Forse dovresti parlarne con qualcuno
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Forse dovresti parlarne con qualcuno

Una psicoterapeuta, il suo psicoterapeuta, la nostra fragilità messa a nudo

  1. 492 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Forse dovresti parlarne con qualcuno

Una psicoterapeuta, il suo psicoterapeuta, la nostra fragilità messa a nudo

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Informazioni sul libro

Forse c'è un motivo se questo libro è diventato un fenomeno internazionale del passaparola. Perché con tutto il suo candore, il suo umorismo e la sua saggezza ci aiuta a comprendere cosa vuol dire essere umani: quanto possiamo essere fragili, ma soprattutto quanto possiamo essere forti quando decidiamo di cambiare, in meglio, le nostre vite.

Lori Gottlieb, un giorno, ha deciso che per aggiustare la sua vita doveva smettere i panni di esperta psicoterapeuta per diventare una paziente in terapia da un suo collega, il dottor Wendell. Forse dovresti parlarne con qualcuno è il racconto di una trasformazione, di come ognuno di noi lotta quotidianamente contro le difficoltà della vita per crescere, migliorare e liberarsi da tutte le sue prigioni fisiche e psicologiche. Grazie alle sue conoscenze di psicoterapeuta e alla sua esperienza di paziente, Lori Gottlieb ci conduce in questo percorso accidentato, riuscendo al tempo stesso a commuovere e divertire. Pagina dopo pagina scopriamo così tutte le verità e le menzogne che raccontiamo a noi stessi e agli altri, ogni giorno, per mantenere un equilibrio precario tra le nostre passioni, i nostri obblighi, le nostre paure, i desideri e le speranze. Cosa significa, insomma, essere umani.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835706779

PRIMA PARTE

Niente è più desiderabile che essere liberati da una sofferenza, ma niente fa più paura che essere privati di un sostegno.
JAMES BALDWIN
1

Idioti

DALLA CARTELLA DI JOHN:
Il paziente riferisce di sentirsi “molto stressato” e afferma di avere difficoltà a dormire e ad andare d’accordo con la moglie. Manifesta fastidio nei confronti degli altri e chiede aiuto per riuscire a “gestire quel branco di idioti”.
“Sii compassionevole.”
Faccio un respiro profondo.
“Sii compassionevole, sii compassionevole, sii compassionevole…”
Ripeto questa frase dentro di me come un mantra, mentre il quarantenne che è seduto di fronte mi parla delle persone che lo circondano, da lui definite “idioti”. Vorrebbe sapere perché il mondo è pieno di idioti: sono forse nati così? Magari, riflette, dipende invece da tutti gli additivi chimici messi nei cibi che mangiamo.
«Per questo cerco di mangiare biologico» dice. «Così non divento un idiota come gli altri.»
Mi sono persa: di quale idiota sta parlando? Dell’igienista dentale che fa troppe domande (“Nessuna delle quali retorica”), del collega che fa solo domande (“Non afferma mai niente, perché in quel caso significherebbe che ha qualcosa da dire”), dell’automobilista in coda davanti a lui che si è fermato con il giallo (“Non sa cos’è la fretta!”), del tecnico del Genius Bar della Apple che non è riuscito a sistemargli il portatile (“Un vero genio!”).
«John» esordisco, ma lui ha già iniziato a raccontare una storia sconclusionata su sua moglie. Non riesco a prendere la parola, eppure è venuto da me per farsi aiutare.
Tra l’altro sono la sua nuova terapeuta. (La precedente, che è durata solo tre sedute, era “carina, ma idiota”.)
«E a quel punto Margo si arrabbia, si rende conto?» prosegue lui. «Ma mica mi dice che è arrabbiata, semplicemente si comporta da arrabbiata, e io dovrei chiederle cosa c’è che non va. Ma so che, se glielo chiedo, lei le prime tre volte dirà “Niente”, e poi forse la quarta o la quinta se ne verrà fuori con: “Lo sai cosa c’è che non va”. E io dirò: “No che non lo so, altrimenti non te lo chiederei!”.»
A quel punto sorride. Fa davvero un gran sorriso e io cerco di lavorare su quello: qualunque cosa, pur di trasformare il suo monologo in un dialogo e stabilire un contatto con lui.
«Il suo sorriso mi incuriosisce» gli dico. «Perché lei mi sta dicendo che molte persone la fanno sentire frustrato, tra cui Margo, eppure adesso sorride.»
Il suo sorriso si allarga ancora di più. Ha i denti più bianchi che abbia mai visto, splendono come diamanti. «Sorrido, Sherlock, perché so esattamente che cosa disturba mia moglie.»
«Ah!» rispondo io. «Quindi…»
«Aspetti, aspetti. Adesso arriva il meglio» dice interrompendomi. «Quindi, come dicevo, so che cosa non va, ma non voglio ascoltare altre lamentele. Perciò stavolta, invece di chiedere, ho deciso di…»
Si ferma e dà un’occhiata all’orologio che si trova sulla mensola alle mie spalle.
Voglio approfittare dell’occasione per aiutarlo a calmarsi: potrei fare un commento su quell’occhiata (si sente forse sotto pressione, qui?) o sul fatto che mi ha appena chiamata “Sherlock” (era irritato con me?). Oppure potrei rimanere sul vago, su quello che in terapia chiamiamo “contenuto”, cioè sulla storia che sta raccontando, e cercare di capire meglio perché equipara i sentimenti di Margo alle lamentele. Ma, se mi attengo al contenuto, in questa seduta non stabiliremo alcun contatto e John, da quel che mi pare di capire, è una persona che fatica a entrare in contatto con le persone che lo circondano.
«John» dico, riprovandoci. «Mi chiedevo se possiamo tornare un attimo a quello che è appena successo…»
«Ah, benissimo» dice, interrompendomi. «Mi restano ancora venti minuti.» E riattacca con la sua storia.
Sento che sta per arrivare uno sbadiglio, uno di quelli grossi, e mi ci vuole una forza sovrumana per tenere serrata la mascella. Sento i muscoli che fanno resistenza, il viso che assume espressioni strambe, ma per fortuna riesco a trattenermi. Purtroppo, però, mi viene fuori un rutto sonoro, come se fossi ubriaca. (E non lo sono. In questo momento sono tante cose spiacevoli, ma certo non sono ubriaca.)
Per via del rutto, la bocca inizia a spalancarsi di nuovo. Serro le labbra così forte che mi lacrimano gli occhi.
Ovviamente John non se ne accorge. Sta ancora blaterando di Margo. “Margo ha fatto questo, Margo ha fatto quello. Io ho detto questo, lei ha detto quest’altro. Allora io ho detto…”
Una volta, durante il tirocinio, una supervisora mi disse: “In tutti c’è qualcosa di buono”, e con mia grande sorpresa ho scoperto che aveva ragione. È impossibile conoscere qualcuno a fondo e non apprezzarlo. Dovremmo prendere dei nemici giurati, rinchiuderli in una stanza e far raccontare loro storie ed esperienze formative, le paure e le lotte: di colpo anche gli avversari più coriacei andrebbero d’amore e d’accordo. Io ho trovato qualcosa di buono in tutte, e dico tutte, le persone che ho incontrato come terapeuta, compreso un uomo che si è macchiato di un tentato omicidio. (Scavando sotto la sua rabbia, si è rivelato davvero adorabile.)
La settimana precedente, durante il nostro primo incontro, ho soprasseduto: John mi ha detto di essere venuto da me perché a Los Angeles ero una “signora nessuno”, perciò uscendo dalle nostre sedute non avrebbe corso il rischio di imbattersi in uno dei suoi colleghi dell’industria televisiva. (Pensava che i colleghi andassero dai “terapeuti famosi, quelli esperti”.) Io ho preso semplicemente nota del suo commento per servirmene eventualmente in futuro, quando si sarebbe mostrato più disponibile a farsi coinvolgere. E non ho battuto ciglio nemmeno alla fine di quella seduta, quando mi ha allungato una mazzetta di banconote dicendomi che preferiva pagare in contanti perché non voleva che sua moglie sapesse che andava in terapia.
«Lei sarà come un’amante» mi ha proposto. «Anzi, sarà la mia puttana. Senza offesa, ma lei non è il tipo di donna che sceglierei come amante… se capisce cosa intendo.»
Io non ho capito che cosa intendesse (voleva una donna più bionda? Più giovane? Con i denti più bianchi e luccicanti?), ma ho intuito che quel commento era solo uno dei meccanismi di difesa che John metteva in atto per evitare di entrare in contatto troppo stretto con qualcuno o di riconoscere di aver bisogno di un altro essere umano.
«Ah ah, la mia puttana!» ha detto, fermandosi sulla soglia. «Devo solo venire qui tutte le settimane e sfogare la frustrazione accumulata, e nessuno lo saprà! Non è divertente?»
“Come no” avrei voluto dirgli, “un vero spasso.”
Eppure, sentendolo ridere mentre si allontanava lungo il corridoio, ero certa che alla fine avrei imparato ad apprezzarlo. Sotto quella scorza sgradevole sarebbe senz’altro emerso qualcosa di piacevole, persino di bello.
Ma questo è successo la settimana scorsa.
Oggi si comporta da vero stronzo. Uno stronzo con una dentatura meravigliosa.
“Sii compassionevole, sii compassionevole, sii compassionevole.” Ripeto il mio mantra silenzioso e poi mi concentro di nuovo su John. Sta parlando di un errore commesso da uno dei tecnici della sua trasmissione (un tizio il cui nome, secondo John, è semplicemente “L’idiota”), e proprio in quel momento ho una folgorazione: la filippica di John mi suona stranamente familiare. Non parlo delle situazioni che mi descrive, ma dei sentimenti che suscitano in lui – e in me. So quanto mi faccia sentire potente incolpare il mondo esterno delle mie frustrazioni, declinare ogni responsabilità nel ruolo che svolgo nella commedia esistenziale intitolata Questa mia vita incredibilmente importante. So che cosa significhi crogiolarsi in uno sdegno auto-legittimato, certa di avere assolutamente ragione e di aver subito un torto incredibile, perché è proprio così che mi sono sentita per tutto il giorno.
Quello che John non sa è che sono a pezzi da ieri sera, quando l’uomo che pensavo di sposare mi ha mollata. Oggi sto cercando di concentrarmi sui pazienti (concedendomi di piangere solo nei dieci minuti di pausa tra una seduta e l’altra e poi eliminando con cura il mascara sbavato prima che entri il paziente successivo). In altre parole, sto affrontando il mio dolore come credo che anche John affronti il suo: soffocandolo.
Come terapeuta so molte cose sul dolore, sui tanti modi in cui è legato alla perdita. Ma so anche una cosa che non è altrettanto nota, e cioè che il cambiamento e la perdita viaggiano insieme. Non c’è cambiamento senza perdita, il che spiega come mai spesso le persone dicono di voler cambiare ma rimangono esattamente le stesse. Per aiutare John dovrò cercare di capire quale sia la sua perdita, ma prima di tutto devo comprendere la mia. Perché, ora come ora, l’unica cosa a cui riesco a pensare è il modo in cui si è comportato il mio fidanzato ieri sera.
Quell’idiota!
Torno a concentrami su John e penso: “Ti capisco, fratello”.
Un momento, potreste pensare: perché ci racconti queste cose? Una terapeuta non dovrebbe tenere per sé la propria vita privata? Non dovrebbe essere come un foglio bianco che non rivela mai niente di se stessa, un’osservatrice imparziale che evita di giudicare i propri pazienti, anche solo dentro di sé? E poi, di tutte le persone al mondo, non sono proprio i terapeuti quelli che dovrebbero avere in mano la propria vita?
Da un certo punto di vista, sì. Quello che succede nello studio di un terapeuta dovrebbe essere solo nell’interesse del paziente, e se un professionista non è capace di separare le proprie difficoltà da quelle delle persone che gli si rivolgono, allora dovrebbe senz’altro scegliersi un altro mestiere.
D’altra parte, però – qui, in questo momento, tra me e voi che mi leggete –, queste pagine non sono una seduta d’analisi, ma la storia di un percorso terapeutico: il modo in cui guariamo dalle nostre ferite e dove questa guarigione ci porta. Come in quelle trasmissioni di National Geographic che mostrano lo sviluppo embrionale e la nascita di rare specie di coccodrilli, anch’io voglio mostrare il processo con cui gli esseri umani, nel loro tentativo di evolversi, spingono contro le pareti del loro guscio finché non riescono a romperlo in silenzio (ma a volte tra grida e strepiti) e lentamente (ma a volte all’improvviso).
Quindi, se da un lato può essere spiacevole immaginarmi con il mascara che mi cola sulle guance tra una seduta e l’altra, è proprio da qui che inizia la storia di quel manipolo di esseri umani in difficoltà che state per incontrare: dalla mia umanità.
I terapeuti, ovviamente, affrontano le sfide quotidiane della vita come chiunque altro. Questa familiarità con i problemi è, anzi, alla base del rapporto che stabiliamo con gli sconosciuti che ci affidano le loro storie e i loro segreti più intimi. Il nostro percorso formativo ci fornisce teorie, strumenti e tecniche, ma dietro alla nostra competenza faticosamente conquistata c’è comunque il fatto che sappiamo benissimo quanto sia difficile essere delle persone. Il che significa che ogni giorno andiamo al lavoro così come siamo fatti, con le nostre vulnerabilità, i nostri desideri e le nostre insicurezze, e ovviamente con le nostre storie. Di tutte le mie credenziali di terapeuta, quella più significativa è che sono un’esponente certificata della specie umana.
Ma rivelare questo lato umano è tutt’altra storia. Una collega mi ha detto che, quando il suo medico l’ha chiamata per dirle che non sarebbe riuscita a portare a termine la gravidanza, si trovava da Starbucks ed è scoppiata a piangere. Una paziente l’ha vista, ha cancellato l’appuntamento successivo e non è più tornata da lei.
Ricordo di aver sentito lo scrittore Andrew Solomon raccontare la storia di una coppia sposata che aveva conosciuto a una conferenza. Nel corso della giornata, diceva, ognuno dei due gli aveva confessato, all’insaputa dell’altro, di prendere antidepressivi, dicendo che non voleva che il coniuge lo sapesse. È venuto fuori che nascondevano lo stesso farmaco nella stessa casa. A prescindere da quanto la nostra società sia aperta nei confronti di questioni che un tempo erano considerate private, lo stigma di cui sono vittima le nostre battaglie emotive rimane incredibilmente potente. Non abbiamo problemi a parlare con chiunque dei nostri problemi fisici (riuscite a immaginare due coniugi che si nascondono a vicenda un farmaco contro il reflusso gastro-esofageo?) e persino delle nostre vite sessuali, ma provate ad accennare all’ansia, alla depressione o a un dolore impossibile da superare, e probabilmente negli occhi di chi vi sta di fronte leggerete le parole: “Mettiamo fine a questa conversazione al più presto”.
Ma di che cosa abbiamo paura? Se andiamo a sbirciare negli angoli bui dentro di noi e accendiamo la luce, non troveremo solo scarafaggi: anche le lucciole amano il buio. In quegli angoli c’è bellezza, ma per vederla dobbiamo andare a guardarli.
Il mio lavoro, il lavoro del terapeuta, consiste appunto nell’andare a guardare.
E non solo dentro i miei pazienti.
Ed ecco un fatto di cui si parla poco: anche i terapeuti vanno da altri terapeuti. Di fatto siamo obbligati a farlo durante il tirocinio per poter ottenere l’abilitazione, in modo da renderci conto in prima persona di che cosa proveranno i nostri futuri pazienti. Impariamo ad accettare i feedback, a sopportare il disagio, a essere consapevoli dei punti ciechi e a scoprire che impatto hanno le nostre storie e i nostri comportamenti su noi stessi e sugli altri.
Ma, una volta che otteniamo l’abilitazione, le persone vengono a cercare il nostro consiglio e… noi continuiamo ad andare in terapia. Per forza di cose non lo facciamo in modo continuativo, ma in vari momenti della carriera molti di noi si siedono sul divano di qualcun altro, in parte per avere un posto in cui parlare dell’impatto emotivo del lavoro che facciamo, in parte perché nella vita ci succedono delle cose e la terapia ci aiuta ad affrontare i demoni che vengono a farci visita.
E una visita ce la fanno senz’altro, perché tutti hanno i loro demoni: grandi, piccoli, vecchi, nuovi, silenziosi, chiassosi e via dicendo. Questi demoni che ci accomunano sono la dimostrazione del fatto che dopotutto non siamo un’eccezione alla regola. E grazie a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Forse dovresti parlarne con qualcuno
  4. Nota dell’autrice
  5. PRIMA PARTE
  6. SECONDA PARTE
  7. TERZA PARTE
  8. QUARTA PARTE
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright