Il sultano Saladino
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Il sultano Saladino

Tra vita e leggenda

  1. 552 pagine
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Il sultano Saladino

Tra vita e leggenda

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La fama di Saladino in Occidente affonda le sue radici nel 1187, quando «il re vincitore» riconquistò Gerusalemme sconfiggendo i cristiani, che la detenevano da quasi novant'anni. Nonostante li avesse sconfitti, il sultano si guadagnò il rispetto e l'ammirazione dei «franchi» perché non si era lasciato andare al massacro efferato dei nemici, in stridente contrasto con le violenze brutali e ingiustificate perpetrate dagli eserciti della Prima crociata. Jonathan Phillips, uno dei maggiori esperti di storia delle crociate, parte da qui per riscoprire le origini lontane dell'eccezionale popolarità di cui godette Saladino, indagando una vasta quantità di fonti arabe ed europee. In due decenni, il fondatore della dinastia degli Ayyubidi unificò Egitto e Siria, dando vita a un impero compatto e leale che abbracciava tutto il Vicino Oriente. Affrontò la rabbia prorompente dei soldati della Terza crociata, tra le cui file spiccava Riccardo Cuor di Leone, e fu ricordato, nelle cronache coeve e nei resoconti successivi, come un uomo generoso, onesto, devoto e colto. Il suo animo quasi cavalleresco lo rese un condottiero stimato al punto da meritarsi un posto tra gli spiriti di grande valore della Divina Commedia, impossibilitati a salvarsi soltanto perché non cristiani. Tolleranza, sobrietà e generosità furono le virtù che rinvigorirono il suo prestigio nel XIX secolo, quando la fascinazione europea verso il Medioevo fu condivisa da storia, letteratura e teatro. La sapienza militare e politica, che non risparmiò di contrastare gli eretici e gli infedeli con un obiettivo unificatore, fu invece alla base della celebrità del sultano, assurto a simbolo della resistenza e della vittoria sull'Occidente invasore, nella cultura di massa del mondo islamico. Saladino ebbe un ascendente ancora maggiore quando il nazionalismo arabo cominciò la sua ascesa e Nasser, Saddam Hussein, bin Laden cercarono di sfruttarne l'eredità richiamandosi a lui nei modi più disparati. A seconda dei casi, dunque, Saladino fu ricordato come un sovrano mite ed erudito, oppure spregiudicato e senza scrupoli. Il sultano Saladino ci consegna un resoconto prezioso, spogliato di qualsiasi pregiudizio, di un uomo che dopo otto secoli può ancora contare su un'eredità vibrante che mescola storia e leggenda, e ci aiuta a capire quanto possa essere ambiguo, nella contemporaneità, il travisamento della realtà storica. Jonathan Phillips è professore di Storia delle crociate al Royal Holloway dell'Università di Londra. Già autore di numerosi libri sul tema, collabora con BBC History e History Today ed è co-curatore della rivista accademica «Crusades».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835700791
Parte prima

LA VITA DI SALADINO

I

IL VICINO ORIENTE MUSULMANO E LA PRIMA CROCIATA

Quante moschee hanno trasformato in chiese!
Nel marzo del 1132 un manipolo di cavalieri giunse al galoppo davanti alle porte della città di Tikrit, che sorgeva sulle rive del Tigri. Al loro comando vi era Zengi, un energico e spietato signore della guerra turco deciso a ritagliarsi una base di potere nella Siria settentrionale e in Iraq. La sua ambizione e il suo desiderio di indipendenza lo trascinavano spesso in conflitto con i suoi – almeno in teoria – superiori: la lealtà e la fedeltà alle alleanze non facevano parte del suo modus operandi, e lo stesso valeva per molti dei suoi contemporanei e successori. Ma certe volte persino Zengi poteva rimanere sconfitto, proprio come in questo caso, in cui era stato costretto alla fuga. In una situazione quasi disperata, fu salvato dalla buona sorte: il governatore di Tikrit gli aprì le porte della città e gli mise a disposizione navi e provviste con cui continuare a scappare, lungo il fiume.1
Il governatore di Tikrit era Najm al-Din Ayyub, che in seguito sarebbe diventato padre di Saladino. Da questo estemporaneo incontro nacque una relazione che avrebbe condotto la famiglia ayyubide dalla condizione di piccoli amministratori locali a quella di potenza dinastica dominante nel Mediterraneo orientale, trovando, nello stesso Saladino, un uomo-simbolo il cui nome sarebbe divenuto famoso dall’Europa occidentale fino ai confini dell’Asia.
Instabilità e divisioni caratterizzavano il Vicino Oriente medievale, una regione che si estendeva dall’Egitto, passava attraverso la Terrasanta e la Siria, e giungeva fino all’Asia Minore e alla Giazira (termine che significa «isola» e indica l’area tra i fiumi Tigri ed Eufrate), lambendo persino la Persia. Una popolazione di straordinaria diversità etnica e religiosa viveva generalmente sotto regimi in larga misura musulmani, sebbene la frattura confessionale interna all’islam rappresentasse soltanto una delle numerose linee di faglia di quell’ambiente complesso. Nel VII secolo era sorta una contesa su chi dovesse guidare il popolo dell’islam dopo la morte del profeta Maometto nel 632 d.C. (califfo significa «successore» di Maometto, ed è considerato il capo spirituale e giuridico dei fedeli sunniti). Fu tale spaccatura a dare origine alla divisione tra sunniti e sciiti, che ha causato così tanti rancori e tensioni attraverso i secoli.2 Nell’XI secolo la divisione si manifestava, sul piano politico, con il regime sunnita abbaside a Baghdad e quello sciita della dinastia fatimide al Cairo. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che tutti coloro che vivevano sotto uno di questi regimi fossero anche seguaci della stessa confessione o persino della stessa fede. Il naturale movimento degli individui causato da politica, commercio e condizioni ambientali, insieme alla ricca eredità preislamica di, per esempio, ebrei, cristiani, zoroastriani e pagani (alcuni dei quali politeisti e altri monoteisti), aggiungeva alla miscela una grande varietà di ulteriori ingredienti. Un’altra frattura particolarmente importante era rappresentata dalle molteplici forme della cristianità orientale, nella quale convivevano greco-ortodossi, armeni, maroniti e giacobiti, così come, all’interno del mondo islamico, dalle divisioni tra gli sciiti. Nell’VIII secolo una controversia aveva determinato la nascita degli ismailiti, un gruppo che sosteneva le rivendicazioni del figlio del sesto imama a succedere a suo padre. Questa fazione giunse a una posizione di predominio nell’Africa del Nord e si affermò come forza politica con la dinastia fatimide, che nel 969 d.C. scelse il Cairo come propria capitale. Alla fine dell’XI secolo, come vedremo in seguito, si formò un ulteriore gruppo scissionista, quello dei nizari, meglio noti con il nome di «assassini».3
L’ambiente urbano, come quello di grandi città quali il Cairo, Alessandria, Aleppo e Damasco, favorì lo sviluppo di una popolazione particolarmente poliglotta. Le rivalità religiose potevano generare conflitti, ma, per ragioni di semplice abitudine, di convenienza economica e di indifferenza, la gente di solito riusciva ad andare d’accordo. Momenti di tensione potevano verificarsi per svariate ragioni, oltre a quelle legate alla fede, come differenze etniche o obiettivi politici di breve termine; la stupefacente diversità linguistica, che nelle città mercantili era ancor più amplificata dalla presenza dei mercanti, rendeva maggiormente complesso questo già articolato quadro.
Nel caso del califfato sunnita di Baghdad, l’autorità religiosa non si traduceva automaticamente in potere politico. Nella prima metà dell’XI secolo (grosso modo dal 1020 al 1050), durante una fase climatica di freddo particolarmente rigido, i nomadi turchi selgiuchidi, animati da un implacabile desiderio di conquista, lasciarono le proprie terre nelle steppe dell’Asia centrale e si diressero verso ovest. Questi rudi guerrieri, da poco convertiti all’islam, imposero rapidamente il proprio dominio sul mondo iraniano, sottomettendo anche il califfo, e si stabilirono con le proprie famiglie e il proprio bestiame in tutta la regione. Nell’ultimo decennio dell’XI secolo l’impero selgiuchide si estendeva dalla Terrasanta fino all’odierna Cina. Per circa una ventina d’anni rimase piuttosto coeso, ma, dopo il 1090, una catastrofica serie di morti – tanto per cause naturali quanto per omicidio – mandò in frantumi le gerarchie esistenti, e i territori sunniti del Vicino Oriente si separarono in una serie di entità politiche di carattere regionale che facevano perno sui grandi centri urbani di Aleppo, Damasco e Mosul. Si affermarono anche città-stato di minore estensione, come Hama, Tripoli e Harran, ognuna delle quali cercava di rivendicare la propria indipendenza e rafforzarsi a spese dei vicini. Gruppi etnico-familiari, come gli Artuqidi e gli Zengidi turchi, i curdi della regione di Hakkari o i beduini (tribù di pastori nomadi arabi), erano di volta in volta tra i candidati al dominio di una città o di un distretto, o all’assorbimento in un’unità politica maggiore.4
Il costante rimescolamento di questa ricca combinazione di popoli e fedi creava le condizioni ideali in cui ambiziosi nuovi arrivati potevano imporsi. Gli Ayyubidi, di etnia curda, erano un clan addensato attorno alla piccola città di Dvin, nell’ampia valle dell’Arasse, nell’Azerbaigian occidentale (corrispondente all’odierna Armenia). Per la loro grande abilità come guerrieri a cavallo erano particolarmente ricercati dai numerosi signori della guerra selgiuchidi presenti nella regione. Il rapporto tra turchi e curdi era caratterizzato dal pragmatismo, punteggiato da occasionali esplosioni di tensione e intolleranza; perlopiù, comunque, conveniva a entrambi collaborare, come dimostrato dall’ascesa di Ayyub a governatore di Tikrit.5
Pochi anni dopo la sua fuga attraverso il Tigri, Zengi riuscì a restituire il favore agli Ayyubidi. Pur essendo uno spietato guerriero, sapeva anche mostrare la sua autorità con forme di clientelismo. Nel 1137-1138 il clan curdo si cacciò in un guaio a Tikrit. Il fratello di Ayyub, Shirkuh, si offese per le irriverenti osservazioni del comandante dell’esercito locale nei confronti di una giovane donna. Ci fu uno scontro, e Shirkuh uccise il comandante. La buona posizione della famiglia ne garantiva l’esclusione da punizioni fisiche da parte delle autorità, ma Ayyub venne privato del governatorato e il suo gruppo fu costretto all’esilio. Per Zengi era giunto il momento di restituire il favore ricevuto. La famiglia cercò rifugio presso di lui a Mosul, e Zengi le assegnò delle terre come segno di riconoscenza.6
Salah al-Din ibn Ayyub nacque nel bel mezzo di questo tumulto, poco prima che il clan abbandonasse Tikrit. In Occidente viene chiamato Saladino, ma questa parte del suo nome è soltanto un epiteto onorifico, e significa «Virtù della religione, figlio di Ayyub», in conformità a una titolatura all’epoca estremamente diffusa. Il suo nome di nascita era Yusuf (Giuseppe), che aveva profondi richiami nel testo del Corano. Alla storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, è dedicata la dodicesima sura, che racconta la sua vita e il suo ruolo di profeta. Questo pio, calmo e comprensivo personaggio a un certo punto fornisce consigli che salvano l’Egitto dal disastro, nello specifico una carestia. Il fatto che un individuo chiamato Yusuf avesse salvato l’Egitto significa che nella scelta di questo nome la famiglia di Saladino aveva dimostrato una sorta di preveggenza, e nel corso della sua vita il nome Yusuf venne frequentemente impiegato in lettere e poemi a lui dedicati, spesso per mettere in risalto le analogie con il suo omonimo coranico e per dare maggiore prestigio alla sua immagine.7
Sebbene continuasse a combattere contro i compagni musulmani, le ambizioni territoriali portarono inevitabilmente Zengi in conflitto con gli altri principali protagonisti nel Levante, vale a dire i «franchi» (Ifranj o Firanj in arabo), un termine usato per indicare i coloni cristiani che avevano fondato una serie di stati indipendenti all’indomani della conquista di Gerusalemme, nel 1099, durante la Prima crociata. In tal modo questi occidentali, essi stessi un impetuoso miscuglio di italiani del Sud, provenzali ed europei settentrionali, aggiunsero ulteriori strati alla complessità culturale e linguistica del Vicino Oriente.8
Le guerre di Zengi contro i franchi posero in primo piano ancora una dimensione, quella del jihad, concetto comunemente equiparato a quello di «guerra santa». L’idea della crociata, un pellegrinaggio armato per liberare Gerusalemme dai musulmani, fu inventata dal papato alla fine dell’XI secolo. Al contrario, il jihad era un concetto fondamentale della fede islamica, incardinato nel Corano e negli hadith (i detti del profeta), che risaliva all’epoca del profeta, nel VII secolo. Il jihad, che letteralmente significa «sforzo», assume due forme: il «grande jihad» indica lo sforzo spirituale di ogni musulmano per vivere secondo i precetti di Allah, mentre il «piccolo jihad» nel IX secolo era ormai divenuto un obbligo individuale e collettivo a «impegnarsi in una guerra difensiva e poi offensiva per il bene della comunità».9
Negli ultimi decenni del XII secolo la chiamata al jihad e il dovere di ogni musulmano in buona salute di impegnarsi nella guerra santa furono fondamentali nel successo di Saladino. Tuttavia, quando gli eserciti della Prima crociata giunsero nel Vicino Oriente, alla fine dell’XI secolo, questi principi non si erano ancora affermati, ma soltanto vagamente profilati all’orizzonte. La crociata si era originata nell’Europa occidentale attraverso una saldatura dei motivi e degli interessi dei ceti religiosi e di quelli nobili. Il papa aveva proclamato un appello per la liberazione della tomba di Cristo, il Santo Sepolcro, offrendo ai partecipanti la remissione di tutti i peccati confessati. La nobiltà (vale a dire i guerrieri) rispose vigorosamente a questo appello, conquistando Gerusalemme nel 1099. Nel frammentato Vicino Oriente non esisteva alcuna paragonabile alleanza tra religiosi e guerrieri. Perdipiù, la disastrosa serie di morti verificatasi in tutto il mondo musulmano (compreso l’Egitto fatimide) all’inizio dell’ultimo decennio dell’XI secolo spazzò via una generazione di comandanti che avrebbe probabilmente potuto fermare l’avanzata dei crociati. Nel 1105 uno studioso e religioso di Damasco chiamato al-Sulami predicò il jihad in un piccolo villaggio alla periferia della città. Accusò i nobili del tempo di non aver saputo difendere i sudditi dall’attacco dei crociati. Ribadì anche il dovere di parteciparvi che avevano gli uomini liberi, adulti e sani, insistendo sulla necessità di una corretta motivazione spirituale: vale a dire la priorità del grande jihad sul piccolo; e a sostegno di questa idea citava le parole di un illustre teologo del tempo, al-Ghazali.10 Poi continuò con una serie di minacce, sia materiali sia spirituali, e una descrizione delle ricompense celesti e terrene, in particolare le grandi opportunità di saccheggio. Al tempo della Prima crociata, la maggioranza dei musulmani della Siria non aveva riconosciuto questa campagna come, almeno in parte, una forma di conquista e colonizzazione religiosa, sebbene al-Sulami sottolineasse (erroneamente) che le recenti avanzate cristiane in Spagna e Sicilia probabilmente indicavano un programma di conquista più sistematico. Nel 1105 il pubblico che ascoltava al-Sulami era estremamente ridotto – soltanto un piccolo gruppo di altri studiosi –, a dimostrazione del fatto che il suo messaggio raggiungeva un pubblico sterile; ma il testo del suo discorso si conservò, e, decenni più tardi, i punti fondamentali di quell’appello risuonarono vigorosamente in tutto il Vicino Oriente musulmano.11 Neppure a Baghdad, epicentro dell’islam sunnita, si prestava particolare interesse a ciò che stava accadendo all’estremità occidentale delle terre del califfo. I continui rivolgimenti all’interno del mondo selgiuchide, ben più vicino, assorbivano completamente l’attenzione di Baghdad.
Nei primi decenni del XII secolo ci furono saltuari riferimenti alla crociata. Un piccolo numero di poeti criticò aspramente i propri capi e si lamentò amaramente per gli eventi in Siria e in Terrasanta:
La spada è affilata e sangue viene versato.
Quanti uomini musulmani sono carne da bottino?
E quante donne musulmane sono state defraudate della loro inviolabilità?
Quante moschee hanno trasformato in chiese!
La croce è stata innalzata nel mihrab [la nicchia all’interno della moschea, che indica la direzione della Mecca].
Per essa è adatto il sangue del maiale.
Le pagine del Corano sono state bruciate come se fossero incenso.12
Con tono più aggressivo, un poeta selgiuchide di Baghdad invocò una guerra «per fare palle da polo con le teste dei franchi e mazze da polo con le loro mani e i loro piedi».13 Nel 1111 un gruppo di studiosi di scienze religiose e di mercanti di Aleppo si recò a Baghdad e irruppe nella moschea del sultano selgiuchide nonché in quella califfale durante la preghiera del venerdì. Tali atti di calcolata mancanza di rispetto erano un segno della rabbia per l’inadeguatezza di ogni reazione di fronte alle conquiste franche. I governatori musulmani della Siria, naturalmente, avevano combattuto contro i coloni, ma perlopiù nel caso di specifiche necessità politiche. L’accenno di un certo fermento di una mentalità da guerra santa si ebbe prima della battaglia dell’Ager sanguinis (Campo di sangue) combattuta nel 1119 nella Siria settentrionale: un giudice sciita di Aleppo predicò alle truppe e le esortò alla vittoria. Pochi anni dopo, Balak di Aleppo morì combattendo contro i franchi: le iscrizioni incise sulla sua tomba lo descrivono come un martire che combatté la guerra santa, «comandante dell’esercito dei musulmani, vincitore degli infedeli e dei politeisti».14
Negli anni finali della carriera di Zengi, all’inizio degli anni Quaranta del XII secolo, emerge una traccia più evidente. Alcune iscrizioni in una madrasa (una scuola di teologia e legge, che istruiva studiosi di scienze religiose e funzionari di stato) lo descrivono come «il combattente del jihad, il difensore dei confini, il domatore dei politeisti e il distruttore degli eretici».15 In altre parole, nonostante il fatto che Zengi avesse trascorso la maggior parte della vita scontrandosi con altri musulmani, alla fine le classi religiose della Siria riconobbero in lui una figura che poteva periodicamente assumere la veste di condottiero della guerra santa contro i cristiani. Nel 1137 Zengi sconfisse un esercito franco nella battaglia di Montferrand e conquistò città e castelli appartenenti al principato franco di Antiochia, e l’anno successivo respinse una grande invasione organizzata dall’imperatore bizantino Giovanni Comneno.16 Fu nel 1144, però, che inflisse il colpo più decisivo nella contro-crociata.
La città di Edessa era stata conquistata dai crociati nel 1098. Uno scrittore siriano di epoca successiva la descriveva come un luogo che «arrecò grandi danni ai musulmani che vi vivevano intorno … Edessa era come l’occhio dei territori della Giazira», distesa su una vasta pianura, circa centocinque chilometri a es...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL SULTANO SALADINO
  4. Postilla sui nomi e personaggi principali
  5. Introduzione. Damasco, 2009
  6. Parte prima. LA VITA DI SALADINO
  7. Parte seconda. FAMA POSTUMA
  8. Conclusione
  9. Scrivere la storia di Saladino
  10. Abbreviazioni
  11. Note
  12. Bibliografia
  13. Referenze iconografiche
  14. Ringraziamenti
  15. Inserto fotografico
  16. Copyright