Leggimi nel pensiero
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Leggimi nel pensiero

Un viaggio alla scoperta dei problemi dei nostri ragazzi

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Leggimi nel pensiero

Un viaggio alla scoperta dei problemi dei nostri ragazzi

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Bullismo, depressione, autolesionismo, gelosia, adescamenti, violenza. Le derive e i pericoli dell'adolescenza sono molteplici e complessi, tanto da spaventare non solo i ragazzi, ma anche insegnanti e genitori. Quante volte ci siamo chiesti cosa ci sia nella mente di un giovane carnefice o di una giovane vittima? E quali pensieri, stati d'animo e ragionamenti si nascondano dietro ad azioni che spesso fatichiamo a comprendere?

Maura Manca, psicoterapeuta e formatrice, che da anni dialoga con i ragazzi e dunque li conosce bene, ci aiuta a entrare nella loro testa. E lo fa mimetizzandosi, parlando dal loro punto di vista e con la loro voce.

Nasce così questa serie di racconti, narrati in prima persona, ispirati alle storie vere di giovani che l'autrice ha incontrato e supportato. Un'immersione totale, commovente e a tratti scioccante, che non lascia il lettore indifferente. Perché dietro ai pugni di un bullo o di un fidanzato violento, dietro ai tagli di un autolesionista o al silenzio di una ragazza stuprata, c'è sempre un oceano di dolore e di rabbia in cui annega la razionalità, un'incapacità di comunicare che si accompagna al desiderio di ascolto e comprensione e alla voglia di riscatto.

Alla base dei problemi relazionali dei giovani spesso c'è la difficoltà di riconoscere e gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle dell'altro, la paura, la noia, l'iperprotettività dei genitori o, al contrario, la totale mancanza di regole e controllo. Non va poi dimenticato che sono figli di una società dove violenza e aggressività sono normalizzate e parte della dieta mediatica quotidiana. Una società molto competitiva, e assai poco cooperativa.

Quando i suoi giovani pazienti le dicono «tu mi leggi nel pensiero», la dottoressa Manca sorride e risponde che semplicemente li ascolta, conosce il loro mondo e si mette nei loro panni. Nessun ragazzo è «sbagliato», così come nessun ragazzo è «perduto». Molti perseverano nell'errore o nel dolore perché sono circondati da adulti assenti, sordi o indifferenti alle loro richieste d'aiuto. Conoscerli, capirli, è il primo passo per aiutarli.

Maura Manca è psicologa clinica, psicoterapeuta, psicodiagnosta forense e blogger. È presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenza Onlus e ideatrice del portale AdoleScienza.it. Già consulente psicologica dei programmi televisivi di Rai2 «Mai più bullismo» e di Rai1 «La vita in diretta», è ospite di numerose trasmissioni radiofoniche e televisive, come «Uno mattina», «Storie italiane» e «Mattino 5». È stata docente universitaria, oggi insegna in diversi corsi di formazione in tutta Italia. Scrive per diverse riviste, quotidiani e settimanali ed è autrice di numerosi articoli scientifici di rilevanza nazionale e internazionale. Tra i suoi libri ricordiamo La rete del bullismo, il bullismo nella rete (2014), Generazione hashtag (2016), L'autolesionismo nell'era digitale (2017) e Ragazzi violenti (2018).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835704645
VIII

Credevo fosse amore

«Dai, suona, dai, dai!»
Inizierei da qui. Da quella II B del liceo scientifico che in quei giorni mi sembrava ancora più stretta del solito. Mi trovavo in classe solo con il corpo, con la testa ero completamente altrove. Non mi sono mai spiegata per quale strana legge della fisica quella maledetta campanella, quando deve suonare, non suona mai, e sembra che il tempo non scorra più. E se invece non hai ancora terminato il compito in classe e speri con tutta te stessa che non suoni, puoi star certo che lo farà in un lampo. Driiiiiiiiiin.
Eccola, finalmente! Com’è bello il suono della libertà. Il tempo di mettermi lo zaino in spalla, un saluto ai compagni e via.
Avete presente quei momenti in cui desideri intensamente trovarlo lì fuori ad aspettarti e non vedi l’ora di incrociare i suoi occhi? Ecco, in quei giorni mi sentivo proprio così. Era da poco che io e Fabio stavamo insieme, circa tre mesi, ma a me sembrava già una vita. Camminavo tre metri sopra il cielo, ero felice e avevo la sensazione che ogni cosa fosse più bella del solito: quando sei innamorato, anche le solite rotture quotidiane sembrano molto più leggere. Era più grande di me di cinque anni, non studiava più – non gli piaceva –, lavorava in una palestra e da qualche settimana mi aspettava quasi ogni giorno davanti al cancello di scuola, seduto sul suo scooterone parcheggiato vicino al mio, con una sigaretta in mano e lo sguardo sempre attento per assicurarsi che non mi si avvicinasse nessuno. Si dimostrava molto protettivo nei miei confronti e a me questo piaceva, mi faceva sentire speciale, amata e importante; le mie amiche, invece, mi dicevano che sembrava costantemente arrabbiato e non dava loro confidenza. Per me però dipendeva solo dal suo carattere, solitario e molto diffidente verso chi non conosceva. Con me non era così.
Ironizzavo sul fatto che mi scortasse fino a casa, che fosse la mia guardia del corpo personale; lui sorrideva, mi dava un bacio e con un colpo di acceleratore sfrecciava via. Dovevo rientrare in tempo per pranzo, perché mio padre e mia madre volevano che mi sedessi a tavola con loro e con quella rompiscatole di mia sorella. Tra un piatto e l’altro partivano con il solito cd; probabilmente ogni genitore è geneticamente dotato di questa cantilena quotidiana che ripete fino allo sfinimento. Chissà, forse quando nascono i figli ci si dimentica improvvisamente di essere stati adolescenti… Credo sia un mistero che la scienza deve ancora svelare. Spero che lo faccia in fretta, perché sono veramente pesanti. Vi fornisco un piccolo assaggio: «Com’è andata a scuola?», «Ti hanno interrogato?», «È possibile che non ti interroghino mai?», «Hai fatto i compiti?», «Hai studiato?», «Metti a posto!», «Sei disordinata!», «Staccati da quel telefono!», e potrei continuare per ore. A volte mi domandavo se scegliessero di non accedere al registro elettronico per via del loro ditino pesante, dato che lì avrebbero trovato le risposte che cercavano e mi avrebbero evitato i soliti, inutili resoconti quotidiani.
Comunque, a scuola andavo discretamente bene, nonostante per loro non fosse mai sufficiente e insistessero nel dire che avrei dovuto fare di più. Un po’ come le frasi fatte pronunciate durante i colloqui dai professori, secondo i quali non ti applichi mai abbastanza e puoi sempre sforzarti di migliorare. Studiavo con regolarità, perché avevo capito che se avessi avuto bei voti sarei riuscita a ottenere molto di più da loro e facendo meno fatica; insomma, era una questione di sopravvivenza: non avevo voglia di combattere anche con i miei genitori. Volevo uscire con Fabio il più possibile e quindi, dopo aver mangiato, mi mettevo subito sotto con i compiti, per poi schizzare fuori casa e fiondarmi da lui.
Trascorrevamo tanto tempo insieme e ogni volta che dovevamo staccarci per rientrare a casa mi rattristavo. Fabio era bello, impossibile e abbastanza irraggiungibile, dato che nessuna prima era riuscita a incastrarlo in una relazione sentimentale. Eppure era lì con me: passavamo le ore in giro in scooter, mi piaceva da morire abbracciarlo da dietro e correre veloci, ero avvolta da una profonda sensazione di libertà. Parlavamo tanto e adoravo perdermi nei suoi occhi, neri e tenebrosi come l’oscurità ma nel contempo brillanti come le stelle. Mi piacevano i suoi abbracci soffocanti, dove mi sentivo piccola e protetta, con la sensazione che nessuno mi potesse fare del male. Lui era forte e abbastanza muscoloso, visto che trascorreva tante ore in palestra ed era cresciuto nel mondo delle arti marziali. In quel periodo, invece, io non potevo praticare sport, perché mi ero fratturata un braccio in un incidente con lo scooter ed ero ancora in fase di convalescenza; di lì a breve, però, avrei ripreso anche io.
Io e Fabio eravamo sulla stessa lunghezza d’onda in tutto, mi sentivo finalmente capita in un mondo che non comprendeva il mio essere «diversa». Io ero a mio agio soprattutto quando stavo con le persone più grandi di me, avevo tanti conoscenti ma pochi amici, mi fidavo di poche persone. Ero molto pratica, autonoma, abbastanza aggressiva quando serviva, sufficientemente ribelle, non la mandavo a dire a nessuno, nonostante fossi nel contempo anche insicura, introversa e sensibile alle critiche. La mia aggressività era probabilmente una maschera per nascondere la mia fragilità. Quando sei duro e irruente gli altri si fermano alla facciata e non vanno oltre, ti giudicano per quello che mostri di te, non per quello che sei; infatti tutti mi dicevano che ragionavo e pensavo come un maschio. A Fabio, invece, piaceva il mio modo di essere, riusciva a vedere la mia essenza come io la sua: aveva pochi amici, era un lupo solitario, trascorreva ore nella sua stanza ad ascoltare la musica a tutto volume e poi andava a sfogarsi in palestra. La sua era una famiglia per modo di dire, molto disgregata: una madre concentrata solo su se stessa e sul lavoro, un padre dall’umore altalenante. Era autoritario, lo aveva cresciuto con l’imposizione e la forza, mentre la moglie ne era quasi succube, e litigavano spesso per la sua possessività e la sua costante paura di essere tradito. A me sembrava una famiglia di pazzi, ma non mi interessava: io stavo bene con Fabio e il resto scivolava in secondo piano.
Durante la settimana dovevo rientrare in tempo per cena, mentre il sabato potevo uscire anche di sera e tornare tardi. Durante il weekend ci piaceva andare a ballare, bevevamo e a volte ci ubriacavamo insieme. Nei locali Fabio mi seguiva come un segugio, mi controllava, aveva paura che mi potesse accadere qualcosa o che qualcuno mi importunasse; nonostante a volte esagerasse con questo atteggiamento apprensivo, che ci portava a discutere, con lui mi sentivo sicura. Certo, capitava che mi mettesse il muso anche quando parlavo con i miei amici o li abbracciavo… Ho dovuto rinunciare a questo mio modo di rapportarmi con le persone perché lui non lo capiva o, meglio, non lo accettava; riteneva eccessiva questa espansività che poteva essere fraintesa dagli altri ragazzi, e poi aggiungeva che non era corretta nei suoi confronti: cosa avrebbe pensato la gente? Ero costretta a mantenere le distanze anche dalle persone che frequentavo da sempre per evitare una sua scenata. Oltretutto non amava particolarmente le mie amiche, soprattutto Stella, che conoscevo da cinque anni e con cui vivevo praticamente in simbiosi. Lei mi diceva che Fabio non era adatto a me, che mi stava cambiando, e io di contro cercavo di convincerla che non fosse vero. Fabio nel frattempo sosteneva che Stella avrebbe potuto inculcarmi idee strane su di lui, che non lo conosceva e si permetteva di giudicarlo; temeva che mi facessi condizionare da lei. A causa sua litigavamo spesso, ma io, almeno nella fase iniziale, non mollavo. Stella era Stella, e non volevo scegliere tra loro due.
Il fatto che Fabio venisse ogni giorno a prendermi all’uscita di scuola significava non avere più il tempo di fumare una sigaretta e di fare due chiacchiere con i miei amici; in più lui non studiava e questo mi frenava dal parlargli dei miei problemi con i prof e dei compiti, perché non gli importava niente della scuola. Inoltre considerava la chat WhatsApp di classe solo un’inutile perdita di tempo, non ne comprendeva il senso. Non è che avesse tutti i torti… A parte passarsi i compiti, serviva soprattutto a riempire tanti buchi e a farci compagnia.
Ricordo ancora la nostra prima litigata importante, dovuta, per me, a un’assurdità che lui invece riteneva una questione di principio imprescindibile. Un mio compagno di classe cretino aveva mandato un video porno nella chat, tanto per ridere; del resto accadeva molto spesso che ognuno inviasse stupidate di ogni genere. Fabio aveva preso l’abitudine di controllarmi il cellulare: secondo lui, se davvero non avevo nulla da nascondere, poteva anche leggere ciò che scrivevo e che mi scrivevano. Io non gradivo molto… Non facevo mai niente di sospetto, ma d’altra parte pensavo non avesse senso ficcare il naso nei segreti che mi raccontavano le mie amiche, nei loro problemi personali e in quelli delle loro famiglie.
Quando si è accorto del video si è infuriato ed è iniziata una litigata pazzesca, condita da una serie di insulti piuttosto pesanti. Io ero basita, per me scambiarci continuamente stronzate nella chat era la prassi, per lui invece era pura follia. Ha preso il telefono e mi ha fatto abbandonare il gruppo, proibendomi di farne ancora parte. Per la prima volta, mentre mi imponeva un divieto del genere, non mi sentivo capita da lui; fino a quel momento sapevo che determinati comportamenti lo infastidivano e quindi tendenzialmente li evitavo per non creare inutili problemi. Ero incredula, quella reazione era ingiusta nei miei confronti: perché non potevo avere contatti con la mia classe, perché dovevo rinunciare a un legame del genere?
Quel giorno tornai a casa in lacrime e non chiamai nemmeno Stella, tanto sapevo già cosa mi avrebbe detto. Avrebbe ribadito di avermi già messo in guardia più volte sul fatto che Fabio fosse uno stronzo e mi avrebbe suggerito di lasciarlo. Una volta varcata la porta di casa, l’intuito infallibile di mia madre la portò ad attivare la seconda parte del solito cd del genitore, quella del: «Cos’hai?», «Ti è successo qualcosa?», a cui segue la risposta tipica di un adolescente che non vuole parlare: «Niente, sto bene». Quando invece era veramente palese che fosse accaduto qualcosa, bastava dire: «Ho litigato con Stella». Ci voleva veramente poco per tranquillizzarli, per loro le cose importanti erano la scuola e la salute.
Dopo quella scenata, dentro di me scattò qualcosa. Tutta la meraviglia iniziale stava cambiando colore, diventava un po’ più cupa e incomprensibile. In alcuni momenti non sapevo cosa pensare e come comportarmi, sentivo che Fabio mi stava pian piano privando della mia libertà. Diventava faticoso gestire le sue reazioni, cercare di mantenere le mie amicizie e nascondere il mio stato d’animo quando ero a casa. In parallelo, però, c’erano giornate in cui solo lui mi poteva capire; quello che mi dava nei momenti in cui passavamo il tempo insieme in tranquillità era unico e irripetibile, quella sensazione di protezione e quell’amore folle che provavamo l’uno per l’altro.
In quell’occasione, però, aveva esagerato. L’avevo bloccato su WhatsApp e su Instagram e gli avevo impedito di telefonarmi. La mattina seguente me l’ero ritrovato a scuola, questa volta all’ingresso. Era venuto per chiedermi scusa, per dirmi che in quel momento non era in sé, che mi amava troppo e non poteva più vivere senza di me. Non c’è voluto molto per convincermi e superare quella nostra prima crisi profonda. Dopo aver fatto pace diventava tutto ancora più bello; forse la paura di perderlo mi faceva andare oltre le sue fissazioni e i suoi comportamenti e mi induceva a rivalutarli. Nelle settimane successive alle litigate furiose, Fabio era più calmo, si sforzava di essere meno apprensivo e geloso, cercava di concedermi più libertà, anche se poi, giorno dopo giorno, ritornava tutto come prima. Io mi sentivo nuovamente compresa, ormai uscivo molto meno con le amiche e, quando stavo con loro, Fabio trovava sempre il modo di farmi una «sorpresa», come la chiamava lui. Devo dire la verità, nei primi mesi adoravo i suoi fuori programma; per me era un segno di amore, non poteva stare senza di me e voleva vedermi in ogni momento.
Con il passare del tempo, però, è diventato tutto un po’ più stretto e complicato da gestire. Le mie uscite con Stella iniziavano a mancarmi, lei mi stava sostituendo con Maria e Claudia. Cominciavo a sentirmi sola, non potevo parlare più con nessuno perché ero consapevole che mi avrebbero detto tutti la stessa cosa: «Da quando stai con Fabio sei cambiata, perché non lo lasci?». A volte avrei voluto farlo, forse la mia vita sarebbe stata diversa; ma lui viveva per me, era troppo innamorato, avevo quasi paura che potesse fare qualche stronzata. Mi ripeteva spesso la frase: «Tu sei mia», che nei primi mesi suonava come musica nelle mie orecchie. E poi, quando eravamo noi due da soli, senza interferenze del mondo esterno, riuscivo a vivere delle sensazioni uniche che non avevo mai sperimentato prima.
Gli amici di Fabio mi chiedevano cosa gli avessi fatto, se lo avessi stregato o mi fossi inventata una pozione per fargli perdere la testa per me. Sinceramente non lo sapevo; io lo ascoltavo, lo capivo ed ero sulla sua stessa lunghezza d’onda, almeno all’inizio della nostra storia. Riuscivo a cogliere i lati più profondi del suo carattere, che mascherava con un’apparente rudezza e rigidità; in fondo era insicuro e impaurito al pensiero che potessi lasciarlo o tradirlo. Fondamentalmente, era arrabbiato con il mondo. Il nostro rapporto cambiava e si solidificava: più ci legavamo, meno riusciva a fare a meno di me, più diventava possessivo e ossessionato dal fatto che avrei potuto abbandonarlo o tradirlo. Cercavo sempre di tranquillizzarlo, di dirgli che lo amavo e che per me c’era solo ed esclusivamente lui, ma a volte non era così facile convincerlo, anzi.
Ogni volta che rinunciavo a qualcosa per lui, giustificavo il mio comportamento ripetendo: «Tanto non mi costa niente». Tanto non mi costa niente qua, tanto non mi costa niente là, alla fine mi sono resa conto di essermi isolata. Aprivo Instagram per guardare quello che faceva Stella con le altre amiche, ovviamente non davanti a lui; vedevo le loro story, percepivo quanto si divertissero, mentre io non pubblicavo quasi più niente se non frasi di canzoni e di film che trovavo in rete, quelle le potevo ancora postare. Fabio a un certo punto aveva anche creato un profilo falso per mettermi alla prova, capire se accettavo le richieste di amicizia da parte di sconosciuti, se parlavo con loro e soprattutto se glielo dicevo. Mi rendevo conto che esagerava e che il rapporto stava diventando soffocante, eppure riusciva sempre a farmi cambiare idea, a manipolarmi e a pressarmi fino a convincermi delle sue ragioni: «Se tu parli con le persone che non conosci, cosa penseranno di me? Si faranno l’idea che sono un coglione, un povero cornuto, e che tu sei una puttana». Cercavo invano di fargli capire che stava esagerando, che guardare il profilo degli altri e mettere qualche like non significava fargli le corna, ma diventava un’impresa sempre più difficile. Poi, per sfinimento, cedevo e mi imponevo di fare quello che chiedeva, anche perché le litigate erano sempre più violente e intense e a volte perdeva letteralmente il controllo. Iniziavo ad avere paura, e più avevo paura di lui più mi bloccavo; come se il terrore, invece di farmi scappare, mi irrigidisse e mi congelasse.
La sua gelosia stava crescendo senza sosta. Adesso era geloso anche quando venivano a casa gli amici dei miei genitori, perché avrebbero potuto portare a cena anche i loro figli della mia età. Mi iniziava a scrivere in maniera compulsiva e se non rispondevo subito chiamava per capire cosa stessi facendo e perché non avessi in mano il telefono. Scattava automaticamente l’interrogatorio, voleva sapere ogni dettaglio e guai a commettere un errore, doveva tornare tutto per filo e per segno. Dovevo dirgli come ero vestita, se mi ero truccata, con chi avevo parlato e cosa ci eravamo detti, e finiva sempre chiedendomi: «Ma c’è proprio bisogno che vengano a casa tua?!»… Un giorno per sbaglio gli ho raccontato che mentre ero in cucina a prendere dell’acqua ho incrociato il figlio di Lina e Alberto, era uscito dal bagno e ci siamo fermati a parlare. Apriti cielo! Quello che non è uscito dalla sua bocca lo potete solo immaginare. La discussione è terminata quando mi ha imposto che, se i miei genitori avessero invitato ancora dei ragazzi a cena, sarebbe dovuto venire anche lui, oppure sarei dovuta uscire con lui fregandomene degli ospiti. Non era corretto nei suoi confronti, mi sarei dovuta mettere nei suoi panni, avrei dovuto riflettere sui miei comportamenti, lui stava solo a casa a pensare a me e io a divertirmi alle sue spalle: tutte manipolazioni mentali che alla fine mi portavano a chiedergli scusa, a credere che avesse ragione e a farlo diventare il mio carnefice.
Per evitare continue litigate trascorrevo il mio tempo quasi esclusivamente con Fabio, dato che a volte si arrabbiava anche quando uscivo da sola con mia madre o con mia sorella. Cosa pensava potessi fare in compagnia di loro due? Mi diceva che non avrei dovuto fermarmi a parlare con chi incrociavo per strada, che avrei dovuto restare fuori solo per il tempo necessario alla commissione. Per questa ragione alla fine preferivo chiudermi nella mia camera a leggere, scrivere, ascoltare musica e studiare: mi aiutava a non pensare. Mi trovavo spesso a piangere e a fantasticare tra quelle quattro mura; mi perdevo nelle parole delle canzoni, e tante volte mi guardavo allo specchio e mi facevo pena da sola per come mi ero ridotta. Spesso mi appoggiavo al muro del mio terrazzino e osservavo la vita che scorreva fuori da quelle mura, oppure mi sedevo sul letto e avevo bisogno di abbracciarmi da sola, di contenermi, di stringermi forte per anestetizzare il dolore. Agli occhi di tutti ero libera, forte e intelligente, eppure vivevo in una prigione invisibile e nessuno se ne accorgeva. Al contrario di ciò che intuitivamente si può pensare, quando ti trovi in una situazione simile non è facile chiudere tutto e ripartire: hai cambiato il tuo modo di essere, hai effettuato tante rinunce e devi accettare di aver sbagliato e di aver investito su una persona che non corrisponde più a ciò che immaginavi. Anche le amiche dopo un po’ si stufano di stare dietro ai tuoi problemi, la vita scorre e non possono fermarsi per cercare di trascinarti con loro.
Per i miei genitori si trattava delle solite crisi adolescenziali e delle litigate tra fidanzati, per loro erano ragazzate. Anzi, paradossalmente erano felici perché trascorrevo più tempo a casa, sebbene stessi chiusa in camera mia; andavo bene a scuola e uscivo solo con Fabio, così loro non si preoccupavano più che potesse accadermi qualcosa perché tanto c’era lui a proteggermi, e non capivano che invece era proprio la persona dalla quale dovevo essere protetta. Avevano le risposte sotto gli occhi e tuttavia non riuscivano a comprenderle. Per un genitore quella può sembrare in apparenza una condizione ideale. Per una figlia, decisamente meno.
Solo nonna aveva l’occhio lungo. Non le ho mai raccontato ciò che stava accadendo, ma Fabio non le piaceva, secondo lei non andava bene per me. Ha provato a parlare con mamma e papà, ma per loro esagerava e basta. Nonna si era accorta che soffrivo e che i miei genitori vedevano la realtà che volevano vedere. Mi ripeteva sempre questa frase: «Dove c’è amore c’è rispetto. Quando si ama davvero si fa attenzione ai sentimenti dell’altro. L’amore non è paura». Altre volte mi diceva che «una relazione non isola, non fa terra bruciata intorno, perché alla base di tutto c’è la libertà». Purtroppo però lei viveva in un piccolo paese molto lontano dal mio e non la vedevo spesso, soprattutto dopo la morte di nonno.
Quando ho ripreso l’attività fisica dopo lo stop dovuto all’incidente in scooter, Fabio ha voluto che mi iscrivessi nella sua palestra e mi allenassi direttamente con lui, con la scusa che non si fidava degli altri allenatori. Mi pressava anche lì; voleva che fossi brava, disciplinata, e mi metteva sotto perché dovevo ottenere un bel fisico come lui, diventare più forte e imparare a difendermi. Mi ero anche messa a dieta, dimagrivo a vista d’occhio, ero arrivata a pesare quarantasei chili e i miei genitori, fissati anche loro con il peso, mi facevano i complimenti. Avevo sempre più difficoltà a capire la...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Leggimi nel pensiero
  4. I. Troppo bello per essere vero
  5. II. Mi chiamavano Veleno
  6. III. Sembrava uno a posto
  7. IV. Era solo uno scherzo, dicevano
  8. V. Ti amo troppo
  9. VI. Mi fidavo di te
  10. VII. Il mio corpo racconta chi sono
  11. VIII. Credevo fosse amore
  12. Conclusione. La fine di un viaggio
  13. Copyright