E tu cominci a sentire, nelle parole che hai detto, il respiro
di quelle taciute: sono lì, sono lì, bussano alla porta
non se ne vogliono andare, restano ferme fino a sera,
ti sfiorano il viso e si allontaneranno solo all’alba.
Restano lì e la stanza diventa un’aula di tribunale e tu
sei l’imputato. L’accusa è sempre la stessa: il silenzio.
Le attenuanti non contano: dovevi parlare, dovevi
tirar fuori la bestia, esporre il demone nero al pubblico
[giudizio,
mostrarlo alla primavera, spargerlo per il mondo, guarire.
Arrestiamo, per un attimo, la corsa
ritmata di questa maratona
guardiamo il foglietto del calendario
con i gatti, in cucina. E poi ricordiamo
con precisione la scena. Erano tanti
i ragazzi giunti in casa con le loro mani
desiderose di festa, le tartine, gli amaretti.
Tu guardavi smarrito i ritratti alle pareti
che ti sussurrano non è difficile, non è
difficile non è difficile, basta uscire
sul balcone e fissare una macchina ferma,
fissarla a lungo, tracciare una linea
verticale tra te e lei, chiudere gli occhi.
Lo farò in un giorno di pioggia, lo farò all’aperto, non voglio
sporcare la stanza, lo farò di notte nel Ticino. Nessuno
deve vedermi. Lo farò d’inverno, non voglio
il verde delle foglie, non posso sbagliare, l’arma è potente,
Benelli calibro 9, ho già disegnato il cerchio sulla pelle,
ho preparato tutto, ho concluso i miei compiti, cancellerò
ogni traccia sul computer, getterò il cellulare, getterò
tutti i quaderni, fogli, agende, tutto finirà nel nulla e non
chiedo perdono a nessuno, non lascio biglietti, lascio soltanto
una grande ciotola d’acqua e nove scatolette per Luna.
La stanza era spogliata di tutto e restavano il limone,
l’aceto e un foglio di alluminio e sei rimasto solo
con la donna dalla sciarpa nera, quella conosciuta
al cinema Ducale e presa per mano nel buio
mentre nel buio combattevi con l’infinito e vivevi
un’epoca di dalie bruciate, una lotta all’ultimo sangue
tra il buio integrale e il raziocinio di pesare sul bilancino
i grammi del catrame. Tutto era nero.
E tu all’improvviso sbuchi nella via delle maschere,
vedi la polvere in volo, vedi ancora il catrame
sul ginocchio nudo, entri in un silenzio di persiane
che solo il ticchettio della sveglia interrompe
e spezzi i tuoi vasi sanguigni e raggiungi il soffio buio
del distacco.
La serietà della morte ci ha accompagnato per tanti anni
con le voci interiori che all’improvviso esplodevano
l’abbiamo portata con noi nei supermercati e negli uffici postali
compilando moduli con una mano fuori dal tempo, l’abbiamo
taciuta per tanti anni tra i banchi di scuola e il campanello
dell’ultima ora, l’abbiamo taciuta per tanti anni
mentre gridava nel verde potente di un biliardo, l’abbiamo
sentita nella stretta musicale di un abbraccio, la serietà
della morte, ora ci attende con le sue mani oscure e un fermaglio
di legno nei lunghi capelli e ora usciremo dal teatro
e cammineremo da soli nel buio fino al luogo cruciale,
fino alla casupola vicino al fiume, dove finiremo
attenti a non sporcare nulla di sangue,
costringeremo il nulla a svelarsi.
La vita continuerà altrove. La mia strada incontra un divieto
di accesso e le bacche gelate dall’inverno ripetono
che la mia voce non supera il cerchio,
che la giovinezza ha trovato la sua funebre essenza
che questa maglietta rossonera non sarà più vista
dai compagni e nessun abbraccio la riempirà di esultanza
rimpiango solo quel battere tumultuoso del sangue
che divampava ogni volta negli spogliatoi,
prima delle tribune intraviste e del fischio di partenza.
Il mondo continuerà altrove e io saluto tutti voi nella corsa,
saluto la mia vita, breve, recisa, definitiva.
A te che hai visto sparire improvvisa una stagione
e poi l’hai vista giungere al suo senso definitivo, a te svelo
la formula che dai soldatini di creta mi ha condotto
all’episodio finale, eremita dei chioschi notturni, mi ha reso
un gemito che bisbiglia ai paracarri, clown e martire
di un dolore ereditato, tessera disgiunta di un mosaico
troppo grande: sono ventitré le mie parti di idrogeno
[e ventuno
le mie parti di carbonio, sono cinque le mie parti di azoto,
prendile in mano e disperdile nel mondo.
Non sarà una morte qualsiasi, diffonderò il mio dolore
nel mondo, pagherete il danno supremo,
il danno di avere macchiato la mia gioia, di averla spinta
nelle tenebre di un lago, di averla profanata
con l’artiglio delle ore vuote, con la lancia buia
del silenzio, con l’infinito tacere in cui abitate.
Non sarà una morte qualsiasi. Inghiottirò l’ostia
della vendetta, morirò in un fuoco prodigioso, farò dilagare
il mio tempo fermo fino a voi, mi cospargerò di benzina,
entrerò nel vostro tempio, entrerò nel vostro segreto.
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