Cadaveri a sonagli
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Cadaveri a sonagli

Piccolo paese, perfide abitudini

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Cadaveri a sonagli

Piccolo paese, perfide abitudini

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Metti una coppia di ladruncoli sgangherati, sicuri di avere in tasca il Grande Colpo; metti un marito fedifrago che non vede l'ora di liberarsi della moglie, tanto odiata quanto, purtroppo, ricca; metti un operaio indolente che si ritrova nel posto giusto al momento giusto. Lea, Nicola, Gianni e Rocco sono convinti di essere alla vigilia della vita che da sempre credono di meritare, ma usciti dalla villetta nelle Langhe in cui le loro storie si incrociano, proprio quel che sembra semplice e scontato innesca una valanga di imprevisti ed effetti collaterali che presto sommerge tutti. Complici un sovrintendente di polizia sotto esame, un accertatore dell'assicurazione senza niente da perdere e un mucchio di soldi di cui nessuno immaginava l'esistenza, questi nuovi, scurissimi Soliti Ignoti in due soli giorni scopriranno che il Destino ha molto più senso dell'umorismo e della perfidia di quello che crediamo.

Christian Frascella, creatore dell'iconico detective Contrera, esordisce nei Gialli Mondadori con una storia corale tra crime e comedy cinica e folgorante, in cui echeggiano i migliori Coen ed Elmore Leonard, un romanzo ambientato però nelle italianissime colline del Barolo. Perché il delitto non ha confine e il sangue scorre denso ovunque.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835704904

1

Lea e Nicola erano in auto e guardavano la villetta. L’avevano scelta tra decine di simili nel paese di Santa Margherita alle Langhe, cinquemila anime, tenore di vita alto perché erano quasi tutti viticoltori che, per il semplice fatto di produrre vino in quella zona, esportavano in tutto il mondo. Il vino in questione variava da buonissimo ad appena decente, ma si sa che all’estero, a parte una decina di posti, di vitigni non capiscono niente. Giravano i soldi, a Santa Margherita, e per quel motivo Lea e Nicola si erano spostati lì.
E la casa dei Romoli l’avevano scelta perché era la più isolata, in una strada che sboccava sulla provinciale e da cui si poteva fuggire agevolmente. Poi era una bella villa, su due piani, tetto spiovente, balconi fieri, imposte marroni che contenevano lo sguardo lucido dei vetri delle finestre. Davanti c’era un prato con due olmi e un giardino sul fianco; un cortile sul retro, che d’estate doveva ospitare grigliate pantagrueliche vista la stazza del barbecue, e una discesa in asfalto che conduceva al garage. Il cancello principale dava su quella pendenza, cosicché il signor Romoli potesse entrare e parcheggiare nel giro di mezzo minuto.
Negli ultimi tre giorni lo avevano guardato andare e rientrare con la sua BMW, sempre da solo. All’interno della casa, nessun movimento di famigliari o filippini o giardinieri. Dubitavano che Romoli vivesse da solo, ma immaginavano che la moglie e i figli fossero via.
Quella mattina parcheggiarono la loro Micra blu scolorito a trenta metri dalla villa, in una rientranza della strada coperta dai cespugli, osservando il viavai. Di telecamere neanche l’ombra, avevano già controllato. Non c’era nemmeno un cane da guardia. A Santa Margherita non succedeva mai niente, a quanto pareva.
Appena alle otto e tredici minuti fu passata la BMW con dentro Romoli, Nicola disse: «Mi sa che stamattina va bene. Entriamo, prendiamo quello che c’è e tanti saluti al cazzo. Che dici?».
Lei non rispose.
«Non possiamo passare la vita qua attorno» insistette Nicola. «Non le sopporto più, le rane. Non senti come strillano tutto il giorno?»
«Le rane gracidano.»
«Okay, ma lo fanno tutto il giorno.»
Lea si accese una sigaretta, senza curarsi di abbassare il finestrino. Un cappello le copriva il caschetto biondo, e gli occhi azzurri erano nascosti da un paio di Ray-Ban tarocchi. Il corpo longilineo era mortificato da una tutona di felpa che poteva contenerla due volte. Ma in fondo lei non la metteva mica per andare a una sfilata.
Una rapina è una rapina.
In effetti le rane erano fastidiose anche in quel momento, ma Lea non ci badava. Lea non badava a quelle cose. Erano aspetti esterni al piano. Se Nicola non le avesse nominate, non se ne sarebbe nemmeno accorta.
«Le ammazzerei tutte» continuò lui, trattenendo un colpo di tosse. Aprì il finestrino. Non ce l’aveva il vizio, lui: le aveva dato il permesso di fumare la prima volta che erano saliti in macchina insieme, e dopo non se l’era più sentita di dirle di smettere. Indossava jeans e maglione a collo alto, cappello da baseball e occhiali da sole dalla montatura nerissima. «Le ammazzerei una a una.»
«In realtà non possiedi una natura violenta.»
«E a te chi cazzo te l’ha detto?» si scaldò lui.
«Hai gli occhi buoni. Per quello mi sono fidata quando nel bar ti sei avvicinato al mio sgabello.»
Era successo due mesi prima. Lei stava bevendo rum e coca, infilata in un abitino scollato che scopriva due prorompenti cosce da ventenne. Aveva già respinto due aspiranti alla scopata facile, quando Nicola si era avvicinato. Più vecchio di lei, sulla quarantina, bel fisico – niente da dire. Ma gli occhi marroni screziati di verde, occhi da bambino, erano stati quelli il suo visto d’ingresso nella sua vita.
«Non sono buoni» rispose lui, aggiustandosi sul naso la montatura, come a nasconderli. Lea era l’unica che riuscisse a metterlo in imbarazzo. Forse per quello gli piaceva così tanto, e forse per quello la odiava anche un po’.
«Sono le finestre della tua anima.»
«Non mi va che parli della mia anima.»
«Ce l’abbiamo tutti.»
Lui sbuffò. «È ora di muoversi, signorina psicologa.» Prese la borsa dai sedili posteriori e gliela piazzò sulle gambe.
Avviò il motore e procedette a marcia indietro, molto lentamente, soprattutto per verificare il traffico, ma non c’erano altri veicoli in arrivo.
«Campo libero.»
Lea aprì la zip della borsa e tirò fuori un palanchino. Nicola accelerò di colpo e poi posteggiò davanti al cancello elettrico. Le prese l’arnese dalle piccole mani. «Vai.»
La ragazza scese con tutta calma e con tutta calma raggiunse il cancelletto d’ingresso, il borsone nella mano ondeggiante come una culla con dentro un neonato. Spense la sigaretta sotto la suola. Sulla cassetta della posta c’era scritto ROMOLI-MANIERO.
Nicola la guardava da dentro la Micra, il motore in folle.
Lea osservò la casa, la porta principale, le tende dietro le finestre sia al pianterreno che al primo piano. Nessuna voce, nessun movimento che indicasse vita umana o aliena nella villa. Controllò ancora che non ci fossero telecamere sulla sua testa o lungo il perimetro. Se le avessero trovate all’interno, ci avrebbero pensato subito con un paio di martellate.
Mostrò il pollice a Nicola.
Il quale spense il motore e smontò dall’auto col palanchino ben saldo tra le mani. Durante le visite precedenti si erano accorti che le due porte in ferro del cancello elettrico erano un po’ lasche. Mezzo centimetro, non di più, ma sufficiente a piazzarci in mezzo il piede di porco. Fece leva con l’arnese proprio in quel punto, mentre Lea scrutava tutt’intorno. Il cuore di lui pompava con battiti forsennati fin dentro la scatola cranica. Quello di Lea mantenne le pulsazioni medie di chi ha appena fumato.
Ci volle tutta la forza acquisita nelle lunghe ore di sollevamento pesi in palestra per incrinare le due porte, ma alla fine ne ebbe ragione. Si scollarono con una serie di stridii soffocati, poi Nicola cominciò a picchiare su quella di destra con la pianta degli anfibi, sudando sotto il cappello e bestemmiando nella mente. Gli ci vollero nove calcioni ben assestati, e alla fine la porta cedette.
Entrò col palanchino lungo la gamba, subito seguito da Lea. La ragazza sorrise in maniera disarmante proprio quando si fermarono davanti a una finestra. Nicola pensò che dopo le avrebbe chiesto il motivo di quel sorriso, e diede un colpo al vetro, mandandolo in frantumi.
Aprì la finestra girando la maniglia e spingendola forte. Ripulì il davanzale il più possibile e un attimo dopo si stava issando per entrare. Gli scarponi croccarono sui vetri quando toccarono il pavimento.
Lea buttò dentro il borsone e con l’aiuto del suo socio scavalcò e lo raggiunse.
Uno sguardo circolare, e Nicola individuò una telecamera che li puntava dall’angolo del soffitto. Non aveva la lucina che pulsava, però, dunque non sembrava attiva. Sfilò lo stesso una sedia da sotto al tavolo, ci salì e con un colpo secco del palanchino ruppe l’obiettivo. Gli scappò un verso tutto compiaciuto.
Lea infilò un posacenere dorato nel borsone. Se non valeva niente, almeno era carino. Poi aprì i cassetti della credenza, ma a parte qualche posata d’argento non trovò nulla di valore.
Intanto Nicola spostava quadri alla ricerca della cassaforte. Non poteva non esserci. Dopo dieci frenetici minuti si rese conto che il piano di sotto non era quello giusto, perciò cominciò a salire le scale in legno massiccio.
«Tu resta qui, e controlla che fuori sia tutto tranquillo» disse a Lea.
A metà scala si accorse della centralina GPS dell’antifurto. Se ne stava appesa alla parete, bianca, piena di tasti e col display spento.
Pensò che avevano avuto fortuna, e che Romoli era o un tipo molto sbadato o un idiota che credeva non potesse succedere chissà che a una villa da mezzo milione incustodita. Se fosse stato un marchingegno a tempo, ormai sarebbe già scattato. Ma di solito, quando hai un antifurto attivo in casa, c’è un lampeggiante fuori, acceso, visibilissimo, che dissuade i ladruncoli. E in quei giorni, l’unica cosa che aveva lampeggiato in quella strada erano state le luci del mezzo della nettezza urbana, tra le sei e le sei e venti ogni mattina.
Sotto, Lea si era spostata in cucina, perché le cucine le piacevano. Nelle altre tre ville che avevano svaligiato ultimamente, quando si erano resi conto di voler stare insieme e che l’unico modo per mantenere un discreto tenore di vita era rubare, le cucine l’avevano molto delusa: questa invece aveva un’isola centrale, il suo modello preferito. Si sedette su uno degli sgabelli e accese il piano cottura digitando sui tasti. Lo spense. Lo riaccese. Sapeva che non ne avrebbe mai posseduto uno così, e nemmeno una casa come quella, e nemmeno un giardino del cazzo. Ma non gliene fregava. Si vive in tanti modi, pensava a volte, e il suo non prevedeva una famiglia, una “professione” o una deprimente serie di illusioni. I posti erano solo posti, e gli oggetti, che fossero di valore o meno, andavano e venivano.
Udì la fastidiosa suoneria rock di un cellulare.
Anche la signora Carla Maniero sposata Romoli la sentì. Era allettata dai primi giorni di ottobre, si era presa “il primo virus della stagione”, come lo aveva definito il dottor Pavone quando l’aveva visitata. Quella febbre leggera, quel piccolo focolaio ai polmoni poteva sfociare in polmonite, l’aveva ammonita. Era meglio che se ne stesse al caldo.
Ed era già una settimana. Ed era stufa.
Carla era una donna magra di cinquantun anni, i capelli bianchi tagliati corti, nessuna passione per l’estetica ma solo per la sua casa, per il suo giardino e per le sue letture, al circolo della biblioteca. Le piaceva stare sempre in movimento, controllare che ogni cosa fosse al suo posto. Indossava spesso dei leggings e un paio di sneakers da ragazzini. Ma non per apparire più giovane, soltanto perché ci si trovava bene.
Gianni, suo marito, all’inizio ogni tanto le chiedeva di “mettersi in tiro”, qualunque cosa significasse, specie quando invitavano amici o parenti e quando andavano alla cena pasquale o natalizia del loro ristorante, organizzate solo per dipendenti e famigliari. Ma niente, Carla si presentava con pantaloni dozzinali, maglioni che i suoi camerieri non avrebbero usato nemmeno per lavare la macchina e quelle scarpe. Non un filo di fard o di matita per le labbra. Nessun ombretto o eyeliner a esaltare l’unica cosa veramente accattivante che avesse: lo sguardo, con quegli occhi un po’ orientali e verdi come lo smeraldo che portava al dito, una pietra grossa incastonata nell’oro, dono di una ricca zia alla quale aveva voluto molto bene.
«Capisci che io sono il proprietario, il loro capo, el padrun» si era lamentato il Natale scorso, mentre in auto raggiungevano il ristorante per la festicciola. «Tu sei la first lady, ti devi presentare nella maniera giusta, le ragazze sono quasi tenute a invidiarti già solo per il tuo status. Invece» e aveva indicato il giaccone della moglie, che sembrava preso a nolo da un barbone, «guarda come cazzo vai in giro.»
Lei aveva proseguito nel suo silenzio per un minuto, nel quale Gianni aveva cercato altre parole che potessero farle comprendere il disagio che di lì a poco, come altre volte, avrebbe provato a causa sua. Poi aveva parlato, la voce sprezzante: «Tu sei il proprietario della baracca perché hai investito i miei soldi, i soldi di mia zia Virginia, che Iddio la abbia in gloria. Di tuo non c’è niente, caro mio, nemmeno i gommini per le sedie».
Gianni si era sentito avvampare, come sempre, nel suo tre pezzi su misura. «Io ci passo tutta la giornata, al ristorante, e ci metto la faccia! Io sono il ristorante e tu sei mia moglie, e il ristorante è di classe e tu devi essere una moglie di classe.»
«Infatti: hai una bella faccia, per questo t’ho sposato. E sei il pro-prie-tario.» Sogghignò. «Perciò hai già avuto più che abbastanza. E guarda che lo so che mi hai voluta solo per i miei soldi.»
«Non è vero!»
Era vero, ovviamente, era verissimo. Glielo ricordava sempre. Ma lui, indignato, aveva ribattuto che lei era pazza a pensare una cosa del genere, che lui, nonostante tutto, che cavolo, la amava.
Carla aveva sbuffato sonoramente.
E questo era il tenore dei loro dialoghi, quando si usciva dalle frasi di circostanza. Non c’era mai stato amore, tra i due, e nemmeno un grosso rispetto. Semplicemente, Carla un giorno aveva deciso di convolare a nozze e il suo pretendente più accanito, Gianni, più giovane di lei di sette anni, le era sembrato motivato abbastanza e istruito a sufficienza – era laureato in economia, diamine – per impalmarla e far fruttare i soldi della zia. E poi voleva uscire dal giogo di suo padre, andarsene dalla casa dove era cresc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CADAVERI A SONAGLI
  4. PRIMA PARTE. Giovedì
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. SECONDA PARTE. Venerdì
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. Copyright