Manager Calibro 9
eBook - ePub

Manager Calibro 9

Vent'anni di malavita a Milano nel racconto del pentito Saverio Morabito

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Manager Calibro 9

Vent'anni di malavita a Milano nel racconto del pentito Saverio Morabito

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Milano, anni Ottanta. Nella città "da bere" si fa strada tra la malavita un ragazzo venuto dal Sud: Saverio Morabito, rapinatore, killer coinvolto nel grande business della droga e nei sequestri di persona. Arrestato nel '92 ed entrato nelle file dei "pentiti" di spicco, ha innescato con le sue dichiarazioni una reazione a catena che ha portato a centinaia di arresti e si è guadagnato una condanna a morte da parte dell'Anonima.

Attraverso la sua testimonianza, raccolta in numerosi colloqui in località segrete, Colaprico e Fazzo narrano le regole e la mentalità delle cosche, i rapporti tra la mafia siciliana e quella calabrese: e le loro infiltrazioni nell'economia "pulita".

E raccontano come si sia costruita la feroce carriera di un criminale nella Milano del boom, degli yuppies e dei vestiti griffati di pessimo gusto.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Manager Calibro 9 di Luca Fazzo, Piero Colaprico in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e World History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835705307
Argomento
History
Categoria
World History
1

«Ti sei guastato la testa»

I segreti li conserva bene un morto.
PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA
La porta dell’aula si aprì e apparvero quattro carabinieri in divisa, l’aria logora di chi ha passato gli anni a trasportare detenuti da un carcere all’altro, da un tribunale all’altro. Il prigioniero venne fatto entrare subito dopo, steso su una barella. Nonostante la giornata estiva, la coperta era tirata fino al naso.
Dietro le sbarre, accovacciati sul doppio gradino di legno della gabbia, gli imputati lo guardarono senza impegno. Era il 14 luglio 1991. Antonino Zacco, “Nino il Bello”, fumava pacifico appoggiato a una sbarra. Vincenzo Schiattarella ciondolava il sacchetto, pieno a metà di un liquido giallo, che un lungo tubo collegava alla cerniera dei pantaloni. Luigi Bonanno sembrava come al solito inseguire pensieri tutti suoi. Per il primo processo alla mafia milanese degli anni Ottanta era un’udienza importante.
All’estremità della gabbia, concentrato, l’unico che si era portato un pacco di carte che teneva in braccio come una bambola. Toni Carollo non aveva ancora compiuto trentatré anni. Le spalle di questo ragazzo alto poco meno di due metri non sembravano abbastanza larghe da sopportare un’eredità quasi sterminata. Su Carollo pesavano il ricordo del padre Gaetano, ammazzato una mattina di giugno in una strada dell’hinterland milanese, del fratello Pietro inghiottito dal nulla, dello zio Giuseppe Ciulla ucciso – così, almeno, si diceva – da un camion nel centro di Santiago del Cile. Dell’altro zio Antonino ammazzato a Palermo poco dopo essere uscito dall’Ucciardone. E del suocero Nenè Geraci che in quel luglio 1991 era a capo del mandamento di Partinico e sedeva nella Commissione di Cosa Nostra.
Da sola, nel banco del pubblico ministero, una donna con i capelli rossi. Ilda Boccassini aveva cominciato quel processo seguendo una traccia sottile che le era stata affidata da un altro magistrato che si chiamava Giovanni Falcone. Quel giorno Ilda Boccassini era un pm senza gloria e quel processo avanzava tra l’indifferenza e il fastidio di chi riteneva che tutto quel fare, tutto quello scavare, non avrebbero portato da nessuna parte. La mafia a Milano sembrava quasi non esistere, nel discorso di apertura dell’anno giudiziario di Giulio Catelani, il nuovo procuratore generale.
L’uomo sulla barella venne portato davanti al tribunale. Era la prima volta che lo vedevamo, se si può chiamare vedere quel frugare tra la coperta e i capelli arruffati alla ricerca di uno sguardo che significasse qualcosa. Sapevamo che Saverio Morabito era stato arrestato da poco per la raffineria di eroina scoperta in Valle Imagna: i carabinieri avevano trovato suo cugino – poco più che un ragazzo – e due marsigliesi chiusi in una villa di montagna nel Bergamasco a filtrare nel carbone vegetale la morfina base. Sapevamo che quel tizio dall’aria smunta poteva essere una sorta di snodo dove forse si intersecavano piste diverse: il grande fiume dell’eroina e della cocaina, i tanti soldi dell’economia sporca che diventa pulita negli uffici delle finanziarie del centro di Milano o nelle grida telematiche di piazza degli Affari. Allora avevamo una visione un po’ mitica della forza e dell’astuzia di questo strano Moloch metropolitano, immaginavamo che dietro la facilità con cui il crimine organizzato si era impadronito di interi quartieri di Milano dovessero nascondersi menti diaboliche, strategie sottili e inesorabili. In compenso non sapevamo molte altre cose.
Non sapevamo che dietro quell’uomo steso sulla barella c’era la storia straordinaria di un ragazzo del Sud, un calabrese venuto da Platì, il più malfamato ed evocativo dei comuni dell’Aspromonte, e cresciuto nella Milano selvaggia del boom edilizio e industriale. Non sapevamo che la storia del ragazzo di Platì e quella della città dov’era arrivato con i calzoni corti si erano sviluppate parallelamente. Lungo le grandi strade di accesso al centro di Milano – il Giambellino, il Lorenteggio, la Vigevanese, via Ripamonti – i quartieri squadrati dell’edilizia realsocialista degli anni Settanta e Ottanta facevano da quinte a una tragedia sociale di cui quell’uomo era una specie di eroe alla rovescia.
Saverio Morabito era cresciuto lì in mezzo, tra le grandi insegne al neon dei centri direzionali, i marchi delle multinazionali che svettavano sopra le torri di vetro e cemento. Forse ne aveva succhiato il neon un po’ alla volta, e si era convinto che dopotutto quella città non era meno carogna e violenta di lui, e neppure meno falsa. Nella Milano dei manager, il ragazzo di Platì aveva deciso di essere manager a suo modo.
C’erano altre cose che non sapevamo. Non sapevamo che avremmo rivisto Morabito due anni dopo, nell’aula bunker del processo d’appello agli stessi imputati. Non più in barella, gli occhiali sfumati d’arancio, il vestito di taglio, era circondato dai suoi truci cherubini della Dia. Né sapevamo che lo avremmo poi reincontrato a lungo, nei luoghi più impensati, inseguendo appuntamenti su appuntamenti come in una caccia al tesoro mentre i killer delle cosche lo cercavano per tutta Italia: «Se mi prendono mi mettono nel tritacarne», scherzava. Non potevamo immaginare, chiusi nell’aula afosa del tribunale di Milano, che qualche tempo dopo quell’uomo avrebbe raccontato nel nostro registratore la sua lunga storia. Una storia dove i buoni scarseggiano e i cattivi abbondano.
Morabito ha fatto arrestare centinaia di persone. All’alba del 14 ottobre 1993, la retata scaturita dalle sue deposizioni ha travolto gli uomini accusati di costituire gli stati maggiori del crimine organizzato in Lombardia, mettendo a segno il primo grande colpo della Direzione antimafia di Milano. Il maxiprocesso seguito a quella retata – un processo che si protrarrà per anni prima della sentenza definitiva – costituisce il banco di prova di una stagione giudiziaria lunga e complicata, avvinghiata com’è alla questione delicata dei pentiti, della loro importanza, della necessità di trovare riscontri alle loro dichiarazioni. Molti dei personaggi che troverete citati in queste pagine sostengono a ragione che la parola di un “pentito” non è il Vangelo. Ma in verità il ritratto più spietato Morabito lo dedica a se stesso, e le accuse che lancia contro i suoi amici di un tempo sono quasi sempre un corollario, un dettaglio delle accuse più terribili che riserva al gangster che è stato lui stesso fino al momento dell’arresto. Ancora oggi non potremmo dire cosa abbia davvero dentro di sé Saverio Morabito. Di sicuro però il ragazzo di periferia diventato senza sforzo un assassino ci ha aiutati a capire come la città del Nord Italia che si faceva chiamare “capitale” morale sia diventata la colonia della violenza.
Il giudice Renato Caccamo tossì nel microfono e spiegò all’uomo in barella i suoi diritti.
«Non intendo rispondere» replicò Saverio Morabito.
Quel giorno a pentirmi non ci pensavo proprio. Anzi, se avessimo fatto come dicevo, io tutto questo casino non sarebbe successo. Se dopo quei due di via Fra Cristoforo avessimo ammazzato anche il turco, avremmo avuto dieci chili di roba. Se noi facevamo fuori il turco la polizia non lo poteva arrestare e il turco non poteva parlare e quindi il dottor Nobili non poteva fare l’ordine di cattura. E io non sarei finito dentro e non mi sarei pentito.
Il casino era scoppiato dopo una colossale zanzata, una truffa. Noi, i calabresi di Corsico, eravamo riusciti a incamerare da una gang di trafficanti turchi quasi cento chili di eroina senza pagare una lira. Succede, in un certo tipo di affari. A dire la verità, ci siamo fatti un sacco di risate, quando li abbiamo fregati come polli. E ci aspettavamo poi qualche reazione, una spedizione punitiva, qualche guaio grosso. Di fronte non ci trovavamo gli ultimi scemi del villaggio. Invece, niente. Niente.
Per un po’ non sappiamo nulla né di Mustafà, che era il loro boss, né del suo interprete, Bajkal, l’uomo che avevamo visto più spesso e che alla fine ci ha rovinato: è stato il primo a essere arrestato, il primo a pentirsi, a parlare con i giudici. È lui il primo che ha portato gli inquirenti sino a casa nostra. Ma è meglio se procedo con ordine.
Dopo quel bidone da cento chili, noi avevamo adottato soltanto una precauzione: non andavamo ovviamente a cercarli, questi creditori turchi, e soprattutto non frequentavamo più i posti dove li avevamo portati durante le trattative. Un paio di volte ci eravamo visti in un bar e da là giravamo al largo. Ogni tanto il padrone, uno simpatico, che non faceva parte della nostra organizzazione ma era un amico, ci avvisava: «Sono passati i turchi». Noi ci facevamo quattro ghignate e la cosa finiva lì. Piano piano, ce ne siamo dimenticati.
Finché un bel giorno, mentre stavo nell’autosalone di un nostro amico di Corsico, proprio nella nostra zona, chi ti vedo entrare? Il Mustafà in persona, e insieme a lui c’erano altri tre. Uno era il Cavallaro. Uno era il Campodipietra, come ho saputo dopo, perché non li conoscevo ancora, quel giorno. E c’era un quarto uomo, ma di questo non sono mai riuscito a sapere il nome. Mi ricordo che aveva le maniche della camicia rivoltate e metteva in mostra i suoi tatuaggi… Io penso che uno, se ha i tatuaggi, non va in giro a mostrarli, a meno che non voglia far sapere a tutti: “Sono un galeotto”. Probabilmente l’ha fatto per intimorire chi andavano a trovare, e cioè il sottoscritto.
Quando mi trovo faccia a faccia con questi quattro, dentro l’autosalone, Mustafà viene vicino e mi dice: «Ciao Gianni», perché io a lui non ho mai detto di chiamarmi Morabito Saverio, lui mi ha conosciuto come Gianni.
«Ciao Mustafà. Come mai sei qui?» Io faccio sempre l’indifferente.
«È per quella storia dei soldi della roba, del vostro debito.»
E io: «E perché, non hai saputo niente?» dico.
«No, di cosa dovevo sapere?»
«Ah, proprio nessuno ti ha detto niente?»
Cercavo di fare bene la parte del vincenzo, dello scemo: erano lì in quattro, non so chi sono gli altri tre, e che devo fare? Non dico che dal torto volevo passare alla ragione, però cercavo almeno di rendere la trattativa un po’ alla pari.
«Va be’, Mustafà, allora senti: la roba noi l’abbiamo persa, perché l’abbiamo data a dei napoletani, gliel’hanno trovata e quindi non ce l’hanno potuta pagare. Devi avere un po’ di pazienza, anche noi siamo fermi. Non abbiamo roba, adesso. Se hai un po’ di pazienza, pagheremo» gli ripetevo.
Interviene il Cavallaro e dice: «Ah, tu sei Gianni? Ma non ci conosciamo noi?».
«A me non sembra, perché altrimenti mi ricorderei. Comunque, dimmi: qual è il problema?»
«Ma il problema c’è, è che dovete pagare ’sta roba.»
«E chi ha detto che non la si vuol pagare? Stavo dicendo a lui, tu non c’entri niente. Io non so chi sei, io ho a che fare con lui.»
«No, la roba è anche mia.»
«A me non risulta, io ho sempre saputo che era sua, di lui Mustafà, la roba, e del suo socio turco.»
Ma Cavallaro insiste: «No, la roba è mia, perché c’è mio cognato che è turco ed è latitante».
Pensavo che mi avesse raccontato una balla e in effetti lo era. Dopo averlo ammazzato ho saputo che lui era veramente il cognato di un turco, ma la roba non era del cognato. Cavallaro voleva fare, diciamo, il paladino della situazione. Ma sono cose che si fanno? Ti vai a mettere così con degli sconosciuti?
Io non ho litigato, anzi mediavo: «Va be’, se la roba è tua, non posso farci niente: ho trattato con lui e continuo a trattare con lui, comunque è inutile arrivare agli estremi. La roba la pagheremo, i primi soldi che entrano sono i vostri». Allora questo Cavallaro comincia a dare un po’ in escandescenze: «La roba è mia, io qui io là, se non la pagate ti metto il cannone in bocca e ti faccio saltare la testa».
«Hai ragione» gli dico, perché mentre mi diceva queste cose teneva una mano in tasca. Aveva una sahariana e teneva la mano destra nella tasca. Be’, io non avevo nessuna intenzione di accertarmi se ce l’avesse davvero, la pistola. Là ero in minoranza: «Certo che hai ragione,» gli dico «non voglio litigare con nessuno. Abbiate un po’ di pazienza, in questi giorni entrano dei soldi e i primi siete voi».
«Va bene, va bene, va bene», e mentre se ne vanno io chiamo uno dei ragazzi – perché vicino all’autosalone c’era il bar Ristorcasa, che era del gruppo Sergi e ci lavoravano con la droga i nostri ragazzi – e gli dico: «Segui quella Golf grigia, mi porti il numero di targa e vedi dove vanno».
Il ragazzo torna, riferisce che li ha controllati, tenendosi a distanza, fino a Porta Ticinese, piazza XXIV Maggio. Li ha visti imboccare corso San Gottardo e qui ha preferito desistere, per non essere individuato. Prendo il numero di targa e da là comincio le indagini, perché voglio scoprire chi è che mi vuole ammazzare e che cosa mi conviene fare. Ovviamente, non c’è molto da discutere: li dobbiamo eliminare tutti.
Dopo qualche giorno abbiamo individuato l’indirizzo giusto e mi sono appostato tante notti, con il cannocchiale a infrarossi, sotto la casa di Cavallaro, dietro Ponte Lambro, ma niente: non ce la facevamo ad ammazzarli tutti insieme.
Allora abbiamo giocato di contropiede. Io stesso ho chiamato a casa il paladino della situazione, Cavallaro. Mi è sembrato incerto al telefono quando gli ho detto: «Sono Gianni».
Forse avrà pensato: “Come fa ad avere il mio numero di casa?”. Forse avrà avuto paura… Ma non poteva tirarsi indietro. «Ho un po’ di soldi da dare a Mustafà. Cosa faccio? Li do a te o li do a Mustafà? Anche perché se li devo dare a lui, me lo devi contattare tu, io non so dove trovarlo» gli ho detto, bel tranquillo. Dice: «No, no, vengo io a prenderli».
Ho fissato un appuntamento in una strada, si chiama via Fra Cristoforo, è a senso unico, a sinistra del Naviglio. «Ci vediamo davanti al garage» gli avevo detto, perché pensavo: “Entrano adagio, possono arrivare da una parte sola, si guardano in giro e, quando li vediamo passare, noi possiamo piombare alle loro spalle e sterminarli…”.
Cavallaro è andato, in effetti, a prendere dal campo di tennis il suo amico Campodipietra, per sentirsi più sicuro, ed è arrivato in via Fra Cristoforo sulla solita Golf grigia.
Noi, e cioè io, Mario Inzaghi e Ciccio Sergi, eravamo già nella via, pronti su una Lancia Delta integrale. Mario era un po’ nervoso quel giorno, forse non aveva più voglia di fare queste cose, non lo vedevo presente, non lo vedevo brillante. L’attesa lo snervava, mi sembrava un po’ rigido. Così gli ho detto: «Va be’, Mario, dài, tanto è l’ultima volta».
Guidava Cavallaro, aveva in bocca la sua pipa. Aveva una camicia azzurra e la pipa. Ci immettiamo sulla strada, io ero seduto a fianco di Mario, avevo già abbassato tutto lo schienale e tirato giù il finestrino posteriore: mi metto a pancia sotto, con la doppietta in mano. Mario guida adagio, si avvicina… Anche Cavallaro percorre la via molto adagio. Cerca il punto di riferimento che gli avevo dato, il garage, e non si rende conto che gli stiamo arrivando alle spalle.
Lo superiamo di un paio di metri, Mario seguiva alla lettera le mie istruzioni: così, dalla distanza giusta, tiro fuori dal finestrino posteriore destro il mio fucile da caccia calibro 12, non a canna mozza, a canna lunga. Sparo il primo colpo e prendo Cavallaro in pieno, alcuni pallini centrano anche Campodipietra. Non usavo pallini per la caccia ai passerotti, c’erano dentro c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Manager calibro 9
  4. 1. «Ti sei guastato la testa»
  5. 2. Lupo di periferia
  6. 3. Saranno famosi
  7. 4. L’Anonima sequestri
  8. 5. I balordi anni Ottanta
  9. 6. Platì, provincia di Milano
  10. 7. I sommelier della droga
  11. 8. Hop!
  12. 9. Ammazzare stanca
  13. 10. Un treno per amico
  14. 11. Obiettivo Plutone
  15. 12. L’altra faccia dello Stato
  16. 13. La catena dei pentiti
  17. Trent’anni dopo
  18. Copyright