spazzatura o gettati agli angoli delle strade. È come se la narrazione della storia dell’ultimo mezzo secolo si sia saldata negli snodi di un lutto dormiente, pronto a manifestarsi quando la natura decide che è giunto l’attimo. Succede, così, che la necessità imponga di trovare un modo per accogliere e sostenere il dolore causato dalla perdita di una quantità spaventosamente indefinita di esseri umani: recuperare una possibile empatia e attrezzare una capacità di elaborazione che consenta di tollerare quanto accaduto.
Ogni metà pomeriggio, i tecnici della Protezione civile hanno sciorinato la quotidiana contabilità dell’emergenza. La rubrica del bollettino della pandemia si inseriva con forza prepotente nel palinsesto televisivo, radiofonico, dei media, dei social. Numeri: di decessi, di contagiati, di ricoverati, di guariti, di curati, di dimessi. Hanno percentualizzato la sofferenza traducendola in diagrammi, comparazioni, curve, proiezioni, algoritmi. A questa cerimonia spettacolarizzata del pensiero calcolante, a questa rappresentazione della religione dei dati che devono parlare da sé, all’esposizione plateale dell’equazione ontologica su cui si fonda l’era della tecnica – spiega Yuval Noah Harari in un saggio che non per altro si intitola Homo deus. Breve storia del futuro – sono stati convocati anche matematici e fisici teorici per spiegare i numeri del contagio e prevederne la diffusione, con strategie di comparazione in grado di individuare la linea esponenziale della tragedia. Numeri. Senza certezza, se è vero che l’INPS ha segnalato che nei conteggi della Protezione civile mancano ben ventimila morti: quarant’anni fa, dopo il terremoto del 23 novembre 1980, se ne contarono prima 2570, poi 2735, quindi oltre 3000, infine 2914 per mettere così un punto all’approssimazione. Carlo Lauro, presidente dell’Associazione dei professori emeriti dell’università Federico II di Napoli e già alla guida dell’International Association for Statistical Computing, ha ricordato l’affermazione di Benjamin Disraeli: “Ci sono tre modi di mentire, confessava il primo ministro inglese: le bugie, le menzogne e le statistiche”. Verrebbe da scegliere quale sia stato praticato davanti all’imperversare disordinato, ansiogeno, iperbolico, contraddittorio delle cifre che si sono rincorse in una ossessione ossequiosa del dettato della Scienza. Ma – mi chiedo – ugualmente della dignità della morte e rispettosa del valore delle persone?
Soltanto in Lombardia il Coronavirus ha ucciso almeno cinque volte di più di quanto avesse fatto l’ultimo conflitto mondiale tra la popolazione civile. In Italia i morti reali sarebbero almeno tre volte superiori alla rilevazione ufficiale e pure quarant’anni fa – ricordo – si era assillati da un sospetto simile. L’Irpinia è stata una provincia tra le più colpite nel Meridione e, nel rapporto tra casi accertati e popolazione residente, in Italia. Soltanto nella zona di Ariano Irpino con diagnosi Covid-19 sono morte quarantasei persone. Negli Stati Uniti il totale delle vittime della pandemia ha superato quello dei militari caduti durante le guerre in Corea e in Vietnam. Nei furgoni delle imprese di onoranze funebri di Brooklyn e chissà di quanti altri posti si scoprono sacche con cadaveri ammassati in decomposizione. Quasi per riscattare la spersonalizzazione, domenica 24 maggio il “New York Times” ha riempito le sei colonne della prima pagina e poi delle due a seguire dei mille nomi di chi era deceduto a causa del virus. “Queste mille persone qui rappresentano solo l’uno per cento del totale. Nessuno di loro era solo un numero” ha scritto. Dopo l’11 settembre 2001 il giornale aveva pubblicato per lunghi giorni le fotografie e le storie dei morti delle Torri Gemelle. Ora nessuna immagine, soltanto l’interminabile elenco con brevissimi cenni biografici, età, luogo, lavoro, eventuale hobby, insomma il minimo per risalire a un’identità, a una vita. Il 24 maggio gli Usa andavano verso i centomila morti. Il titolo del “New York Times” è stato: Una perdita incalcolabile. Appunto: in nessun modo calcolabile. In Italia, “L’Eco di Bergamo” e “La Libertà” di Piacenza hanno ampliato all’inverosimile le pagine dei necrologi durante le settimane della strage, spesso con l’immagine della persona cara deceduta. Il “Corriere della Sera” ha pubblicato un inserto di 24 pagine, uno speciale Coronavirus “In memoriam”, con 352 schede dedicate alle vittime della pandemia. In mezzo a personaggi noti – Vittorio Gregotti, Germano Celant e non si è fatto in tempo a inserire anche la scomparsa di Giulio Giorello – qualche amico di cui ho appreso così la fine, Pino Grimaldi che mi ha salutato con il solito ghigno beffardo e due affettuosi baffoni ormai bianchi. A Casalpusterlengo, in provincia di Lodi, un passo da Codogno, hanno realizzato quasi spontaneamente il loro sacrario funebre depositando le pietre vive del Po con incisi i nomi dei concittadini uccisi dal Coronavirus e la data della loro scomparsa. Il tronco di cono è stato installato nella zona del Mortorino, dove nell’anno mille era sorta la prima chiesa e il nucleo originario del paese: il monumento è chiamato “Sassi di memoria e comunanza” e si contano oltre 200 nomi, più dei 130 morti di Casalpusterlengo, come se il bisogno di riconoscere l’identità della perdita subìta sia stat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Paesaggio con rovine
  4. 1. Un’autobiografia del terremoto
  5. 2. L’ultima notte di quiete
  6. 3. Dalla solidarietà al romanzo criminale
  7. 4. I paesi dell’altrove
  8. 5. Il terremoto che non finisce mai
  9. Copyright