Le foglie verde brillante del tiglio giocano a entrare dalla finestra socchiusa della camera nella dolce penombra… Gli occhi, intanto, se ne stanno lì a farsi solleticare dai raggi del sole di giugno, che è già alto e taglia con righe di luce il soffitto bianco.
Sarà venuta la nonna, mentre dormiva, ad aprire un poco i vetri, per farle giungere, nelle inspirazioni regolari del sonno, l’aria di un nuovo mattino.
La scuola, come chiama lei l’asilo per sentirsi grande, è finita la settimana scorsa. Ancora due giorni e il mare, con la sua euforia di sabbia e sole forte, il turbinio dei giochi e della pelle sempre velata di acqua e sale, si porterà via questo silenzio.
Ma lei, che è abbastanza piccola per ascoltarlo, che odora ancora di vuoto e di gestazione, finge di dormire per sentire i racconti del tiglio. Sbircia con le fessure degli occhi, oltre le palpebre, la greca che i fiorellini provenzali della tappezzeria disegnano sulle pareti: le piace tanto traguardare il reale, creando forme che compaiono e poi scompaiono, semplicemente giocando con lo sguardo e le diagonali dei fiori. Dopo un po’ la vista si perde, si confonde, non ci si vede più e si vede qualcosa d’altro. È come girare tanto fino a perdere l’equilibrio o camminare veloce all’indietro fino a barcollare un pochino…
Intanto, il tiglio racconta. Storie di secoli, della casa che fu palazzo nobiliare, delle feste che si svolgevano proprio nella sua camera, che prima era parte di un salone, dove avranno danzato donne in abiti da sera e musica da sogno: le antenate che vivono in lei, nel suo DNA, nella sua folle danza in salotto la domenica mattina, prima della messa, con i 33 giri del nonno.
Ma il tiglio racconta anche cose più segrete, per esempio la linfa appiccicosa e dolce che stilla dalle sue foglie, come una goccia di un cuore diffuso che la piccola immagina scorrere nelle venature di ogni foglia. Oppure il ragnetto che sta sospeso tra la foglia più vicina al muro e l’intonaco rosso.
È così bello avere una cameretta in condivisione con un albero che sa parlare. Forse anche gli altri alberi parlano, ma “lui” è il suo preferito. Così grande e bello, così delicato.
Quando è sicura che nessuno la veda, perché è un segreto tra loro due, si alza piano, apre tutta la finestra, sporge il viso e le manine e si lascia accarezzare. E stanno così per un po’, in un abbraccio sfiorato, poi corre svelta nel bagno accanto, a sciacquarsi, perché sente le dita tutte incollate… A volte tiene un po’ di linfa da qualche parte, sulla guancia magari, e con un dito gioca ad appiccicarsi e staccarsi, il gioco eterno del legame e della libertà.
Ha la fortuna di essere arrivata bene in questo mondo. Voluta, pensata, prima che fosse reale. Forse dovrebbero avere tutti questa fortuna… uno spazio per accoglierli, un battesimo interiore, in chi attende il loro arrivo. E anche lei ha fatto le cose per bene. Suo papà voleva una femmina, ed è arrivata, carina, sveglia e brava. Dicono che alla nascita fosse tutta suo padre, ora ha preso i colori e la grazia di mamma…
Mamma è bellissima, la sua fata. Le racconta tante cose, è l’intellettuale di famiglia. E poi i nonni, tacitamente tenero lui, espansiva lei, con i suoi acuti di gioia quando la chiama “amore” e quelle braccia dolci, quei seni morbidi, dove appoggiare la testa e dormire in auto durante i viaggi.
Una vita meravigliosa, come recitano i libri di una collana enciclopedica che sta in basso, nella libreria antica del soggiorno dei nonni, e che le piace sfogliare perché sono tutti colorati…
È bello svegliarsi in questa vita ogni mattina.
Sono le 9 di un mattino di giugno, come tanti anni fa. Sono già nel giardino con la scala motorizzata e tutti gli strumenti che lei neanche vuole vedere.
Hanno provato in tutti i modi a salvare l’albero, prima i giardinieri, poi gli agronomi. Nulla da fare, il grande tronco è cavo, un fungo lo ha scavato da dentro, sino a renderlo un involucro vuoto. Eppure le foglie tenere e verdi sono cresciute rigogliose al giungere della primavera.
Come suo padre, moriva pieno di progetti, di foglie tenere e brillanti, mentre il male lo scavava da dentro e lo rendeva l’ombra di se stesso.
Lei adesso se ne sta dietro la finestra della cameretta che un tempo era la sua, oggi stanza degli ospiti in attesa che, magari, ne giunga uno per non andarsene, un ospite che ancora, pur atteso ogni mese, non arriva… Magari una bimba come lei, che però non avrà più l’abbraccio del grande albero.
Trattiene a stento le lacrime, dietro la tenda, per vedere la realtà con un velo pietoso che almeno ne sfumi i confini. Come quando il padre moriva e lei era lì, ma guardava il suo andarsene attraverso la rifrazione delle lacrime tra le palpebre socchiuse. Ancora poco e l’albero sarà stato tagliato alla radice.
Come una sera di alcuni anni prima, dopo la terribile diagnosi che non lasciava speranza. Quella sera, divenuta poi notte inoltrata, si ritrovò a pensare, mentre si lavava il viso, acqua per lavare l’acqua salata che aveva appena pianto: “È solo una questione di tempo, è solo un’attesa della sua morte”.
Quel pensiero tornava, guardandolo mentre camminava, da dietro, o mentre saliva in macchina, fiducioso che ce l’avrebbe fatta, che avrebbe risposto alle terapie e non sembrava vero nemmeno a lei che la morte stesse solo attendendo il giorno dell’appuntamento. Così difficile accoglierla, anche lei per un attimo a negare tutto, a dirsi: non è possibile.
Anche adesso. Non è possibile, l’albero non può non esistere più, tra poco. Il mio amico albero. E in quel momento la giovane donna che è diventata scoppia in un pianto irrefrenabile, un pianto bambino, straziante e acuto, singhiozzante e tenero.
Mentre lui, in apparenza, risponde. Allora lei apre la finestra, tremante, incredula, si fa accarezzare di nuovo dalle foglie. Si lascia appiccicare ancora dall’abbraccio di linfa. Sotto, urlano istruzioni, ma non la possono vedere coperta dalle foglie; per un attimo tutto si ferma, lei e l’albero stanno abbracciati. Un ultimo abbraccio. Come con suo padre, l’ultima volta.
Istanti e i flash del viaggio di una vita, le sue radici. Si affolla tutto nella mente: quando da piccola venne con il padre e la madre a visitare la casa nuova, i nonni, le scuole, le domeniche, la laurea, i fidanzati, le vacanze… gli anni.
Un vortice che fa girare la testa… E all’improvviso un bisbiglio, più forte del rumore della motosega: “Tornerò”. L’albero le dice il suo nome. Nome che deve restare nel segreto, nome incantesimo, nome simbolo. “Tornerò.”
“Abbi fede” come soleva dirle il padre. “Tornerò.”
Le urla e il tonfo la riportano crudelmente alla realtà. Tagliato, finito, morto. Si accascia sul letto, che non è più nella posizione di quando era piccola. La camera è stata rimpicciolita un po’ negli ultimi lavori di ristrutturazione dopo la morte dei nonni, e il letto spostato sull’altra parete. Si ritrova a chiedersi d’improvviso perché. Perché questa idea di cambiare qualcosa per forza di quel che si eredita. E poi scoprirsi così attaccati a quello che è stato.
Ora si sente esausta, svuotata, un pezzo di lei, un altro, è stato reciso.
Il torpore del dolore, quello straziante e sommesso della malinconia, l’ha colta sino al primo pomeriggio. Stralunata dal sonno fuori orario, si alza bruscamente e corre alla finestra.
Il vuoto davanti, e sotto, due piani più in basso, quel che resta. Il tronco tagliato. Niente più verde brillante, niente più linfa. Dopo la sequela di lutti, questo sancisce con l’immagine del taglio la storia funesta di quegli ultimi anni.
Che ne è della sua famiglia? Che ne è della luce che abitava i ricordi della sua infanzia?
In realtà il tempo della sua adolescenza aveva già segnato lo scompaginarsi della bellezza, senza l’arte che sa vedere nel caos, nel sovvertimento dell’armonia, la gestazione di una nuova armonia. Semplicemente l’ordine si era interrotto, per questioni di giustizia, di onore, in una forma muta di nonsenso, e la famiglia, da luogo d’amore, si era trasformata in covo di nemici, in fossa di serpi sommesse, e lei, al centro, giovane, innamorata di amori che non facevano altro che riflettere il tempo della delusione.
Onore, giustizia, lealtà e poi disonore, ingiustizia, tradimento. Gioco degli opposti per il filosofo, intercapedine di cambiamento per il poeta, per lei fu dolore, smarrimento, domande, dubbi, fiore reciso al gambo.
Il taglio dell’albero non l’aveva riportata solo al taglio finale della morte, ma prima, al taglio di una continuità, alla disgregazione del clan e al suo disperato, sebbene nascosto, conflitto: credere ancora alla legge della tribù che regola la vita di ogni famiglia, oppure staccarsene, cane sciolto, giovane lupa errante.
Conflitto indicibile, dove, a dispetto di tutto, si cercava, ci si imponeva, si sperava di mantenere tutto intatto come prima. Lei cresceva e si prestava al gioco dolente – ma, nell’adesso, così pietoso e comprensibile – di cercare di non cambiare nulla: la famiglia, lacerata, che cercava di restare assieme, senza un rito che la trasformasse, senza un dramma da mettere in scena per vederne la fine.
D’improvviso lo capì: si vide dolce e amorevole e devota, quando dentro era fulmine e tuono e voragine incandescente. Così cominciò la repressione, la sua, la meno letale del gruppo, forse. Prese a vivere due vite: una fatta di università, studio, amici, dedizione e l’altra di segreto, uomini più grandi, paure, arte, sogni, oscuro.
Il teatro la salvò, ma non ebbe il coraggio di seguirne fino in fondo il richiamo. Quando metteva in scena le eroine della tragedia greca nel suo teatro di parrocchia, che pure ormai vantava quasi una compagnia professionale, le dicevano che faceva quasi paura.
La follia o il fuoco sacro del dolore, della lacerazione, del tradimento, del conflitto nella sua carne, nel diaframma, nel sangue, rendevano la sua voce un tuono di strazio o il sospiro della morte. Poi lo studio, troppo pesante, che forse fu solo una scusa… e abbandonò.
Tornò tutto dentro e sotto: Medea, Clitemnestra, Antigone, e le altre sue dee ferite, le sue Erinni personali. Tutto sotto, schiacciato bene, mentre l’adolescenza non poteva risolvere un conflitto troppo grande anche per il suo fisiologico dipanarsi. A un certo punto qualcosa si era rotto in quella appartenenza familiare.
Sta cercando di ricordare il prima. Aggrotta la fronte in uno sforzo che è di tutto il corpo, come stesse afferrando qualcosa. È in quel momento che le viene in mente di andare a cercarlo nell’unico posto dove resta qualcosa.
Sono le quattro, fa ancora in tempo. Salta in auto, verso il cimitero. Non andrà sulle loro tombe subito, magari dopo, se farà in tempo. Deve cercare il prima.
Una veloce richiesta all’uomo svogliato del gabbiotto basta per capire che la ricerca di qualcuno sepolto lì, di cui non si sa più nulla se non il nome, è meno difficile del previsto. In fondo la tecnologia, che uccide il pensiero, alle volte è comoda. Un click ed esce un biglietto. Nome e area dell’ossario.
La più lontana, c’è persino un pullman interno per arrivarci: la città dei morti sta diventando una metropoli. I conigli, figli della primavera inoltrata, corrono sui prati che sono in realtà campi in attesa di essere riempiti di cadaveri, o dove quel che ne resta è stato appena riaperto e tirato su. Lo si capisce dal colore: i primi verdi, gli altri marroni di terra dissodata. Sotto, l’attesa di membra e ossa.
Il cielo sta diventando plumbeo. L’hanno detto in radio, mentre era in auto, che sarebbe arrivata nella sua regione un’ondata di maltempo, una tempesta.
La tempesta… che meravigliosa metafora della vita. La vita ordisce tempeste perfette per il cambiamento, per la trasformazione, a volte così tanto perfette da esserlo persino troppo e spazzare via tutto o quasi. L’eterna altalena tra morte ed evoluzione che tocca tutte le forme di vita.
Loro, i morti, stanno forse in muta attesa delle sue domande, dei suoi perché, lanciati come si lancerebbero sassi ai marmi. Forse la tempesta andrebbe accolta, forse ha ragione il salice che sa piegarsi e restare essere danzante. Forse Shakespeare nel Giulio Cesare, l’ultima rappresentazione a cui lei collaborò, sapeva come fare… Le vengono in mente i versi: “C’è una marea nelle cose degli uomini che, colta al flusso, mena alla fortuna; negletta, tutto il viaggio della vita s’incaglia su fondali di miserie”.1
Ah, Bruto, che diceva d’amare il nome dell’onore più di quanto temesse la morte. Com’è profondo il dissidio tra appartenere ed essere liberi.
Scende dal pullman, il cuore batte più forte, il vento del temporale sferza le guance e fa lac...