Ribellarsi
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Ribellarsi

La sfida di un'ecologia umana

  1. 252 pagine
  2. Italian
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Ribellarsi

La sfida di un'ecologia umana

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«La storia insegna che ogni ribellione è il desiderio ardito di detronizzare i tiranni che opprimono. Ri-bellarsi, per me, è avere voglia di "tornare al bello ".» Per essere di nuovo belli, «ri-belli» appunto, è necessario partire da qui. Con questo proposito Giulio Dellavite torna alla scrittura completando idealmente il percorso iniziato con il suo libro precedente, Se ne ride chi abita i cieli. E lo fa concentrando lo sguardo all'interno del nostro corpo, poiché si è reso conto di come ci sia bisogno di «un'ecologia umana integrale», di fatto una «ego-logia», per combattere l'inquinamento interiore che ci opprime, ci rende infelici o ci fa perdere la strada.

Nasce così un viaggio dentro se stessi, per un'ecologia della propria testa, della pancia, delle mani, del passo che ogni scelta fa fare, da cui emerge il bisogno di ripensare la struttura societaria quotidiana fatta di famiglia e di team, di coppie e di single, di affetti e lavoro, di sogni e paure, di progetti e fallimenti, di opportunità e criticità, di amore e di odio. L'esperienza drammatica della pandemia ci ha fatto mancare il fiato, perciò serve la voglia e il coraggio di «tornare al bello». In questo libro ci prova una donna, distinta e brillante, che riflette e pone domande. Ci troviamo sulla carrozza di un treno dove, fermata dopo fermata, salgono a bordo le personificazioni delle nostre parti del corpo. Ecco allora la famiglia del Signor Testa, con la madre Bocca e i tre figli Vista, Udito, Naso; poi la PANCIA (Progetto Atletico New-Educational: Calcio Incontro & Agonismo) che con la sua complessità energetica si presenta come una squadra di calcio con i suoi undici giocatori: Cuore, che è il capitano, i due Polmoni, i due Reni, poi Stomaco, Milza, Fegato, Intestino, Ombelico e Pudenda. Salgono quindi le mani, Dexter e Sinny, una coppia felice grazie al loro tenersi e mantenersi, supportarsi e sopportarsi. Per ultimo, la nostra protagonista incontra un single, il piede, nei panni del signor Passo, perché si può fare solo un passo per volta. Da questa intensa catena di incontri, scambi e dialoghi nasce un libro spiritoso, nel duplice senso di divertente e spirituale. Non ci resta quindi che metterci comodi e seguire l'autore in questo viaggio alla scoperta del nostro corpo, perché «fidarsi è bene, ma ribellarsi è meglio».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835706991
VI

Egologia

Sono partita da sola e ho iniziato a farmi domande, stimolata dal mio cappotto verde, poi mi sono lasciata interpellare dalla poliedrica famiglia Testa, dopo un po’ è scesa in campo Pancia, squadra compatta e tosta, che si è schierata in formazione occupando la maggior parte del vagone, e pure le Mani, coppietta legata, saliti alla fermata successiva hanno trovato posto, infine mi si è seduto accanto lui, Passo, single, ma non veramente solo. In questo spazio, nella sua calda penombra, ci siamo sentiti cullati e ognuno di noi si è percepito in qualche modo in relazione con tutti gli altri, pian piano, come se il viaggio progredendo creasse tra tutti una ragnatela ricamata.
Oggi va tanto di moda «fare rete», se ne sente l’esigenza ovunque e talvolta diventa un’espressione inflazionata, ma per comprenderne fino in fondo il senso andrebbe ricordata una novella di Johannes Jørgensen. Un piccolo ragno salì su un albero e da lì si calò e raggiunse una siepe dove iniziò a tessere la sua tela il cui lembo superiore era retto da un filo lucente. Realizzò un’opera bella e grande, un lavoro raffinato a tal punto da perdersi nell’azzurro del cielo. Nel tempo il ragnetto cresceva e la ragnatela si faceva sempre più articolata e invidiata. Una mattina il piccolo ragno si svegliò di cattivo umore e iniziò a controllare il suo capolavoro, tutto sembrava perfetto, finché non si accorse che dalla parte superiore della rete partiva un filo teso verso l’ignoto, di cui non ricordava la funzione e nemmeno l’esistenza. Conosceva gli angoli di snodo di tutta la tessitura, il livello di tenuta, il punto di forza al quale si ancoravano i fili; ma quel filo? «Dove andrà a finire? Sembra inutile!» Lo tranciò e tutto gli rovinò addosso. Aveva dimenticato che, giorni prima in un mattino soleggiato, proprio da quel filo aveva iniziato a tessere la sua tela. Adesso si trovava sulle foglie della siepe spinosa, avvolto nella sua stessa rete divenuta ormai un umido cencio. In un solo istante quel magnifico lavoro era andato distrutto e soltanto perché lui non aveva capito l’importanza di quel filo dall’alto.
In questo vagone, come un cordone ombelicale, un filo dall’alto ha pian piano dato quanto necessario a ciascuno di noi per ritrovarsi unito agli altri: testa, pancia, mani, piede… e me. Un corpo. L’ultima stazione ormai è vicina, si vedono le luci. Un cammino buio, un tunnel, con in fondo la luce: questa è l’immagine che hanno in comune l’inizio e la fine della vita. Spesso racconta così chi ha avuto esperienze di coma e secondo alcuni studiosi questo evocherebbe l’uscita dall’utero. Tornando al nostro viaggio, questo vagone si è fatto utero, con il suo tepore e la sua penombra, al suo interno un corpo ha preso forma, pezzo dopo pezzo, finché ci siamo trovati uniti per uscire quando un fischio annuncerà l’arrivo alla stazione. Certo il cordone ombelicale è da tagliare, ma il filo dall’alto no, quello resta, sta alla libertà di ciascuno riuscire a gestirlo.
Il treno nell’avvicinarsi alla stazione ci fa traballare, ci strattona un po’, quasi per prepararci a quel mondo che ci aspetta, un po’ come le doglie svegliano il feto. Ma… ci sarà qualcuno ad aspettare? È l’eterna scommessa. Come non ricordare quella fantasiosa immagine attribuita a un non meglio precisato autore ungherese, che per qualcun altro è invece del teologo olandese Henri Nouwen. Nel ventre di una madre c’erano due feti, due gemelli. «Ma secondo te c’è una vita dopo il parto?» chiede uno. L’altro risponde: «Certo che deve esserci qualcosa dopo, non può esaurirsi tutto dentro questo utero buio». «Sciocchezze,» ribatte il primo «non ne abbiamo prove.» «Io non lo so, ma la speranza mi dice di fidarmi di chi parla del passaggio come di un venire alla luce. Come sarà chissà, ma la speranza dell’al di là mi spinge.» «Sciocchezze! […] Se c’è davvero vita dopo il parto allora perché nessuno è mai tornato da lì a dircelo? Nascere è la fine del tempo che abbiamo a disposizione e poi non c’è nient’altro che il nulla.» Il feto credente aggiunge: «La fede invece ci promette che troveremo una mamma che si prenderà cura di noi come ora siamo in lei e viviamo grazie a lei». «Cosa?! Ma tu credi davvero a una mamma?! […] Be’, non si vede! Quindi è logico che lei non esiste.» «Eppure io a volte la percepisco. Provaci, se stai in silenzio puoi avvertire la sua presenza e sentire la sua voce. Io ci credo! Io ho proprio voglia di venire alla luce.»
Gli antichi cabalisti, invece, come simbolo della nascita avevano scelto l’uovo, un’immagine tanto intensa ed efficace che i cristiani dei primi secoli lo hanno assunto per descrivere il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù. Nel guscio riconoscevano il sepolcro-utero; nel bianco la luce dell’alba dopo la notte buia: è «albume» infatti; nel giallo la vita nuova, la «sorpresa». Se il guscio si rompe per una forza esterna, la vita che ha dentro appassisce e si fa una frittata. Se il guscio invece si rompe per una forza interna nasce una vita nuova come speranza e scommessa di futuro. È la vita buona, tutta da gustare, proprio come le uova di cioccolato. È la vita che non smette di darti strade per camminare anche quando tu non hai più voglia di muoverti. È la vita che non smette di darti le stelle anche quando tu non hai più voglia di guardare il cielo. È la vita che non smette di darti fiducia, anche quando non ne hai più nemmeno in te stesso. Però bisogna rimboccarsi le maniche, anzi bisogna rimboccarsi l’anima. Mi è rimasto fisso nella mente un grande cartello posto all’ingresso di una importante società. Era scritto così:
Tutti i giorni
seduti in ufficio
allo stesso posto
come è sempre stato
perché a noi non piace
cambiare punto di vista
preferiamo
continuare così
e non
serve adottare un nuovo modello
per lavorare meglio.
In fondo al cartello, però, c’era scritto: «Cambia prospettiva! Rileggi le righe dal basso verso l’alto». Geniale intuizione! Chiede però un ribaltamento.
Con la testa piena di mille faccende e progetti, con la pancia piena di sentimenti, sensazioni, relazioni, bocconi da ingurgitare o da succhiare, con le mani schizzate a digitare in continuazione e con il piede sempre sollevato in corsa, di colpo, forse anche con un po’ «di colpa», ci siamo trovati bloccati, immobili, impantanati, paralizzati, terrorizzati, imprigionati, isolati. Letteralmente ribaltati. Si è persino rovesciato il senso di alcune parole, infatti non è più molto cortese dire a qualcuno «cerca di essere positivo» o «l’importante è circondarsi di persone positive», né avrei mai pensato di vedere qualcuno disposto a pagare pur di farsi «tamponare».
Nella mia Bergamo siamo stati travolti da questo uragano devastante. Nei mesi di marzo e aprile 2020 ci siamo sentiti vulnerabili, vedendo sgretolarsi ogni presunzione. La pandemia ha riportato tutti sullo stesso piano: «la morte è una livella», come diceva magistralmente Totò. Nei letti della terapia intensiva o nelle bare senza funerali, infilati c’erano ricchi e poveri, potenti e semplici.
Quando la violenza assassina della pandemia entra in casa e colpisce uno degli affetti importanti, la testa corre verso quel letto di ospedale dove nessuno può arrivare e chi soffre è solo in mezzo a medici intabarrati come astronauti che corrono esausti lottando contro il male; la pancia è come se sentisse quella mancanza di fiato che fa chiudere i polmoni, quella febbre che toglie le forze, quell’annaspare che fa cedere il cuore di chi è in terapia intensiva; le mani vorrebbero tendersi ma non è possibile, nemmeno verso i morti. Un tuo caro sta male; data la situazione tragica degli ospedali ti fai prendere da mille dubbi e cerchi di aspettare fin che puoi, ma a un certo punto devi arrenderti al male; chiami l’ambulanza e viene portato via di casa, non sai in che ospedale verrà consegnato, potrebbe essere anche in un’altra regione, attendi con ansia la chiamata di un medico che ti dia notizia, poi continui a sperare che nei giorni successivi qualcuno si faccia sentire per dirti del quadro clinico, invece che annunciarti il decesso e comunicarti che è stato già sigillato in un bara, così come era, dentro un sacco, e portato al cimitero. Poiché il tuo familiare era positivo, tu ti trovi automaticamente in quarantena, senza la possibilità di un test di riprova circa la tua situazione, se non hai sintomi gravi. I forni crematori della città e dei dintorni non riescono a rispondere alle esigenze, pur funzionando h24. Così alla televisione vedi quell’immagine: un corteo di camion dell’esercito che con e per pietà trasporta bare per la cremazione lontano, così che possano presto avere la dignità della sepoltura. Ti domandi se sotto quei teloni mimetici c’è chi ami. Chissà. Forse è ancora tra i tanti rimasti ammassati in chiesa per evitare almeno di stiparli in magazzini in attesa di cremazione. Le esequie sono vietate per evitare assembramenti, quindi è possibile solo una veloce benedizione quando si chiude per sempre la lapide del loculo. Ma tu sei in isolamento e quindi non puoi partecipare nemmeno a quella. Il prete è lì, da solo, a rappresentarti, e magari nemmeno sa chi sei; è lì come l’evangelico pastore con la pecorella sulle spalle, come il mitologico Caronte o più tristemente come un monatto di manzoniana memoria. Tu, chi ami, da quando hai chiamato la Croce Rossa per il suo bene, non lo hai più visto, né sentito. Lost letteralmente e non solo simbolicamente «scomparso».
Il pessimismo, il male, la negatività portano all’accartocciamento della testa che cade in preda a mille paure e ansie; portano al contorcersi della pancia che comincia a sentire sintomi per il panico; portano al rattrappimento delle mani che invece che farsi carezza rischiano di chiudersi a pugno, perché la convivenza coatta prolungata tra le stesse mura fa diventare pesante anche l’aria di casa; portano alla paralisi dei piedi sul divano che si atrofizzano avvolti da coperte di noia.
In questo epicentro del contagio e vetta della triste piramide delle vittime, un hashtag è stato più invasivo del virus: #molamia, che in dialetto significa «Bergamo non mollare!». Quel mola però non è solo verbo all’imperativo esortativo, ma può essere anche un aggettivo: mia mola, non è molle. Quindi, mai mollare e mai molle, come è stato dimostrato nella costruzione, in tempi record, dell’ospedale degli Alpini presso la Fiera cittadina. Un’opera con la «tripla A», non tanto e non solo nel senso di indice di massima qualità, ma anche e soprattutto quelle «tre A» sono le A di Alpini, Artigiani, Atalantini: 270 ditte specializzate di artigiani, che in quel momento vedevano il lavoro bloccato dall’isolamento e nonostante fossero duramente colpite dalla pandemia hanno dato la loro disponibilità gratuita e volontaria; 1000 persone circa, che hanno lavorato 10 giorni per più di 16.000 ore. Tutto gratis. Anzi mettendoci spesso anche il materiale che si portavano da casa, per offrire il proprio supporto e per accelerare i tempi per il bene comune. E i tifosi dell’Atalanta, oltre ai molti che si sono offerti come manovali in aiuto, hanno donato il rimborso, che sarebbe spettato loro, del costo del biglietto e del viaggio per la partita storica agli ottavi di finale di Champions a Valencia, giocata invece a porte chiuse a causa del Covid. In realtà dietro le «tre A» si è attivata una ulteriore rete di sostegno per chi si era dedicato: chi provvedeva al cibo e ai bisogni di chi lavorava, chi cercava contatti per risolvere i problemi, chi dava sostegno economico, sia imprenditori che gente semplice. Lo stesso per l’ospedale cittadino Papa Giovanni XXIII e per quelli della provincia. Insomma una vera e propria «accademia della solidarietà» dalla quale chi si è lasciato coinvolgere ha ottenuto un master in umanità.
La pandemia ci ha ricordato che la vita è incommensurabile, nasconde cioè un qualcosa di non misurabile, che supera ogni previsione e ogni esperienza, nel bene e nel male. Quante volte istintivamente esprimiamo le difficoltà dicendo: «È fuori controllo», perché il controllo ci sembra il criterio più adeguato per mantenere la vita dentro argini conosciuti e rassicuranti. Qualcuno ne è uscito rotto, piagato e piegato. Qualcun altro incattivito, agitato, sfasato e molto più egoista. C’è chi si è chiuso nella «sindrome della grotta» per non affrontare la realtà e chi con irritante spavalderia ha il coraggio di fare il negazionista, senza alcun rispetto per il dolore altrui o per la fatica di chi ha combattuto sul fronte questa guerra. Ma c’è anche chi ha azionato un «antidoto omeopatico», un rimedio che scaturisce da dentro senza aver bisogno di principi attivi esterni, facendo nascere dall’isolamento e dal distanziamento sociale uno stile dello stare insieme diverso. Per i latini omeopatia significava similia similibus curantur, «i simili si curino con i simili». Nella radice c’è pathos, che non è patire ma è passione, densità di sentimenti. Così torniamo a quel Berghem, mia mola!, Bergamo non è molle! Dopo la solidarietà è maturata la solidità. Una solidità che è prossimità, una solida prossimità che mi ha fatto vedere persone a pezzi aiutare chi aveva solo una crepa.
Una solida prossimità che ha avuto il volto di famiglie che neanche si salutavano sulle scale del condominio, e che si sono offerte di fare la spesa ai vicini anziani per non esporli al rischio o per aiutare in situazioni di bisogno.
Una solida prossimità che ha avuto la densità di tante piccole gocce che hanno formato un mare di donazioni che ha permesso di richiamare in servizio personale sanitario in pensione e pagare quanto servisse per la loro opera.
Una solida prossimità che ha fatto sì che persone che non si sentivano da tantissimo tempo superassero silenzi, distanze e magari incomprensioni con un «volevo sapere come stavi, perché ho pensato a te».
Una solida prossimità che ha visto la Chiesa in prima linea, con i preti che, non potendo dire Messa, si sono inventati dirette streaming su Facebook o hanno fatto proposte da remoto soprattutto per i ragazzi o hanno passato giornate al telefono a consolare e aiutare. E quando si è cominciato a uscire, la diocesi di Bergamo ha aperto un fondo di microcredito per famiglie e piccole imprese, chiamato «Ricominciamo insieme», partendo dal gesto forte proprio dei preti che hanno donato tre stipendi come testimonianza efficace.
Una solida prossimità che ha impreziosito le strette di mano, paradossalmente proprio nel loro essere evitate come pericolose, perché ci si è resi conto di quanto siano essenziali, solo se calde e convinte, per risollevarsi.
Una solida prossimità che ha fatto gustare la vita in modo diverso a chi ha voluto farsi delle domande: che senso ha affannarsi se poi in un attimo tutto va in panne? Che senso ha rincorrere il superfluo se quando meno te lo aspetti ti si sgretola l’indispensabile?
Una solida prossimità che ci ha lanciato una scommessa incredibile, cioè che bisogna essere vivi per morire. E ci siamo accorti che forse non lo eravamo davvero. Dopo aver visto troppa gente in rianimazione, dopo aver pianto tanti amici, dopo essere andati in panico perché il virus stava colpendo gente di casa, io ho avvertito la necessità di ri-animarmi, di ridarmi anima. Avevo proprio bisogno di ribellarmi, di tornare al bello! Qui sta la differenza tra solidarietà e solidità. La solidarietà sarà un ricordo orgoglioso del passato, la solidità è un investimento sul futuro che ha bisogno di essere sanato e non solo igienizzato.
Viene a galla inaspettatamente, dalla più oscura profondità della mia interiorità, una email inviatami da un’amica proprio in quei giorni. A volte mi gira delle riflessioni che le manda ogni settimana un prete che conosce. Sono commenti piuttosto laico-culturali sul Vangelo della domenica. Il racconto che voglio ripetere a voi però è un testo spesso attribuito a Jung, ma in realtà è di Alessandro Frezza.
«Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto.» «Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?» «Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari.» «E se foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?» «Non me lo perdonerei mai, anche se per me l’hanno inventata questa peste! Capitano, mi hanno privato di qualcosa!» «E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo!» «Mi prendete in giro?» «Affatto! Se vi fate privare di qualcosa, senza rispondere adeguatamente, avete perso. […] Io lo feci nella quarantena di sette anni fa. […] Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di godermi un po’ di primavera a terra. Invece ci vietarono di scendere. […] Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un’abitudine. Allora, invece di lamentarmi, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita. Poi mi adoperai per vincere. Mi imposi di mangiare la metà o di selezionare cibi che non sovraccaricassero. Il passo successivo fu una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all’alba. La sera era l’ora delle preghiere (ricordavo da bambino), l’ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie e per tutta la mia vita. Avevo preso l’abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Infine, invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, cominciai a pensare a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ribellarsi
  4. Introduzione
  5. I. Un viaggio ecologico
  6. II. Ecologia della Testa
  7. III. Ecologia della Pancia
  8. IV. Ecologia delle Mani
  9. V. Ecologia del Piede
  10. VI. Egologia
  11. Postilla
  12. Note
  13. Copyright