Sparare a una colomba
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Sparare a una colomba

David Grossman

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Sparare a una colomba

David Grossman

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Informazioni sul libro

Da sempre la presenza di David Grossman sulla scena internazionale va oltre i suoi romanzi: i suoi saggi e interventi su politica, società e letteratura sono ormai diventati un punto di riferimento ineludibile per tantissimi lettori ai quattro angoli del mondo.

"La situazione è troppo disperata per lasciarla ai disperati" sostiene. La dimensione personale che è al centro della sua narrativa è indissolubilmente legata a quella politica. Ed è per questo motivo che, nei saggi e nei discorsi che compongono questo libro, Grossman non si limita ad analizzare la situazione di Israele cinquant'anni dopo la Guerra dei Sei Giorni, a descrivere le conseguenze dell'impasse politica in Medio Oriente o dell'abbandono della letteratura nell'era post-fattuale, o a parlare di Covid, ma finisce sempre per raccontarci qualcosa della sua esperienza personale. Questa appassionata e lucida difesa dei valori della libertà e dell'individualità, la strenua opposizione a disfattismo e disimpegno prendono corpo in questi testi, che faranno certamente breccia nelle menti e nei cuori dei suoi lettori.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835706670

Di vita e di morte

Conferenza tenuta all’Università di Harvard,
settembre 2015
Buona sera.
Permettetemi di cominciare con una storia.
Orah è una donna israeliana di circa cinquant’anni, madre di due figli e separata dal marito. Suo figlio minore, Ofer, sta per terminare tre anni di leva militare e i due programmano di festeggiare il congedo con un trekking di una settimana in Galilea, nel Nord di Israele.
Ofer ha prestato servizio nei Territori occupati e si è trovato in situazioni difficili e violente. È stato aggredito da palestinesi e coloni, ha passato giorni e notti di guardia ai posti di blocco. Ha fatto cose che spera di dimenticare.
In quei tre anni si è indurito, si è chiuso in se stesso, è diventato impenetrabile e sua madre non lo riconosce quasi più.
Orah pensa, o spera, che, passando un po’ di tempo con lui nella natura rigogliosa, riuscirà ad “ammorbidirlo”, a levargli quella scorza di estraneità militaresca in cui si è avvolto e che probabilmente gli era utile per resistere nel tragico conflitto israelo-palestinese. Crede di potergli praticare una specie di “massaggio” metaforico, per riavere il ragazzo sensibile e gentile che era prima che si arruolasse.
Durante il viaggio in Galilea, nella settimana che trascorrerà con lui, Orah intende quindi strappare Ofer alla morsa dell’esercito, dello Stato, della guerra.
Ma la mattina in cui sarebbero dovuti partire, con gli zaini ormai pronti, Israele lancia l’ennesima operazione militare in Cisgiordania e Ofer, già in licenza, decide di tornare nell’esercito per altre quattro settimane e combattere al fianco dei compagni.
Orah, preoccupata e frustrata, pur sentendosi tradita accompagna il figlio al punto di raccolta del suo battaglione, lo bacia e lo prega di avere cura di sé. Insomma, interpreta con scrupolo e precisione il ruolo del genitore israeliano che manda il figlio in guerra.
Fa esattamente ciò che fece mio padre con me allo scoppio della guerra dello Yom Kippur nel 1973 e ciò che feci io dieci anni fa con mio figlio all’inizio della seconda guerra del Libano. Tutti noi sappiamo esattamente come comportarci. Quali sono i gesti, le frasi e i cliché appropriati all’occasione: sono impressi in noi.
Dopo aver accompagnato il figlio, Orah torna a casa e, a partire da quel momento, sa con lancinante certezza che presto compariranno degli inviati dell’esercito per informarla della morte di Ofer.
Orah è uno dei due personaggi principali del libro A un cerbiatto somiglia il mio amore, una storia immaginaria su una situazione reale, concreta e tangibile, vissuta da centinaia di migliaia di israeliani: l’attesa di quegli inviati.
Ma la protagonista del libro, sorprendendo anche se stessa, si comporta in modo diverso.
Mentre è ancora a casa, in attesa – com’è stata educata e programmata a fare –, pensa che per comunicare e ricevere una brutta notizia occorre essere in due. Perciò ha un’idea, o meglio, una strana intuizione: che cosa succederebbe se lei non si facesse trovare? Se si rifiutasse di ricevere quella comunicazione? Per un folle istante ha la sensazione che il suo rifiuto potrebbe riportare indietro il tempo, scompaginare l’intera procedura e forse – forse – concedere a Ofer ancora qualche ora di vita prima che gli inviati dell’esercito scoprano dov’è lei e le conficchino dentro ciò che hanno da dirle.
Come ho detto, è un pensiero folle ma, improvvisamente, Orah si rende conto che è l’unico modo che ha di ribellarsi, l’unico che le sia rimasto. Si rifiuterà di farsi trovare a casa e di ricevere la notizia. Sarà la prima israeliana a farlo.
Allora fugge, scompare. E nella fuga trascina con sé, quasi rapisce, Avram, che è stato il suo amore di gioventù e forse della sua vita. Lo ha conosciuto quando lui aveva sedici anni ed era un vulcano di idee, di entusiasmo, di immaginazione, di inventiva. Durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, Avram è stato fatto prigioniero dagli egiziani ed è tornato a casa spezzato nel corpo e nell’anima. Da allora vive praticamente solo, non vuole alcun legame con la vita, e nemmeno capisce perché la vita insista tanto con lui.
Orah lo prende con sé, malgrado la sua riluttanza, e i due camminano come trasognati nei paesaggi della Galilea. Nella splendida natura della Galilea. Per la prima volta dopo tanti anni sono insieme e Orah inizia a parlare. Racconta di Ofer, confida ad Avram piccoli dettagli della vita del figlio.
Man mano che procedevo nella stesura del libro, il desiderio di Orah mi si faceva più palese: raccontando i dettagli della vita di Ofer, recitandoli come una preghiera, forse avrebbe potuto proteggerlo dalla morte, mantenerlo in vita.
E, a poco a poco, capivo anche qualcosa che non mi si era mai presentato in maniera tanto chiara quand’ero un giovane padre di tre figli: di solito tutti noi cerchiamo di essere dei “bravi genitori”. Ci preoccupiamo che il nostro bambino mangi in maniera equilibrata e sana, lo portiamo dal medico quando ha la febbre, insistiamo che metta un cappello quando sta al sole, lo copriamo di notte. Lo (o la) mandiamo a lezione di karate, di balletto, di pianoforte, andiamo a parlare con i suoi insegnanti per sapere come va a scuola, incoraggiamo i suoi talenti e teniamo molto ai suoi rapporti con gli amici e al suo “status sociale”...
Come dice Orah: “Migliaia di attimi e di ore e di giorni, milioni di azioni, un’infinità di gesti, di tentativi, di errori, di parole e di pensieri. Tutto per creare un unico essere umano”. E aggiunge: “Un essere umano che è così facile distruggere”.
Mentre scrivevo, mi sentivo trascinato dalla descrizione di tutte quelle azioni che, da padre, conosco molto bene. Percepivo la forza immane della quotidianità. Delle piccole cose della vita. E pensavo che noi genitori compiamo tutte queste centinaia e migliaia di gesti perché, ovviamente, vogliamo il meglio per nostro figlio e ci teniamo a eseguire bene il nostro compito.
Ma forse c’è dell’altro. Un pensiero sotterraneo, vago, non ben formulato e che fluisce nella nostra mente come un’ombra ai margini delle immagini della nostra famiglia, del nostro essere genitori. È come se, facendo tutte queste cose per nostro figlio, nel profondo del cuore noi intrattenessimo una sorta di incessante e segreto dialogo col destino, o con la morte, e dicessimo a quei due (o forse a Dio): da parte nostra faremo di tutto, ma proprio di tutto, per proteggere questo bambino, e tu, Dio (o destino, o morte), non toccarlo, non fargli del male. “Non stendere la mano contro il ragazzo...” E se un pericolo aleggia sulla sua testa, proviamo una paura terribile, una paura fisica. Temiamo che tutto ciò che abbiamo investito in lui all’improvviso si volatilizzi, scompaia.
Davanti alla determinazione omicida della morte tutti i nostri sforzi, il nostro impegno, la nostra dedizione risulterebbero vani, e forse insignificanti.
E ho pensato: forse per questo Orah fa ciò che fa, cammina raccontando concitata la vita del figlio. Intorno a lei imperversano i combattimenti, il mondo è impazzito, l’aria è intrisa di termini militari, di slogan, di frasi scandite da tamburi di guerra, e lei insiste a raccontare ad Avram, il suo compagno di viaggio, piccoli e grandi momenti della vita di Ofer...
Racconta della notte in cui è stato concepito, dell’istante in cui è nato, di quando lei lo allattava, al buio. Descrive tutto nei minimi dettagli. Ricorda i momenti dell’allattamento, quando sprofondava nelle pupille del figlio e aveva l’impressione che lui la vedesse e la capisse come mai nessuno prima. E sapeva di non essere mai stata bella come in quel momento, e che non lo sarebbe stata mai più.
Racconta ad Avram della prima volta che Ofer si era alzato in piedi e improvvisamente la sua prospettiva e la sua percezione del mondo erano cambiate. E anche la sensazione del posto che occupava nel mondo.
Racconta delle ore trascorse a fare i compiti con lui, cercando di aiutarlo a risolvere equazioni quando nemmeno lei aveva idea di come fare...
Ma non era la matematica ciò che importava in quei momenti, era il loro essere insieme, la loro complicità.
E mentre fa rivivere tutti quegli episodi, sente di “iniettare” forza, determinazione e vita nelle vene del figlio che si trova in pericolo di morte. Trasforma le parole in energia vitale. Pone la pienezza della vita come scudo a protezione di Ofer ricorrendo a vocaboli dalle sfumature personali, intime, precise. E così facendo crea una bolla di intimità in un’atmosfera di alienazione e di violenza. Insiste a descrivere la “situazione” con termini suoi, a non lasciarsi trascinare dal lavaggio del cervello che il meccanismo della guerra immancabilmente crea.
In ebraico ho intitolato questo libro Una donna fugge da una brutta notizia ma, mentre lo scrivevo, sentivo che Orah portava con sé quella notizia, non poteva sfuggirle. Forse l’aveva dentro fin dal momento in cui aveva messo al mondo Ofer.
Il titolo del libro in inglese è To the End of the Land – “Fino alla fine della terra”, perché racconta sia di un viaggio ai confini di Israele, sia della grande paura che ogni israeliano ha che la Terra di Israele abbia fine.
Ho descritto la vita di una famiglia che cerca di mantenere un angolo privato di tenerezza e di dolcezza in una realtà cruenta e brutale: quella della nostra esistenza nel violento conflitto che si protrae da più di un secolo tra Israele e i Paesi arabi.
Quando scrivo, come molti altri miei colleghi, cerco sempre i momenti piccoli e intimi dentro il turbine “storico”, politico e militare.
Alla fin fine credo che gli eventi più significativi della storia umana non siano avvenuti nelle sale di palazzi, in corridoi di parlamenti o su campi di battaglia, ma nelle cucine, nelle camere dei bambini, nelle stanze da letto.
Quasi sempre scrivo della vita in Israele. Di persone che cercano di condurre un’esistenza normale in una situazione anomala, e la maggior parte di loro non è nemmeno consapevole di quanto questo folle stato di cose le plasmi a sua immagine.
Scrivo di persone che cercano di condurre un’esistenza plausibile, tranquilla e sicura nella realtà attuale, in una cassa di risonanza storica che effonde continui echi di perdite umane, di violenza, di terrore.
Scrivo di persone che vogliono crescere i figli sui valori dell’amore, della fiducia, del dialogo, dell’apertura e della curiosità verso il prossimo e si chiedono se, così facendo, li preparino alla brutale realtà di questo luogo.
Scrivo di persone che vedo intorno a me – israeliani che appartengono a un popolo che nella sua lunga e tragica storia ha fatto di tutto per mantenersi vivo, mentre ora si limita a sopravvivere da un disastro all’altro, da una guerra a un’altra.
Scrivo di persone talmente abituate alla disperazione che hanno quasi paura a sperare perché sono certe che le loro speranze andranno deluse.
Ma poi mi fermo e penso: di che cosa sto parlando? Chi è disperato? Guarda com’è ricco Israele, prospero e militarmente forte. Guarda come riesce a essere democratico e aperto nonostante tutti i pericoli che lo minacciano. Guarda cosa succede nei Paesi vicini, in Siria, in Iraq, in Libia. Renditi conto che il posto in cui vivi è un paradiso.
E in effetti lo vedo, lo so. E ne sono grato.
Eppure. Eppure.
Malgrado la straordinaria energia e l’incredibile creatività in vari campi, il calore umano e l’intensa carica emotiva degli israeliani, avverto con sempre maggiore intensità – e credo di non essere l’unico – il gelo di correnti sotterranee e l’orrore di un grande sbaglio storico in cui siamo intrappolati dal 1967, da quando ci siamo trasformati in conquistatori.
Non fraintendetemi, le radici del conflitto, della tragedia e dell’odio nei confronti di Israele non affondano nell’occupazione avvenuta nel 1967. Sono molto più recondite e difficili da estirpare.
Israele, ovviamente, ha molti motivi di preoccuparsi e di temere i Paesi arabi, e pochissimi di fidarsi di loro. Il Medio Oriente è una regione turbolenta e violenta, popolata da elementi fanatici e crudeli, in gran parte ostili allo Stato ebraico. Anche nazioni relativamente moderate come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita rifiutano di interiorizzare il diritto di Israele di esistere. Sono forse disposte ad accettare, con riluttanza, la sua presenza, ma non ad ammetterne la legittimità.
E i palestinesi, non meno di noi, sono un partner difficile con cui condurre un negoziato, e quanto più la loro disperazione aumenta, tanto più Hamas ed elementi radicali e integralisti si rafforzano.
Perfino interlocutori arabi moderati con i quali ho avuto modo di dialogare nel corso degli ultimi trent’anni rifiutano di comprendere il profondo legame storico del popolo ebraico con questa terra. Anche loro considerano Israele una propaggine – se non una metastasi – dell’Occidente. Un rappresentante del colonialismo occidentale. E non capiscono che, sebbene lo Stato ebraico sia stato creato per lo più grazie al sostegno dell’Occidente (un Occidente, in effetti, in gran parte imperialista), la nostra aspirazione a Sion non attiene alla categoria del “colonialismo”, ma al risveglio nazionale di un popolo che durante secoli di esilio ha aspirato a tornare alla madrepatria.
Finché gli Stati arabi non assimileranno il fatto che noi apparteniamo a questa terra, non ci sarà vera pace. Ce ne sarà forse una formale, fredda, fragile, ma finché non accetteranno sinceramente e profondamente che noi ebrei, come popolo, come cultura, come religione, come lingua, siamo nati in Terra di Israele, che questa era la nostra casa, non ci sarà una pace solida.
Questa accettazione dovrebbe essere una condizione per l’avvio di negoziati (come vorrebbe Netanyahu)? Assolutamente no! Per quanto ne so io...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sparare a una colomba
  4. Prefazione
  5. Il colombo viaggiatore della Shoah
  6. Sempre resistere alle forze contrarie
  7. Combattere l’arbitrio
  8. Gettare un’àncora nel futuro. Riflessioni sulla libertà
  9. Respirare con entrambi i polmoni
  10. Un mondo cupo
  11. Di vita e di morte
  12. Una paura esistenziale
  13. La letteratura all’epoca della “post-verità”
  14. L’infinito umano. Letteratura e pace
  15. Diario Covid-19
  16. Crediti
  17. Copyright
Stili delle citazioni per Sparare a una colomba

APA 6 Citation

Grossman, D. (2021). Sparare a una colomba ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3378840/sparare-a-una-colomba-pdf (Original work published 2021)

Chicago Citation

Grossman, David. (2021) 2021. Sparare a Una Colomba. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3378840/sparare-a-una-colomba-pdf.

Harvard Citation

Grossman, D. (2021) Sparare a una colomba. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3378840/sparare-a-una-colomba-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Grossman, David. Sparare a Una Colomba. [edition unavailable]. Mondadori, 2021. Web. 15 Oct. 2022.